T e m p o d i Q u a r e s i m a
Venerdì Santo - 18 Aprile
Le Letture Bibliche: Isaia 52,13-53,12; Lettera agli Ebrei 4,14-16;5,7-9; Giovanni 18,1-19-42
Molti giornali nei giorni scorsi hanno pubblicato quella che una Giuria internazionale ha scelto come “foto dell’anno”; rappresenta un bambino palestinese di 9 anni che oggi non ha più le braccia. E’ rimasto gravemente ferito mentre fuggiva durante un bombardamento a Gaza. Si era voltato per incitare la sua famiglia a proseguire, quando un'esplosione gli ha amputato il braccio destro e devastato l'altro, il sinistro. Quando questo bambino si è reso conto dell’accaduto, si è rivolto alla mamma e le ha detto: “ Mamma, come farò d’ora in poi ad abbracciarti?”.
Perché ho riferito questo tragico fatto? Perché è la riprova di quello che (almeno in teoria) sappiamo da sempre: la passione di Gesù non è mai finita; continua nella passione di tantissimi innocenti, vittime della crudeltà degli arroganti e dei potenti. Davvero, come diceva Pascal, Gesù Cristo e’ in agonia fino alla fine dei tempi…
Ma questo mi fa pensare anche a un’altra cosa che ha direttamente a che vedere con il Venerdì santo e con la passione del Signore… È risorto Gesù, lo crediamo. E’ il fondamento della nostra fede questa certezza; senza questa, tutto crolla.
Ma perché l’immagine di lui che abbiamo sempre davanti agli occhi è quella del Crocifisso? Nelle chiese, nelle nostre case, nei capitelli lungo le strade… Il crocifisso!
È giusto, è provvidenziale che sia così… La passione e la morte di Gesù non è stata solo un pedaggio da pagare per arrivare alla risurrezione. È soffrendo e morendo in quel modo che ci ha dato la vita, la Salvezza diciamo noi con una parola grossa. Ed è per questo che anche da Risorto conserva quelle piaghe aperte… che resteranno sempre aperte senza diventare mai cicatrici!
Il Crocifisso!
Se quel bambino senza più braccia si preoccupava di come poter abbracciare la sua mamma… Gesù Crocifisso non ha motivo di preoccuparsi: ci potrà sempre accogliere a braccia aperte, perché quelle braccia sono rimaste inchiodate…per sempre!
Se i suoi piedi, che hanno camminato sulle strade polverose e sporche di questo mondo, sono stati fissati alla croce con un chiodo che li ha trapassati, ciò vuol dire che - anche se da risorto è asceso al cielo - non potrà più abbandonare questa nostra terra e l’umanità che la abita.
Se in ogni crocifisso è chiaramente visibile quella piaga del costato, aperta dalla lancia che ha trapassato il cuore, è perché quella è una porta che non dovrà mai più chiudersi: è da quel cuore che scaturisce la misericordia, è da quella ferita del costato che passa per riversarsi sul mondo… A cosa si ridurrebbe il mondo se quella fonte si prosciugasse, se quella porta, quella ferita del costato si chiudesse?
Ma quella piaga del costato è anche una porta per entrare e trovare rifugio. Con San Bernardo di Chiaravalle ciascuno di noi può dire: “Per quanti siano i peccati che mi avviliscono, per quanto miserabile io possa essere e spaventato dai rimorsi, la lancia di quel soldato sul Calvario ha aperto come un rifugio nella roccia: io potrò entrare in quel rifugio e trovare accoglienza e misericordia nel cuore del Signore!
Ecco, fratelli, cosa pensare quando solleviamo gli occhi verso il Crocifisso.
Che la sua immagine non scompaia mai dal nostro sguardo e dalla nostra coscienza di cristiani.
Le Letture Bibliche: Isaia 52,13-53,12; Lettera agli Ebrei 4,14-16;5,7-9; Giovanni 18,1-19-42
Molti giornali nei giorni scorsi hanno pubblicato quella che una Giuria internazionale ha scelto come “foto dell’anno”; rappresenta un bambino palestinese di 9 anni che oggi non ha più le braccia. E’ rimasto gravemente ferito mentre fuggiva durante un bombardamento a Gaza. Si era voltato per incitare la sua famiglia a proseguire, quando un'esplosione gli ha amputato il braccio destro e devastato l'altro, il sinistro. Quando questo bambino si è reso conto dell’accaduto, si è rivolto alla mamma e le ha detto: “ Mamma, come farò d’ora in poi ad abbracciarti?”.
Perché ho riferito questo tragico fatto? Perché è la riprova di quello che (almeno in teoria) sappiamo da sempre: la passione di Gesù non è mai finita; continua nella passione di tantissimi innocenti, vittime della crudeltà degli arroganti e dei potenti. Davvero, come diceva Pascal, Gesù Cristo e’ in agonia fino alla fine dei tempi…
Ma questo mi fa pensare anche a un’altra cosa che ha direttamente a che vedere con il Venerdì santo e con la passione del Signore… È risorto Gesù, lo crediamo. E’ il fondamento della nostra fede questa certezza; senza questa, tutto crolla.
Ma perché l’immagine di lui che abbiamo sempre davanti agli occhi è quella del Crocifisso? Nelle chiese, nelle nostre case, nei capitelli lungo le strade… Il crocifisso!
È giusto, è provvidenziale che sia così… La passione e la morte di Gesù non è stata solo un pedaggio da pagare per arrivare alla risurrezione. È soffrendo e morendo in quel modo che ci ha dato la vita, la Salvezza diciamo noi con una parola grossa. Ed è per questo che anche da Risorto conserva quelle piaghe aperte… che resteranno sempre aperte senza diventare mai cicatrici!
Il Crocifisso!
Se quel bambino senza più braccia si preoccupava di come poter abbracciare la sua mamma… Gesù Crocifisso non ha motivo di preoccuparsi: ci potrà sempre accogliere a braccia aperte, perché quelle braccia sono rimaste inchiodate…per sempre!
Se i suoi piedi, che hanno camminato sulle strade polverose e sporche di questo mondo, sono stati fissati alla croce con un chiodo che li ha trapassati, ciò vuol dire che - anche se da risorto è asceso al cielo - non potrà più abbandonare questa nostra terra e l’umanità che la abita.
Se in ogni crocifisso è chiaramente visibile quella piaga del costato, aperta dalla lancia che ha trapassato il cuore, è perché quella è una porta che non dovrà mai più chiudersi: è da quel cuore che scaturisce la misericordia, è da quella ferita del costato che passa per riversarsi sul mondo… A cosa si ridurrebbe il mondo se quella fonte si prosciugasse, se quella porta, quella ferita del costato si chiudesse?
Ma quella piaga del costato è anche una porta per entrare e trovare rifugio. Con San Bernardo di Chiaravalle ciascuno di noi può dire: “Per quanti siano i peccati che mi avviliscono, per quanto miserabile io possa essere e spaventato dai rimorsi, la lancia di quel soldato sul Calvario ha aperto come un rifugio nella roccia: io potrò entrare in quel rifugio e trovare accoglienza e misericordia nel cuore del Signore!
Ecco, fratelli, cosa pensare quando solleviamo gli occhi verso il Crocifisso.
Che la sua immagine non scompaia mai dal nostro sguardo e dalla nostra coscienza di cristiani.
Giovedì Santo - 17 Aprile
Le Letture Bibliche: Esodo 12,1-8.11-14; 1Corinzi 11,23-26; Giovanni 13,1-15
“Il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane e lo diede loro dicendo: Questo è il mio corpo, per voi. Poi offrì il calice del vino e disse: “Questo è il mio sangue, sparso per voi… Fate questo in memoria di me”. E così è nata la Messa, o meglio: l’Eucaristia. E’ san Paolo che ce lo riferisce (era la 2° lettura). Il Vangelo che abbiamo ascoltato però non ne parla… E sì che è importante l’Eucaristia: è il tesoro più prezioso che abbiamo noi cristiani… perché l’evangelista Giovanni (che ha scritto dopo gli altri evangelisti) non ce la racconta? Ci riferisce invece – e in maniera dettagliata – quella vicenda della lavanda dei piedi… “Gesù si pose un asciugatoio attorno ai fianchi, versò dell’acqua in un catino e cominciò a lavare i piedi ai suoi discepoli!”. Doveva averne acqua a dsposizione perché erano i piedi di 12 persone, e sporchi, perché allora si camminava scalzi su strade di terra battuta… La reazione di Pietro, poi, la possiamo comprendere benissimo: infatti non pensiamo anche noi come lui, che cioè Dio è colui che sta al di sopra di tutti, tanto in alto da chiamrlo col nome di “Altissimo”? Come si può pensare che scenda più in basso di noi? Sì perché se vuole lavarmi i piedi deve inginocchiarsi davanti a me! E da quando in qua? Siamo noi, caso mai, che ci inginocchiamo davanti a lui… “Signore, tu non mi laverai mai i piedi!”. Tu non devi scendere così in basso: non sei un servo o uno schaivo; tu sei il Signore!
Ma che motivo aveva Gesù per fare una cosa del genere? Il Vangelo ce l’ha detto: “Sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino al segno supremo”. Segno supremo vuol dire che amare più di così non si può: è il massimo. Oggi ce ne dà il segno, domani ci offrirà la realtà: la croce, e lui sopra: crocifisso. Per amore. Ecco perché Dio è sceso così in basso, al punto da diventare nostro servo.
Certo, l’amore, il perdono e altre grandi belle parole, appartengono anche al nostro vocabolario umano: non occorre essere cristiani per adoperarle. Ma a quella parola “amore” Gesù ha dato un senso nuovo e inconfondibile. E’ il “come”, la qualità che distingue l’amore di Gesù: “Vi ho dato un esempio – dice – perché anche voi facciate come io ho fatto a voi”. L’amore di Gesù si fa tangibile, concreto, nel servire, sia che si tratti di lavare i piedi ai suoi apostoli, sia – e soprattutto - che si lasci inchiodare e morire sulla croce: infatti, più esattamente, il suo non sarà un morire, ma un dare la vita. E’ ben diverso.
Nella ritrosia di Pietro ad accettare quel gesto penso che poco o tanto possiamo riconoscerci tutti, cari fratelli; sì, perché, anche se riascoltiamo ogni anno questa storia di Gesù che lava i piedi, anche se l’immagine di lui crocifisso si staglia spesso davanti ai nostri occhi, io ho il sospetto che facciamo ancora fatica a capire chi è Dio per noi… E’ ancora diffusa l’idea che siamo noi che ogni tanto dobbiamo prestare qualche servizio a Dio … e che lui, da padrone qual è, quando meno ce l’aspettiamo si prende qualcosa di noi, magari la nostra vita…
Verrà quella Pasqua in cui capiremo che è Lui invece che si mette al nostro servizio, ai nostri piedi, e la nostravita non ce la toglie affatto ma ci dà la sua? E se è così, qual è allora la religione vera, credibile e vivibile? Gesù, la sera del Cenacolo e il giorno dopo sul Calvario, giudica e mette in guardia da ogni forma di religione che non sia servizio all’uomo: l’uomo o la donna in carne e ossa, soprattutto se ferito, sporco, disprezzato, dimenticato, rifiutato, umiliato... e chi più ne ha, più ne metta. Questa è l’unica religione legittima, quella di Gesù. Ed essere cristiani significa stare con i piedi per terra proprio al servizio di quell’uomo, per rimetterlo in piedi e restituirgli dignità. E non in un modo qualsiasi, ma con profonda sensibilità.
Infatti, proviamo ad immaginare la scena di quella sera nel Cenacolo: Gesù inginocchiato che lava i piedi ai suoi dodici… Non può averlo fatto in modo grossolano, storcendo il naso…no: se era l’amore a spingerlo, deve averlo fatto con delicatezza, o meglio ancora: tenerezza: sì, con tutta la tenerezza di Dio.
Ebbene, fratelli: quali che siano i nostri caratteri - miti, aperti, gioviali, oppure rudi e tagliati giù in qualche modo (come il mio) – noi non amiamo da cristiani se non ci mettiamo tenerezza, a cominciare dalle relazioni tra noi; altrimenti siamo semplicemente dei faccendieri invece che dei fratelli. La tenerezza è un atteggiamento adulto, anche se magari ci fa pensare ai bambini (ma “se non diventerete come bambini – ci insegna il Signore – non entrerete nel Regno dei cieli”). La tenerezza è una virtù dolce, ma tutt’altro che debole. E il gesto di Gesù che lava i piedi ai discepoli è certamente dolce, ma è anche carico di una forza e di un vigore a tutta prova. Solo chi è adulto può provare tenerezza, perché sa cos’è la fragilità, il limite, e tenerezza è accorgersi della fragilità e prendersene cura. Sì, si hanno davanti dei piedi sporchi a volte, ma la tenerezza impedisce di storcere il naso: la tenerezza vede che possono diventare puliti, che quella persona può rialzarsi, risollevare la fronte, riprendere coraggio. Insomma, bene ha fatto l’evangelista Giovanni a raccontarci di Gesù che lava i piedi agli apostoli.
Che senso ha allora, fratelli, andare a Messa, fare la Comunione, ricevere il Corpo e il sangue del Signore? Non è sufficiente far del bene agli altri, dedicarsi a servire il prossimo, con tenerezza appunto? Perché è necessario partecipare all’Eucaristia? Eccolo il perché: vedete, nessuno può dare agli altri quello che non ha. La disponibilità a servire per qualche volta, forse la possiamo trovare anche in noi stessi; ma la costanza nel servire, e sempre con tenerezza… no, questa non è da noi, non è nelle nostre possibilità: la possiamo soltanto ricevere: da Gesù, nell’Eucaristia.
Dobbiamo lasciarci lavare i piedi da lui per poter amare come lui. E’ Dio, è Gesù, l’esperto in tenerezza.
Signore Gesù, insegnaci ad apprezzare il dono che ci fai nel pane e nel vino della Comunione. Insegnaci a fare unità tra la Messa e le occasioni di servire che ci si presentano quotidianamente. Insegnaci la tua tenerezza, Signore, così che la nostra vita tutta intera diventi un’unica Liturgia: che piace a Dio e che dà soddisfazione anche a noi, e – con noi - a tutti quelli che incontriamo ogni giorno. Amen
Le Letture Bibliche: Esodo 12,1-8.11-14; 1Corinzi 11,23-26; Giovanni 13,1-15
“Il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane e lo diede loro dicendo: Questo è il mio corpo, per voi. Poi offrì il calice del vino e disse: “Questo è il mio sangue, sparso per voi… Fate questo in memoria di me”. E così è nata la Messa, o meglio: l’Eucaristia. E’ san Paolo che ce lo riferisce (era la 2° lettura). Il Vangelo che abbiamo ascoltato però non ne parla… E sì che è importante l’Eucaristia: è il tesoro più prezioso che abbiamo noi cristiani… perché l’evangelista Giovanni (che ha scritto dopo gli altri evangelisti) non ce la racconta? Ci riferisce invece – e in maniera dettagliata – quella vicenda della lavanda dei piedi… “Gesù si pose un asciugatoio attorno ai fianchi, versò dell’acqua in un catino e cominciò a lavare i piedi ai suoi discepoli!”. Doveva averne acqua a dsposizione perché erano i piedi di 12 persone, e sporchi, perché allora si camminava scalzi su strade di terra battuta… La reazione di Pietro, poi, la possiamo comprendere benissimo: infatti non pensiamo anche noi come lui, che cioè Dio è colui che sta al di sopra di tutti, tanto in alto da chiamrlo col nome di “Altissimo”? Come si può pensare che scenda più in basso di noi? Sì perché se vuole lavarmi i piedi deve inginocchiarsi davanti a me! E da quando in qua? Siamo noi, caso mai, che ci inginocchiamo davanti a lui… “Signore, tu non mi laverai mai i piedi!”. Tu non devi scendere così in basso: non sei un servo o uno schaivo; tu sei il Signore!
Ma che motivo aveva Gesù per fare una cosa del genere? Il Vangelo ce l’ha detto: “Sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino al segno supremo”. Segno supremo vuol dire che amare più di così non si può: è il massimo. Oggi ce ne dà il segno, domani ci offrirà la realtà: la croce, e lui sopra: crocifisso. Per amore. Ecco perché Dio è sceso così in basso, al punto da diventare nostro servo.
Certo, l’amore, il perdono e altre grandi belle parole, appartengono anche al nostro vocabolario umano: non occorre essere cristiani per adoperarle. Ma a quella parola “amore” Gesù ha dato un senso nuovo e inconfondibile. E’ il “come”, la qualità che distingue l’amore di Gesù: “Vi ho dato un esempio – dice – perché anche voi facciate come io ho fatto a voi”. L’amore di Gesù si fa tangibile, concreto, nel servire, sia che si tratti di lavare i piedi ai suoi apostoli, sia – e soprattutto - che si lasci inchiodare e morire sulla croce: infatti, più esattamente, il suo non sarà un morire, ma un dare la vita. E’ ben diverso.
Nella ritrosia di Pietro ad accettare quel gesto penso che poco o tanto possiamo riconoscerci tutti, cari fratelli; sì, perché, anche se riascoltiamo ogni anno questa storia di Gesù che lava i piedi, anche se l’immagine di lui crocifisso si staglia spesso davanti ai nostri occhi, io ho il sospetto che facciamo ancora fatica a capire chi è Dio per noi… E’ ancora diffusa l’idea che siamo noi che ogni tanto dobbiamo prestare qualche servizio a Dio … e che lui, da padrone qual è, quando meno ce l’aspettiamo si prende qualcosa di noi, magari la nostra vita…
Verrà quella Pasqua in cui capiremo che è Lui invece che si mette al nostro servizio, ai nostri piedi, e la nostravita non ce la toglie affatto ma ci dà la sua? E se è così, qual è allora la religione vera, credibile e vivibile? Gesù, la sera del Cenacolo e il giorno dopo sul Calvario, giudica e mette in guardia da ogni forma di religione che non sia servizio all’uomo: l’uomo o la donna in carne e ossa, soprattutto se ferito, sporco, disprezzato, dimenticato, rifiutato, umiliato... e chi più ne ha, più ne metta. Questa è l’unica religione legittima, quella di Gesù. Ed essere cristiani significa stare con i piedi per terra proprio al servizio di quell’uomo, per rimetterlo in piedi e restituirgli dignità. E non in un modo qualsiasi, ma con profonda sensibilità.
Infatti, proviamo ad immaginare la scena di quella sera nel Cenacolo: Gesù inginocchiato che lava i piedi ai suoi dodici… Non può averlo fatto in modo grossolano, storcendo il naso…no: se era l’amore a spingerlo, deve averlo fatto con delicatezza, o meglio ancora: tenerezza: sì, con tutta la tenerezza di Dio.
Ebbene, fratelli: quali che siano i nostri caratteri - miti, aperti, gioviali, oppure rudi e tagliati giù in qualche modo (come il mio) – noi non amiamo da cristiani se non ci mettiamo tenerezza, a cominciare dalle relazioni tra noi; altrimenti siamo semplicemente dei faccendieri invece che dei fratelli. La tenerezza è un atteggiamento adulto, anche se magari ci fa pensare ai bambini (ma “se non diventerete come bambini – ci insegna il Signore – non entrerete nel Regno dei cieli”). La tenerezza è una virtù dolce, ma tutt’altro che debole. E il gesto di Gesù che lava i piedi ai discepoli è certamente dolce, ma è anche carico di una forza e di un vigore a tutta prova. Solo chi è adulto può provare tenerezza, perché sa cos’è la fragilità, il limite, e tenerezza è accorgersi della fragilità e prendersene cura. Sì, si hanno davanti dei piedi sporchi a volte, ma la tenerezza impedisce di storcere il naso: la tenerezza vede che possono diventare puliti, che quella persona può rialzarsi, risollevare la fronte, riprendere coraggio. Insomma, bene ha fatto l’evangelista Giovanni a raccontarci di Gesù che lava i piedi agli apostoli.
Che senso ha allora, fratelli, andare a Messa, fare la Comunione, ricevere il Corpo e il sangue del Signore? Non è sufficiente far del bene agli altri, dedicarsi a servire il prossimo, con tenerezza appunto? Perché è necessario partecipare all’Eucaristia? Eccolo il perché: vedete, nessuno può dare agli altri quello che non ha. La disponibilità a servire per qualche volta, forse la possiamo trovare anche in noi stessi; ma la costanza nel servire, e sempre con tenerezza… no, questa non è da noi, non è nelle nostre possibilità: la possiamo soltanto ricevere: da Gesù, nell’Eucaristia.
Dobbiamo lasciarci lavare i piedi da lui per poter amare come lui. E’ Dio, è Gesù, l’esperto in tenerezza.
Signore Gesù, insegnaci ad apprezzare il dono che ci fai nel pane e nel vino della Comunione. Insegnaci a fare unità tra la Messa e le occasioni di servire che ci si presentano quotidianamente. Insegnaci la tua tenerezza, Signore, così che la nostra vita tutta intera diventi un’unica Liturgia: che piace a Dio e che dà soddisfazione anche a noi, e – con noi - a tutti quelli che incontriamo ogni giorno. Amen
Domenica di Passione o delle Palme - 13 Aprile
Le Letture Bibliche: Isaia 50,4-7; Filippesi 2,6-11; Luca 22,14-23,56
Il racconto della Passione del Signore è già di per sé una predica. Ma un breve pensiero di riflessione si impone comunque.
Gesù Cristo è il nostro unico vero Maestro; dopo aver insegnato a parole, ora insegna con l’esempio, e noi siamo quei discepoli che a ogni Pasqua possono e devono imparare qualcosa in più, altrimenti siamo al mondo per niente…
Cosa c’è da imparare? A portare la croce… che non è la disgrazia che ci capita addosso, o la malattia imprevista… ma il coraggio di comportarci da cristiani anche quando costa. Gesù non è morto di tumore, o d’infarto: è morto per coerenza e fedeltà con ciò che aveva sempre insegnato.
C’è da imparare a perdonare chi ci fa del male (non a dimenticare: è impossibile…) ma a perdonare sì: Gesù ci dà l’esempio: “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno”.
C’è da imparare la solidarietà con chi è nella prova, con chi soffre, con chi supplica da noi un po’ di attenzione: Gesù Cristo in croce ne avrebbe più che a sufficienza del suo dolore, ma trova la forza di accogliere quel malfattore che si affida a lui: “Oggi sarai con me in Paradiso”. Non è necessario star bene per amare il prossimo; anche chi sta male lo può fare.
C’è da imparare a fidarsi di Dio in maniera incondizionata, anche quando tutte le speranze umane sono perdute: perché fidarsi? Perché è Padre e niente e nessuno potrà mai strapparci dalle sue mani: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”.
Sì, è nostro Maestro anche nella Passione il Signore, ma non potremo imparare niente senza la preghiera. Dove ha trovato Gesù la forza per affrontare tutto in maniera così equilibrata e generosa? In quella sua preghiera là, nell’orto degli ulivi. Non era un’agonia la sua, era una lotta interiore che l’ha reso forte, audace.
Fratelli, senza preghiera non è possibile essere cristiani, soprattutto quando costa. E non una preghiera slavata e monotona, ma vivace e coraggiosa.
Siamo nell’Anno Santo. Questa settimana allora ha diritto di essere considerata ancora più santa del solito. “Santo”, nella sacra Scrittura, vuol dire “diverso”, straordinario. Sì, Gesù Cristo dal canto suo ha reso davvero straordinari questi giorni, e a caro prezzo; ora tocca a noi viverli in modo diverso dal solito.
La partecipazione alle varie Celebrazioni ci aiuterà molto in questo senso, ma non bastano le Celebrazioni: dipenderà soprattutto da quanta fede viva, da quanto amore vero per il Signore ci sarà in noi e ci provocherà a viere con spirito diverso ognuno dei prossimi giorni.
Il Signore da parte sua non mancherà di renderli santi. Dipende da come li vivremo che siano giorni santi per davvero, cioè straordinariamente fruttuosi, per ciascuno di noi anzitutto, ma anche per questo mondo di oggi, che di un futuro diverso dal presente ha grande e urgente bisogno.
Le Letture Bibliche: Isaia 50,4-7; Filippesi 2,6-11; Luca 22,14-23,56
Il racconto della Passione del Signore è già di per sé una predica. Ma un breve pensiero di riflessione si impone comunque.
Gesù Cristo è il nostro unico vero Maestro; dopo aver insegnato a parole, ora insegna con l’esempio, e noi siamo quei discepoli che a ogni Pasqua possono e devono imparare qualcosa in più, altrimenti siamo al mondo per niente…
Cosa c’è da imparare? A portare la croce… che non è la disgrazia che ci capita addosso, o la malattia imprevista… ma il coraggio di comportarci da cristiani anche quando costa. Gesù non è morto di tumore, o d’infarto: è morto per coerenza e fedeltà con ciò che aveva sempre insegnato.
C’è da imparare a perdonare chi ci fa del male (non a dimenticare: è impossibile…) ma a perdonare sì: Gesù ci dà l’esempio: “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno”.
C’è da imparare la solidarietà con chi è nella prova, con chi soffre, con chi supplica da noi un po’ di attenzione: Gesù Cristo in croce ne avrebbe più che a sufficienza del suo dolore, ma trova la forza di accogliere quel malfattore che si affida a lui: “Oggi sarai con me in Paradiso”. Non è necessario star bene per amare il prossimo; anche chi sta male lo può fare.
C’è da imparare a fidarsi di Dio in maniera incondizionata, anche quando tutte le speranze umane sono perdute: perché fidarsi? Perché è Padre e niente e nessuno potrà mai strapparci dalle sue mani: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”.
Sì, è nostro Maestro anche nella Passione il Signore, ma non potremo imparare niente senza la preghiera. Dove ha trovato Gesù la forza per affrontare tutto in maniera così equilibrata e generosa? In quella sua preghiera là, nell’orto degli ulivi. Non era un’agonia la sua, era una lotta interiore che l’ha reso forte, audace.
Fratelli, senza preghiera non è possibile essere cristiani, soprattutto quando costa. E non una preghiera slavata e monotona, ma vivace e coraggiosa.
Siamo nell’Anno Santo. Questa settimana allora ha diritto di essere considerata ancora più santa del solito. “Santo”, nella sacra Scrittura, vuol dire “diverso”, straordinario. Sì, Gesù Cristo dal canto suo ha reso davvero straordinari questi giorni, e a caro prezzo; ora tocca a noi viverli in modo diverso dal solito.
La partecipazione alle varie Celebrazioni ci aiuterà molto in questo senso, ma non bastano le Celebrazioni: dipenderà soprattutto da quanta fede viva, da quanto amore vero per il Signore ci sarà in noi e ci provocherà a viere con spirito diverso ognuno dei prossimi giorni.
Il Signore da parte sua non mancherà di renderli santi. Dipende da come li vivremo che siano giorni santi per davvero, cioè straordinariamente fruttuosi, per ciascuno di noi anzitutto, ma anche per questo mondo di oggi, che di un futuro diverso dal presente ha grande e urgente bisogno.
V° Domenica - 6 Aprile
Le Letture Bibliche: Isaia 43,16-21; Filippesi 3,8-14; Giovanni 8,1-11
Quando sarà che i giornali metteranno in prima pagina le belle notizie, quelle che fanno piacere… e quelle brutte (la cronaca nera) all’ultima pagina, magari con titoli non troppo grossi?
Non vi pare che troppe notizie da prima pagina puzzano tutte di pessimismo, di corruzione, di malefatte di vario genere? Tant’è vero che quando si apre il giornale o si ascoltano le notizie alla TV, viene da chiedersi: che tipo di odori o di fetori dovremo sorbirci oggi? Da un po’ di tempo a ‘sta parte si fa a gara a rivelare scandali di ogni genere, soprattutto ad alti livelli, nella politica, nella pubblica amministrazione, anche nella Chiesa. Il sospetto che si fa strada allora è questo: non è che si vuol depistare l’attenzione della gente? In altre parole: si mettono allo scoperto le malefatte di alcuni, così da nascondere quelle di altri (probabilmente più grosse).
L’unica soddisfazione per chi non vuole mai correggersi, mai convertirsi, mai cambiare, è quella di puntare il dito sui peccati altrui; e quanto più uno si ostina a non cambiare, tanto più è feroce nel denunciare i difetti o le malefatte degli altri. I giudici più implacabili sono sempre quei tali che hanno qualcosa da nascondere… Ce lo conferma anche il vangelo che abbiamo ascoltato oggi. “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio…”. E subito si forma una folla di curiosi, perché – si sa – gli scandali fanno sempre notizia. Questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio: la nostra legge ordina di lapidarla (cioè ucciderla a sassate): tu cosa ne dici?”. Io – al posto di Gesù – avrei anche chiesto: “E l’uomo dov’è?”. Sì perché, per peccare di adulterio bisogna essere in due: una donna e un uomo. Dov’è l’uomo? A quei tempi le donne contavano poco, ma se era questione di peccato… ah allora sì: erano le prime (e spesso anche le uniche) a pagarne le conseguenze.
C’è da credere che quegli scribi e farisei fossero già lì con le pietre in mano ad aspettare che Gesù desse il “via”. Ma Gesù non è qui per annientare i peccatori: è qui per salvarli. “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei!”. Voi dite che l’adulterio rovina le famiglie: è vero. Voi dite che bisogna difendere i valori: ebbene cominciate da voi stessi. Fate i conti con la vostra coscienza.
Scribi e farisei non mancano, neanche nelle nostre società di oggi come sapete. A volte passano per strenui difensori della famiglia, ma hanno alle spalle famiglie sfasciate. Si appellano ai valori, gli stessi che vengono continuamente minacciati da quella cultura dominante che spinge la gente a vivere al di sopra delle sue possibilità e fuori da ogni regola… Si appellano alle leggi, sì, ma solo per denunciare chi sbaglia ed è scoperto, senza far nulla per dargli la possibilità di venirne fuori.
Gesù lì per lì non rispose: si mise a scrivere col dito per terra, sulla polvere. (Suppongo che fosse il dito indice. Fratelli: ci ha dato un esempio anche qui: il dito indice non adoperiamolo per puntarlo sui peccati del prossimo; adoperiamolo per scriverli per terra sulla polvere, in modo che il vento li porti via). Poi prese la parola Gesù, ma una parola che scribi e farisei non si aspettavano e ci rimasero male: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei!”. Se n’andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Sì, in tal modo hanno riconosciuto che peccati ne avevano anche loro da farsi perdonare… Solo che han fatto male ad andarsene: avevano l’occasione di farsi perdonare, di lasciarsi finalmente alleggerire il cuore, e l’hanno rifiutata. Perché non dire a Gesù “rimetti anche a noi i nostri debiti”? Non l’hanno detto, non l’hanno voluto dire. E se ne sono andati con quella corazza sul cuore che permetteva loro di essere sempre quelli, anzi di peggiorare ancora. Poveretti! La vita – per loro – avrebbe continuato ad essere sempre la stessa; l’unico gran varietà – di lì a poco – sarebbe stata la croce a cui avrebbero condannato Gesù, quell’unico innocente e scocciatore che aveva osato puntare il dito sui loro peccati, con i quali loro invece avevano imparato a convivere così bene.
A quella donna invece Gesù ha potuto dire: “Va’ in pace, e d’ora in poi non peccare più!”. Quel “d’ora in poi”, fratelli, è decisamente un futuro nuovo che si apre davanti a quella donna, perché è Gesù, figlio di Dio, a renderlo possibile. Infatti, quando è Dio a dire “d’ora in poi” non si tratta solo di una raccomandazione (che potrei fare anch’io a voi, o ciascuno di voi a qualcun altro…). No, nessuna raccomandazione; questa è una creazione: Gesù crea davanti a quella donna un futuro nuovo, che non sarà affatto una copia del suo passato. Lei “d’ora in poi” potrà davvero cambiare. E anche se sbagliasse ancora, ci sarà sempre quel “d’ora in poi” che si apre davanti a lei. Dio non si stancherà mai di dirci “d’ora in poi non peccare più”.
E noi – vicini ormai anche quest’anno alla Pasqua - in quali personaggi possiamo riconoscerci? In quelli che accusano, che puntano il dito – che sanno di avere il peccato nel cuore ma se lo tengono stretto – o in quella donna alla quale Gesù può dire: “D’ora in poi non peccare più”? Io non sono qui a dirvi: riconoscete i vostri peccati, chiamateli col loro nome, non nascondeteli dietro una maschera di perbenismo… no, non è questo il vangelo che devo annunciarvi.
Io sono qui a dire: guardate che è solo Gesù Cristo che può farci cambiare; solo lui può guarirci dalle nostre miserie; uno stile di vita diverso, una condotta nuova, solo Lui la può rendere possibile: non saranno i nostri "mio caro e buon Gesù non ti voglio offender più..." che durano fino a 'stasera. “D’ora in poi non peccare più” è opportuno che sia lui a dircelo.
Se nonostante i nostri propositi, i nostri sforzi di buona volontà, ci ritroviamo con scarsi risultati o sempre gli stessi, forse è perché non abbiamo ancora accettato di incontrare Gesù Cristo: personalmente, cordialmente, appassionatamente.
Non rassegniamoci a sentir puzza di scandali ogni giorno, fratelli. Ma neanche ai nostri limiti, ai nostri peccati rassegniamoci. Non limitiamoci a portare qualche modifica di poco conto che non cambia niente. Cerchiamo piuttosto una relazione forte e viva con Gesù Cristo: ah, questio sì! Allora comprenderemo che certe novità sono possibili, non solo fuori di noi ma soprattutto dentro, nell’intimo della nostra personalità.
Insomma, diamo a Dio la possibilità di fare qualcosa di nuovo in noi. Egli l’attende da tanto tempo.
Le Letture Bibliche: Isaia 43,16-21; Filippesi 3,8-14; Giovanni 8,1-11
Quando sarà che i giornali metteranno in prima pagina le belle notizie, quelle che fanno piacere… e quelle brutte (la cronaca nera) all’ultima pagina, magari con titoli non troppo grossi?
Non vi pare che troppe notizie da prima pagina puzzano tutte di pessimismo, di corruzione, di malefatte di vario genere? Tant’è vero che quando si apre il giornale o si ascoltano le notizie alla TV, viene da chiedersi: che tipo di odori o di fetori dovremo sorbirci oggi? Da un po’ di tempo a ‘sta parte si fa a gara a rivelare scandali di ogni genere, soprattutto ad alti livelli, nella politica, nella pubblica amministrazione, anche nella Chiesa. Il sospetto che si fa strada allora è questo: non è che si vuol depistare l’attenzione della gente? In altre parole: si mettono allo scoperto le malefatte di alcuni, così da nascondere quelle di altri (probabilmente più grosse).
L’unica soddisfazione per chi non vuole mai correggersi, mai convertirsi, mai cambiare, è quella di puntare il dito sui peccati altrui; e quanto più uno si ostina a non cambiare, tanto più è feroce nel denunciare i difetti o le malefatte degli altri. I giudici più implacabili sono sempre quei tali che hanno qualcosa da nascondere… Ce lo conferma anche il vangelo che abbiamo ascoltato oggi. “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio…”. E subito si forma una folla di curiosi, perché – si sa – gli scandali fanno sempre notizia. Questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio: la nostra legge ordina di lapidarla (cioè ucciderla a sassate): tu cosa ne dici?”. Io – al posto di Gesù – avrei anche chiesto: “E l’uomo dov’è?”. Sì perché, per peccare di adulterio bisogna essere in due: una donna e un uomo. Dov’è l’uomo? A quei tempi le donne contavano poco, ma se era questione di peccato… ah allora sì: erano le prime (e spesso anche le uniche) a pagarne le conseguenze.
C’è da credere che quegli scribi e farisei fossero già lì con le pietre in mano ad aspettare che Gesù desse il “via”. Ma Gesù non è qui per annientare i peccatori: è qui per salvarli. “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei!”. Voi dite che l’adulterio rovina le famiglie: è vero. Voi dite che bisogna difendere i valori: ebbene cominciate da voi stessi. Fate i conti con la vostra coscienza.
Scribi e farisei non mancano, neanche nelle nostre società di oggi come sapete. A volte passano per strenui difensori della famiglia, ma hanno alle spalle famiglie sfasciate. Si appellano ai valori, gli stessi che vengono continuamente minacciati da quella cultura dominante che spinge la gente a vivere al di sopra delle sue possibilità e fuori da ogni regola… Si appellano alle leggi, sì, ma solo per denunciare chi sbaglia ed è scoperto, senza far nulla per dargli la possibilità di venirne fuori.
Gesù lì per lì non rispose: si mise a scrivere col dito per terra, sulla polvere. (Suppongo che fosse il dito indice. Fratelli: ci ha dato un esempio anche qui: il dito indice non adoperiamolo per puntarlo sui peccati del prossimo; adoperiamolo per scriverli per terra sulla polvere, in modo che il vento li porti via). Poi prese la parola Gesù, ma una parola che scribi e farisei non si aspettavano e ci rimasero male: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei!”. Se n’andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Sì, in tal modo hanno riconosciuto che peccati ne avevano anche loro da farsi perdonare… Solo che han fatto male ad andarsene: avevano l’occasione di farsi perdonare, di lasciarsi finalmente alleggerire il cuore, e l’hanno rifiutata. Perché non dire a Gesù “rimetti anche a noi i nostri debiti”? Non l’hanno detto, non l’hanno voluto dire. E se ne sono andati con quella corazza sul cuore che permetteva loro di essere sempre quelli, anzi di peggiorare ancora. Poveretti! La vita – per loro – avrebbe continuato ad essere sempre la stessa; l’unico gran varietà – di lì a poco – sarebbe stata la croce a cui avrebbero condannato Gesù, quell’unico innocente e scocciatore che aveva osato puntare il dito sui loro peccati, con i quali loro invece avevano imparato a convivere così bene.
A quella donna invece Gesù ha potuto dire: “Va’ in pace, e d’ora in poi non peccare più!”. Quel “d’ora in poi”, fratelli, è decisamente un futuro nuovo che si apre davanti a quella donna, perché è Gesù, figlio di Dio, a renderlo possibile. Infatti, quando è Dio a dire “d’ora in poi” non si tratta solo di una raccomandazione (che potrei fare anch’io a voi, o ciascuno di voi a qualcun altro…). No, nessuna raccomandazione; questa è una creazione: Gesù crea davanti a quella donna un futuro nuovo, che non sarà affatto una copia del suo passato. Lei “d’ora in poi” potrà davvero cambiare. E anche se sbagliasse ancora, ci sarà sempre quel “d’ora in poi” che si apre davanti a lei. Dio non si stancherà mai di dirci “d’ora in poi non peccare più”.
E noi – vicini ormai anche quest’anno alla Pasqua - in quali personaggi possiamo riconoscerci? In quelli che accusano, che puntano il dito – che sanno di avere il peccato nel cuore ma se lo tengono stretto – o in quella donna alla quale Gesù può dire: “D’ora in poi non peccare più”? Io non sono qui a dirvi: riconoscete i vostri peccati, chiamateli col loro nome, non nascondeteli dietro una maschera di perbenismo… no, non è questo il vangelo che devo annunciarvi.
Io sono qui a dire: guardate che è solo Gesù Cristo che può farci cambiare; solo lui può guarirci dalle nostre miserie; uno stile di vita diverso, una condotta nuova, solo Lui la può rendere possibile: non saranno i nostri "mio caro e buon Gesù non ti voglio offender più..." che durano fino a 'stasera. “D’ora in poi non peccare più” è opportuno che sia lui a dircelo.
Se nonostante i nostri propositi, i nostri sforzi di buona volontà, ci ritroviamo con scarsi risultati o sempre gli stessi, forse è perché non abbiamo ancora accettato di incontrare Gesù Cristo: personalmente, cordialmente, appassionatamente.
Non rassegniamoci a sentir puzza di scandali ogni giorno, fratelli. Ma neanche ai nostri limiti, ai nostri peccati rassegniamoci. Non limitiamoci a portare qualche modifica di poco conto che non cambia niente. Cerchiamo piuttosto una relazione forte e viva con Gesù Cristo: ah, questio sì! Allora comprenderemo che certe novità sono possibili, non solo fuori di noi ma soprattutto dentro, nell’intimo della nostra personalità.
Insomma, diamo a Dio la possibilità di fare qualcosa di nuovo in noi. Egli l’attende da tanto tempo.
IV° Domenica - 30 Marzo
Le Letture Bibliche: Giosuè 5,9a.10-12; 2Corinzi5,17-21; Luca 15,1-3.11-32
L’hanno detto e ripetuto tanti: questa che il Vangelo ci ha fatto riascoltare in questa Domenica è la perla più preziosa tra tutte le parabole che il Signore ci racconta. L’abbiamo sentita tante volte, la conosciamo, ma sarebbe bello se oggi risuonasse nel nostro cuore, oltre che nei nostri orecchi.
C’è un padre, un figlio minore (scapestrato) e un figlio maggiore (laborioso e persona dabbene), ma la figura che è presente dall’inizio alla fine è sempre quella del padre. E’ la parabola del padre misericordioso, che ci porta vicini al cuore di Dio, alla sorgente - o al mistero - della misericordia. Al figlio minore, a quei tempi, spettava un terzo dei beni paterni, ma non poteva disporne fin che il padre era in vita. Qui invece è proprio questo che accade: quel figlio rivendica come suo diritto quello che ancora non gli spetta: è un usurpatore…
Del resto, cos’altro è il peccato se non usurpare come diritto quello che invece è un dono, soltanto dono? E quando i doni che riceviamo da Dio non sono più doni, cos’altro rimane se non la voglia di scialacquarli, rovinando anche noi stessi? “Raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto”. Abbandona il padre per organizzarsi la vita in libertà e alla fine si ritrova servo di un padrone: povero in canna, ha perso ogni dignità. Quel padrone “lo mandò nei campi a pascolare i porci (animali immondi per gli ebrei); avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava”. Più in basso di così non si può cadere, ma a volte bisogna proprio cadere e arrivare in fondo per poi risalire. “Rientrò in se stesso” infatti. Rinsavisce. E una volta tornato in sé, decide di tornare anche a casa, dal padre. “Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame”.
Fratelli, secondo voi è una vera conversione questa? Cos’è che motiva la sua decisione di tornare a casa? Il rimorso? la nostalgia della sua famiglia? Per niente. Il motivo è semplicemente la fame. Il figlio prodigo torna a casa solo per fame. E perciò si preoccupa di preparare la scena, i gesti, le parole; chissà quanto li avrà studiati, calcolati! “Andrò da mio padre, gli dirò: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Il Padre lo sorprenderà aldilà di tutte le sue previsioni. Perché, vedete fratelli, la conversione sì è opera nostra, ma non consiste nel darsi una risciacquata alla coscienza per poi tornare a fare come prima… conversione è rendersi conto che Dio è padre e per quanto scapestrati siano certi figli, per lui sono sempre figli, e Lui si comporta con loro in modi che non sempre capiamo, anzi, a volte ci scandalizzano.
Era ancora lontano quando il padre lo vide. Lo vide perché lo attendeva: a un padre il cui figlio è partito sbattendo la porta, cos’altro resta da fare se non aspettare che ritorni, e scrutare tutti i giorni l’orizzonte per vederlo comparire? Lo vide e si commosse, di quello sconvolgimento interiore che prende tutta la persona con un’agitazione incontenibile. Gli corse incontro (questo correre non si addice a un dignitoso signore orientale, magari anche anziano; correre, anche se è questione di fretta, è perdere dignità); ciononostante gli corse incontro, gli cadde al collo e lo baciava…: un abbraccio che sembra non sciogliersi più.
Il figlio prova a recitare le belle parole che s’era preparato, ma il padre non ascolta… E’ tanto saggio da sapere che si tratta solo di belle parole, che in realtà quello scapestrato è tornato per non morire di fame; ma che importa? E’ suo figlio. Ed è tornato. Solo questo conta veramente. Chiunque altro al suo posto (ogni padre di questo mondo), avrebbe forse preteso delle scuse, delle spiegazioni, o quantomeno un bel proposito di comportarsi bene da quel momento in poi: tutte cose importanti che però a questo padre ora non interessano. Anzi (ed è questo che ci sconcerta un po’): “Disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello, l’anello al dito (quell’anello che è anche sigillo, cioè segno di potere), i sandali ai piedi” (i servi andavano scalzi, i sandali… roba da signori!). Insomma torna figlio a tutti gli effetti: figlio e signore, ben aldilà delle sue previsioni. “Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. Risurrezione, quindi, ritorno alla vita: ecco cosa significa quel ritorno per quel padre.
Il figlio maggiore però non prova le stesse sensazioni. Non sembra essere sulla stessa lunghezza d’onda di suo padre. Tutt’altro. “Egli si trovava nei campi”: laborioso, diligente, scrupoloso; non ha grilli per la testa lui. Saputo il motivo della festa, e che il padre per l’occasione ha fatto ammazzare il vitello grasso, “si adirò e non voleva entrare”. Il padre uscì allora, e lo pregava: gli parlava da amico, con bontà, cercava di farlo ragionare con il cuore. Quante figure deve fare questo padre!
“Io ti servo da tanti anni” si sente dire: da un figlio! “Io ti servo!”. Sì, è sempre rimasto a casa, ma il suo rapporto con il padre era quello di un servo, di un dipendente, non era mai diventato legame di affetto, cuore a cuore con il padre. Motivo per cui si rifiuta di riconoscere come fratello quello scapestrato che è tornato; infatti dice: “questo tuo figlio che ha divorato le tue sostanze con le prostitute”… Perché non dice “Questo mio fratello”? No, lui non ha niente da spartire con quello lì; prende decisamente le distanze. Di solito si parla del figlio prodigo come di quello che si converte. Eh, no… anche il figlio maggiore ha bisogno di conversione, eccome! E la sua conversione consisterà nel riconoscere suo fratello in quel tale che è tornato. L’avrà fatto? Si sarà convertito? Sarà entrato per partecipare alla festa? La parabola si ferma qui: non lo dice. Non lo dice perché la conclusione la possiamo trarre solo noi, anzi, ciascuno per conto suo nella sua coscienza.
Fratelli, è più facile convertirsi per chi sa di essere peccatore che non per chi presume di essere apposto. Ma è proprio a scribi e farisei - che si credono apposto – è a loro che è rivolta questa parabola di Gesù. E a cos’è che devono convertirsi? Alla misericordia. Sono incapaci di misericordia. Talmente convinti di essere persone dabbene che giudicano e disprezzano quelli che non sono bravi come loro.
Fratelli, forse noi possiamo dire di non averne mai combinate di grosse, ma presumiamo di essere apposto per questo? E soprattutto, sappiamo essere misericordiosi verso chi sbaglia? Se non siamo capaci di misericordia non siamo affatto apposto in coscienza, non si vede che siamo figli di Dio perché non gli assomigliamo per niente. Dio infatti è Padre, e di quelli che si credono apposto e di quelli che sbagliano: è gioia per lui poterli abbracciare.
Non ha forse diritto anche Dio alla sua gioia, così come ognuno di noi, suoi figli?
Le Letture Bibliche: Giosuè 5,9a.10-12; 2Corinzi5,17-21; Luca 15,1-3.11-32
L’hanno detto e ripetuto tanti: questa che il Vangelo ci ha fatto riascoltare in questa Domenica è la perla più preziosa tra tutte le parabole che il Signore ci racconta. L’abbiamo sentita tante volte, la conosciamo, ma sarebbe bello se oggi risuonasse nel nostro cuore, oltre che nei nostri orecchi.
C’è un padre, un figlio minore (scapestrato) e un figlio maggiore (laborioso e persona dabbene), ma la figura che è presente dall’inizio alla fine è sempre quella del padre. E’ la parabola del padre misericordioso, che ci porta vicini al cuore di Dio, alla sorgente - o al mistero - della misericordia. Al figlio minore, a quei tempi, spettava un terzo dei beni paterni, ma non poteva disporne fin che il padre era in vita. Qui invece è proprio questo che accade: quel figlio rivendica come suo diritto quello che ancora non gli spetta: è un usurpatore…
Del resto, cos’altro è il peccato se non usurpare come diritto quello che invece è un dono, soltanto dono? E quando i doni che riceviamo da Dio non sono più doni, cos’altro rimane se non la voglia di scialacquarli, rovinando anche noi stessi? “Raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto”. Abbandona il padre per organizzarsi la vita in libertà e alla fine si ritrova servo di un padrone: povero in canna, ha perso ogni dignità. Quel padrone “lo mandò nei campi a pascolare i porci (animali immondi per gli ebrei); avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava”. Più in basso di così non si può cadere, ma a volte bisogna proprio cadere e arrivare in fondo per poi risalire. “Rientrò in se stesso” infatti. Rinsavisce. E una volta tornato in sé, decide di tornare anche a casa, dal padre. “Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame”.
Fratelli, secondo voi è una vera conversione questa? Cos’è che motiva la sua decisione di tornare a casa? Il rimorso? la nostalgia della sua famiglia? Per niente. Il motivo è semplicemente la fame. Il figlio prodigo torna a casa solo per fame. E perciò si preoccupa di preparare la scena, i gesti, le parole; chissà quanto li avrà studiati, calcolati! “Andrò da mio padre, gli dirò: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Il Padre lo sorprenderà aldilà di tutte le sue previsioni. Perché, vedete fratelli, la conversione sì è opera nostra, ma non consiste nel darsi una risciacquata alla coscienza per poi tornare a fare come prima… conversione è rendersi conto che Dio è padre e per quanto scapestrati siano certi figli, per lui sono sempre figli, e Lui si comporta con loro in modi che non sempre capiamo, anzi, a volte ci scandalizzano.
Era ancora lontano quando il padre lo vide. Lo vide perché lo attendeva: a un padre il cui figlio è partito sbattendo la porta, cos’altro resta da fare se non aspettare che ritorni, e scrutare tutti i giorni l’orizzonte per vederlo comparire? Lo vide e si commosse, di quello sconvolgimento interiore che prende tutta la persona con un’agitazione incontenibile. Gli corse incontro (questo correre non si addice a un dignitoso signore orientale, magari anche anziano; correre, anche se è questione di fretta, è perdere dignità); ciononostante gli corse incontro, gli cadde al collo e lo baciava…: un abbraccio che sembra non sciogliersi più.
Il figlio prova a recitare le belle parole che s’era preparato, ma il padre non ascolta… E’ tanto saggio da sapere che si tratta solo di belle parole, che in realtà quello scapestrato è tornato per non morire di fame; ma che importa? E’ suo figlio. Ed è tornato. Solo questo conta veramente. Chiunque altro al suo posto (ogni padre di questo mondo), avrebbe forse preteso delle scuse, delle spiegazioni, o quantomeno un bel proposito di comportarsi bene da quel momento in poi: tutte cose importanti che però a questo padre ora non interessano. Anzi (ed è questo che ci sconcerta un po’): “Disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello, l’anello al dito (quell’anello che è anche sigillo, cioè segno di potere), i sandali ai piedi” (i servi andavano scalzi, i sandali… roba da signori!). Insomma torna figlio a tutti gli effetti: figlio e signore, ben aldilà delle sue previsioni. “Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. Risurrezione, quindi, ritorno alla vita: ecco cosa significa quel ritorno per quel padre.
Il figlio maggiore però non prova le stesse sensazioni. Non sembra essere sulla stessa lunghezza d’onda di suo padre. Tutt’altro. “Egli si trovava nei campi”: laborioso, diligente, scrupoloso; non ha grilli per la testa lui. Saputo il motivo della festa, e che il padre per l’occasione ha fatto ammazzare il vitello grasso, “si adirò e non voleva entrare”. Il padre uscì allora, e lo pregava: gli parlava da amico, con bontà, cercava di farlo ragionare con il cuore. Quante figure deve fare questo padre!
“Io ti servo da tanti anni” si sente dire: da un figlio! “Io ti servo!”. Sì, è sempre rimasto a casa, ma il suo rapporto con il padre era quello di un servo, di un dipendente, non era mai diventato legame di affetto, cuore a cuore con il padre. Motivo per cui si rifiuta di riconoscere come fratello quello scapestrato che è tornato; infatti dice: “questo tuo figlio che ha divorato le tue sostanze con le prostitute”… Perché non dice “Questo mio fratello”? No, lui non ha niente da spartire con quello lì; prende decisamente le distanze. Di solito si parla del figlio prodigo come di quello che si converte. Eh, no… anche il figlio maggiore ha bisogno di conversione, eccome! E la sua conversione consisterà nel riconoscere suo fratello in quel tale che è tornato. L’avrà fatto? Si sarà convertito? Sarà entrato per partecipare alla festa? La parabola si ferma qui: non lo dice. Non lo dice perché la conclusione la possiamo trarre solo noi, anzi, ciascuno per conto suo nella sua coscienza.
Fratelli, è più facile convertirsi per chi sa di essere peccatore che non per chi presume di essere apposto. Ma è proprio a scribi e farisei - che si credono apposto – è a loro che è rivolta questa parabola di Gesù. E a cos’è che devono convertirsi? Alla misericordia. Sono incapaci di misericordia. Talmente convinti di essere persone dabbene che giudicano e disprezzano quelli che non sono bravi come loro.
Fratelli, forse noi possiamo dire di non averne mai combinate di grosse, ma presumiamo di essere apposto per questo? E soprattutto, sappiamo essere misericordiosi verso chi sbaglia? Se non siamo capaci di misericordia non siamo affatto apposto in coscienza, non si vede che siamo figli di Dio perché non gli assomigliamo per niente. Dio infatti è Padre, e di quelli che si credono apposto e di quelli che sbagliano: è gioia per lui poterli abbracciare.
Non ha forse diritto anche Dio alla sua gioia, così come ognuno di noi, suoi figli?
III° Domenica - 23 Marzo
Le Letture Bibliche: Esodo 3,1-8.13-15; 1Corinzi 10,1-6.10-12; Luca 13,1-9
Quando a una persona capitano delle cose spiacevoli, non di rado sbotta e dice: “Cosa avrò mai fatto di male per meritarmi una batosta del genere?”. Quando poi si verificano catastrofi spaventose che provocano vittime, qualcuno esce con la stessa domanda: ma cosa avrà mai fatto quella povera gente per meritarsi una sorte così? Altri si domandano invece: perché Dio permette sciagure come queste?
Sono domande senza risposte, non hanno spiegazioni plausibili… E se non ci sono spiegazioni plausibili, vuol dire che sono domande inutili, forse perfino sbagliate. Fanno pensare a quei tali che vanno in montagna e camminano su sentieri che richiedono prudenza… Ogni tanto qualcuno piomba nel vuoto: una disgrazia. E allora c’è chi commenta: “Oh, poveretto! Che brutta fine! Vedete com’è pericoloso andare in montagna?!”. Reazione sbagliata ovviamente. Quella giusta è un’altra. Beh, visto che in montagna il pericolo di cadere nel vuoto a volte c’è, allora occorre esser prudenti… e se c’è un cordino di ferro che corre lungo la roccia, teniamoci stretti a quello…
Beh, anche nella vita occorre ragionare così. Cioè…come “così”?
Al tempo di Gesù, la Palestina era sotto il dominio dell’impero romano. Gli ebrei non vedevano affatto con simpatia questa situazione. Tra loro, alcuni erano diventati partigiani: cercavano di organizzare una rivoluzione per cacciare i Romani. Quando c’erano le grandi feste a Gerusalemme con grandi folle di pellegrini, quei partigiani si mescolavano ai pellegrini e cercavano di tirarli dalla loro parte. Ponzio Pilato, il procuratore di Roma, aveva il suo bel da fare a controllare la situazione. Una volta fu informato che giù sulla grande spianata del tempio c’erano alcuni di quei partigiani che cercavano di portare la gente a ribellarsi: fece intervenire i suoi soldati, e quei rivoltosi furono uccisi lì davanti a tutti. La cosa fece un’enorme impressione…
“Cosa ne pensi tu, Gesù?” chiesero. “Cosa ne penso? Penso che quei tali che Pilato ha fatto uccidere non erano peggiori di voi… Ma se non vi convertite …farete tutti una brutta fine…”.
In quegli stessi giorni era anche crollata improvvisamente una vecchia torre della città, che aveva travolto e ucciso 18 persone… “Pensate che fossero peggiori di voi quei poveretti? – chiede Gesù. – No, affatto: ma se non vi convertite –se non prendete sul serio il Vangelo – perirete tutti allo stesso modo!”.
Insomma, Gesù ci mette in guardia dal fare come lo struzzo: dicono che lo struzzo, quando vede il pericolo, mette la testa sotto la sabbia per non vederlo. Non sono poche le persone che si comportano come lo struzzo; quando sentono, per esempio, che quella coppia di amici si è separata e ha mandato all’aria la famiglia, oppure che quel tal ragazzo si è lasciato coinvolgere nel giro della droga, dicono o pensano: “speriamo che non succeda a noi!”. Ecco la filosofia dello struzzo. Ma cosa fai tu perché non succeda? Tu, coppia (tu – famiglia), cosa devi correggere, cambiare, perché non succeda? Limitarsi a sperare che “non succeda a noi” – senza cambiar niente – è talmente troppo poco che non serve a nulla.
Insomma, fratelli, ci sono due modi di leggere la cronaca quotidiana (che in gran parte è nera), due modi di seguire il telegiornale (con le sue notizie che se non sono di politica più o meno sporca, sono di guerre, di violenze, di incidenti): sì, c’è chi si turba e magari esclama: “ma dove andremo a finire?”, però non cambia di un millimetro la sua mentalità o la sua condotta; e c’è anche chi guarda e pensa: “ quello che è capitato lì, potrebbe capitare anche qui; ciò che è successo a quelle persone, potrebbe accadere anche a noi… perché no? Ma allora è da stupidi vivere con superficialità, fondare la vita su valori e interessi che da un momento all’altro possono andare in fumo: la vita val la pena fondarla su qualcosa – o su Qualcuno – più forte di ogni rischio e più potente di qualsiasi calamità”…
Sì, fratelli, è così: certi fatti di cronaca noi cristiani dobbiamo prenderli come campanelli d’allarme che risvegliano dentro di noi il senso di responsabilità. L'espressione "che c'entro io?" non dovrebbe mai risuonare sulle labbra d'un cristiano, perchè è un'autentica bestemmia davanti a Dio. Si vive una volta sola e il traguardo è fatto da un’alternativa: riuscita o perdizione. Dove stiamo andando? – sì, è opportuno chiederselo spesso - Verso quale traguardo? Ci sono brutte eventualità contro le quali non c’è nessun vaccino, nessuna assicurazione (malattie, incidenti, esperienze amare e quant’altro). Ma una eventualità, la peggiore e la più tremenda di tutte, sì che la possiamo evitare: la nostra perdizione definitiva, la rovina della nostra persona per sempre, aldilà e oltre questa avventura biologica che è la nostra esistenza su questa terra… Eh, questo sì che è il peggio che ci potrebbe capitare. Ecco perché Gesù oggi ci mette in guardia: “Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. E’ forse pessimista per questo? Io penso che sia semplicemente leale. Responsabili, insomma: ecco come ci vuole il Signore. Persone che, imparando dai fatti e dalle esperienze della vita, accettano di rivedere e correggere i loro comportamenti, la loro condotta.
Ma anche le esperienze e i fatti positivi sono da considerare con attenzione: la crescita di un figlio, o il suo cammino di fede nell’esperienza della catechesi, dell’oratorio: due genitori che vogliano fare sul serio non possono starsene a guardare a distanza; è ovvio che quella è un’opportunità anche per loro: per rivedere la loro mentalità, le loro idee su Dio e su loro stessi, e di conseguenza la loro condotta…
Responsabili di fronte alla vita lo si diventa quando si impara dalle esperienze proprie e da quelle degli altri, e si accetta di cambiare in meglio. Perché se invece non si impara niente e non si cambia niente, allora si è come quell’albero di fichi di cui ci parla oggi il Signore con la sua parabola: tante cure da parte del contadino, ma frutti… niente; solo foglie. A che serve un albero da frutto che fa solo foglie? Che ci sta a fare nel terreno?
Quante occasioni ci dà il Signore, fratelli, quante opportunità di cambiare in meglio, diventando cristiani di fatto oltre che di nome! E noi forse continuiamo a fare foglie invece che frutti. Eppure, quel contadino ha ancora fiducia e chiede tempo al padrone: “Lascialo ancora quest’anno: lo curerò ancora… chissà che non porti frutto finalmente!”. Sono io quell’albero, ciascuno di noi è quell’albero, fratelli. Dopo aver ascoltato questo vangelo, perché non fare un po’ di esame di coscienza in questi prossimi giorni? E chiederci per esempio:
- I fatti, gli avvenimenti che accadono in questo mondo d’oggi, mi portano a riflettere sui miei comportamenti, sul mio stile di vita? O mi lasciano indifferente?
- Posso dire che le esperienze della vita – qualcuna specialmente – ha contribuito a farmi diventare migliore?
- Tante opportunità mi dà il Signore, tante attenzioni e grazie e doni. So coglierle per portare frutto, o faccio soltanto foglie?
E chiediamo a Dio, nostro Padre, che abbia ancora pazienza con noi.
Le Letture Bibliche: Esodo 3,1-8.13-15; 1Corinzi 10,1-6.10-12; Luca 13,1-9
Quando a una persona capitano delle cose spiacevoli, non di rado sbotta e dice: “Cosa avrò mai fatto di male per meritarmi una batosta del genere?”. Quando poi si verificano catastrofi spaventose che provocano vittime, qualcuno esce con la stessa domanda: ma cosa avrà mai fatto quella povera gente per meritarsi una sorte così? Altri si domandano invece: perché Dio permette sciagure come queste?
Sono domande senza risposte, non hanno spiegazioni plausibili… E se non ci sono spiegazioni plausibili, vuol dire che sono domande inutili, forse perfino sbagliate. Fanno pensare a quei tali che vanno in montagna e camminano su sentieri che richiedono prudenza… Ogni tanto qualcuno piomba nel vuoto: una disgrazia. E allora c’è chi commenta: “Oh, poveretto! Che brutta fine! Vedete com’è pericoloso andare in montagna?!”. Reazione sbagliata ovviamente. Quella giusta è un’altra. Beh, visto che in montagna il pericolo di cadere nel vuoto a volte c’è, allora occorre esser prudenti… e se c’è un cordino di ferro che corre lungo la roccia, teniamoci stretti a quello…
Beh, anche nella vita occorre ragionare così. Cioè…come “così”?
Al tempo di Gesù, la Palestina era sotto il dominio dell’impero romano. Gli ebrei non vedevano affatto con simpatia questa situazione. Tra loro, alcuni erano diventati partigiani: cercavano di organizzare una rivoluzione per cacciare i Romani. Quando c’erano le grandi feste a Gerusalemme con grandi folle di pellegrini, quei partigiani si mescolavano ai pellegrini e cercavano di tirarli dalla loro parte. Ponzio Pilato, il procuratore di Roma, aveva il suo bel da fare a controllare la situazione. Una volta fu informato che giù sulla grande spianata del tempio c’erano alcuni di quei partigiani che cercavano di portare la gente a ribellarsi: fece intervenire i suoi soldati, e quei rivoltosi furono uccisi lì davanti a tutti. La cosa fece un’enorme impressione…
“Cosa ne pensi tu, Gesù?” chiesero. “Cosa ne penso? Penso che quei tali che Pilato ha fatto uccidere non erano peggiori di voi… Ma se non vi convertite …farete tutti una brutta fine…”.
In quegli stessi giorni era anche crollata improvvisamente una vecchia torre della città, che aveva travolto e ucciso 18 persone… “Pensate che fossero peggiori di voi quei poveretti? – chiede Gesù. – No, affatto: ma se non vi convertite –se non prendete sul serio il Vangelo – perirete tutti allo stesso modo!”.
Insomma, Gesù ci mette in guardia dal fare come lo struzzo: dicono che lo struzzo, quando vede il pericolo, mette la testa sotto la sabbia per non vederlo. Non sono poche le persone che si comportano come lo struzzo; quando sentono, per esempio, che quella coppia di amici si è separata e ha mandato all’aria la famiglia, oppure che quel tal ragazzo si è lasciato coinvolgere nel giro della droga, dicono o pensano: “speriamo che non succeda a noi!”. Ecco la filosofia dello struzzo. Ma cosa fai tu perché non succeda? Tu, coppia (tu – famiglia), cosa devi correggere, cambiare, perché non succeda? Limitarsi a sperare che “non succeda a noi” – senza cambiar niente – è talmente troppo poco che non serve a nulla.
Insomma, fratelli, ci sono due modi di leggere la cronaca quotidiana (che in gran parte è nera), due modi di seguire il telegiornale (con le sue notizie che se non sono di politica più o meno sporca, sono di guerre, di violenze, di incidenti): sì, c’è chi si turba e magari esclama: “ma dove andremo a finire?”, però non cambia di un millimetro la sua mentalità o la sua condotta; e c’è anche chi guarda e pensa: “ quello che è capitato lì, potrebbe capitare anche qui; ciò che è successo a quelle persone, potrebbe accadere anche a noi… perché no? Ma allora è da stupidi vivere con superficialità, fondare la vita su valori e interessi che da un momento all’altro possono andare in fumo: la vita val la pena fondarla su qualcosa – o su Qualcuno – più forte di ogni rischio e più potente di qualsiasi calamità”…
Sì, fratelli, è così: certi fatti di cronaca noi cristiani dobbiamo prenderli come campanelli d’allarme che risvegliano dentro di noi il senso di responsabilità. L'espressione "che c'entro io?" non dovrebbe mai risuonare sulle labbra d'un cristiano, perchè è un'autentica bestemmia davanti a Dio. Si vive una volta sola e il traguardo è fatto da un’alternativa: riuscita o perdizione. Dove stiamo andando? – sì, è opportuno chiederselo spesso - Verso quale traguardo? Ci sono brutte eventualità contro le quali non c’è nessun vaccino, nessuna assicurazione (malattie, incidenti, esperienze amare e quant’altro). Ma una eventualità, la peggiore e la più tremenda di tutte, sì che la possiamo evitare: la nostra perdizione definitiva, la rovina della nostra persona per sempre, aldilà e oltre questa avventura biologica che è la nostra esistenza su questa terra… Eh, questo sì che è il peggio che ci potrebbe capitare. Ecco perché Gesù oggi ci mette in guardia: “Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. E’ forse pessimista per questo? Io penso che sia semplicemente leale. Responsabili, insomma: ecco come ci vuole il Signore. Persone che, imparando dai fatti e dalle esperienze della vita, accettano di rivedere e correggere i loro comportamenti, la loro condotta.
Ma anche le esperienze e i fatti positivi sono da considerare con attenzione: la crescita di un figlio, o il suo cammino di fede nell’esperienza della catechesi, dell’oratorio: due genitori che vogliano fare sul serio non possono starsene a guardare a distanza; è ovvio che quella è un’opportunità anche per loro: per rivedere la loro mentalità, le loro idee su Dio e su loro stessi, e di conseguenza la loro condotta…
Responsabili di fronte alla vita lo si diventa quando si impara dalle esperienze proprie e da quelle degli altri, e si accetta di cambiare in meglio. Perché se invece non si impara niente e non si cambia niente, allora si è come quell’albero di fichi di cui ci parla oggi il Signore con la sua parabola: tante cure da parte del contadino, ma frutti… niente; solo foglie. A che serve un albero da frutto che fa solo foglie? Che ci sta a fare nel terreno?
Quante occasioni ci dà il Signore, fratelli, quante opportunità di cambiare in meglio, diventando cristiani di fatto oltre che di nome! E noi forse continuiamo a fare foglie invece che frutti. Eppure, quel contadino ha ancora fiducia e chiede tempo al padrone: “Lascialo ancora quest’anno: lo curerò ancora… chissà che non porti frutto finalmente!”. Sono io quell’albero, ciascuno di noi è quell’albero, fratelli. Dopo aver ascoltato questo vangelo, perché non fare un po’ di esame di coscienza in questi prossimi giorni? E chiederci per esempio:
- I fatti, gli avvenimenti che accadono in questo mondo d’oggi, mi portano a riflettere sui miei comportamenti, sul mio stile di vita? O mi lasciano indifferente?
- Posso dire che le esperienze della vita – qualcuna specialmente – ha contribuito a farmi diventare migliore?
- Tante opportunità mi dà il Signore, tante attenzioni e grazie e doni. So coglierle per portare frutto, o faccio soltanto foglie?
E chiediamo a Dio, nostro Padre, che abbia ancora pazienza con noi.
II° Domenica - 16 Marzo
Le Letture Bibliche: Genesi 15,5-12; Filippesi 3,17-4,1; Luca 9,28b-36
“Sul monte”.
Domenica scorsa siamo stati invitati a partire per il deserto con Gesù; oggi, invece, a salire sul monte. Beh, è chiaro: non è che dobbiamo fare le valige, e neanche preparare lo zaino… E’ un altro il viaggio da mettere in programma: lo si potrebbe definire …”interiore”, ma ho paura che questo aggettivo “interiore” sia un po’ sbiadito e dica poco… Preferisco dire così: c’è tanta gente che viaggia con le valige o con lo zaino, ma poi torna a casa che è la stessa di prima: stessa mentalità, stessi gusti, a soprattutto stessi limiti e difetti… Come è anche vero che altre persone non prendono mai né treno, né aereo, restano quasi sempre a casa loro, eppure cambiano; fanno certe esperienze, oppure sanno cogliere certe opportunità, certe occasioni… per cui cambiano, eccome! Cambiano modi di pensare, cambiano interessi e ideali… maturano, insomma.
Allora, fratelli, è chiaro cosa intendiamo quando parliamo di cammino, di viaggio verso la Pasqua: è con lo spirito che ci si muove, con il cuore, con la mentalità, con la riflessione…non tanto con le gambe, o con la macchina. E verso dove si va? La Bibbia, il Vangelo ci risponde, ma ci risponde con delle immagini, perché di certe cose vitali e grandi si può parlare solo con le immagini. Quella del deserto, forse, non ci è molto familiare…visto che il deserto di sabbia, di dune, è molto lontano dal nostro Trentino. Quella del monte invece, eh sì: questa ci è molto familiare. Siamo circondati da montagne…
E sono sempre mumerosi, sia d’estate che d’inverno, quelli che vanno in montagna: a piedi, in auto, o in pullman (almeno fino a un certo punto). Di solito se ne tornano a casa più distesi, più sereni anche nello spirito: tutti, credenti o atei che siano; la montagna ha questo effetto.
Ma…è solo questo che ci vuol dire il vangelo di oggi? Che è bello andare in montagna (magari saltando la messa della domenica) perché si torna belli abbronzati e distesi nello spirito? Sarebbe come dire che il vangelo fa pubblicità alle aziende di soggiorno per aiutarle ad accalappiare clienti…no, non può essere!
“Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. E mentre pregava si trasfigurò…”. Ah, ma allora è diverso dall’andare in montagna solo per sciare o per fare una gita! Eccome che è diverso: c’è Gesù qui che fa da guida. E quello che si va a fare è un po’ strano: pregare (forse che occorre andare in montagna per pregare?). Ma poi, durante quella preghiera capita qualcosa di ancora più strano: Gesù si trasfigurò: il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante…E anche quei tre – Pietro, Giovanni e Giacomo – furono sorpresi, abbagliati da quella luce!
Fratelli, “salire con Gesù sul monte a pregare” non vuol dire prender la macchina o il pullman, e andare a Passo Sella, o scalare le pareti del Catinaccio…Vuol dire piuttosto fare ogni tanto un brack (oggi…invece che sospendere, fare un intervallo, bisogna dire: fare un brack!); ogni tanto però vuol dire quantomeno ogni giorno: un brack che sarà a volte più prolungato, a volte meno, ma che non può mancare. Attenti, però: con Gesù – e per pregare! Che non significa anzitutto dir su orazioni (magari senza pensare a quello che si dice…perché la testa è da un’altra parte!); quale sarà la preghiera che piace a Dio? C’è lo dice Lui stesso, proprio oggi nel Vangelo: “Questo è il Figlio mio, l’eletto: ASCOLTATELO!”. Ecco la preghiera che piace al Padre nostro: metterci in ascolto di Gesù! Pregare – nella Bibbia, nel vangelo – significa prima di tutto ascoltare Dio che parla, ripensare alle sue parole, confrontarle con la nostra vita (che è fatta di impegni che ci attendono, di rapporti con gli altri, non di rado anche di preoccupazioni…); pregare è lasciare che la Parola del Signore illumini tutto ciò: la nostra vita, in una parola.
Ecco, fratelli, questo è salire sul monte con Gesù…
E non è forse vero che dal monte, dall’alto, si ha un panorama ampio e si vede tutto, e meglio? E che ogni cosa prende le dimensioni giuste? Cerchi magari la tua casa e ti meravigli di quanto ti appare piccola da lassù.. Certo che è piccola, come tutte le altre… E’ quando ci sei dentro che sei portato a vedere solo la tua, e ti pare grande…e grandi anche i problemi…e grandi ti sembrano anche i difetti delle persone accanto a te…e così pure le tue apprensioni, o i tuoi interessi… tutto grande, tanto da appesantirti il cuore (e forse ti accade che ciò che è davvero grande magari non lo vedi nemmeno).
Perché a volte perdiamo le staffe, diventiamo scontrosi, magari diciamo parole che poi ci pentiamo di averle dette? In altri termini: perché sbagliamo? Perché noi abbiamo il marchio di fabbrica del cielo, il cielo di Dio (san Paolo ce lo ricorda proprio oggi: La nostra cittadinanza è nel cielo, ci dice…). Ora, se perdiamo di vista il cielo…è inevitabile: ci perdiamo, come in una foresta inestricabile: ecco perché perdiamo le staffe…e sbagliamo, e vediamo storto e male. Salire il monte con Gesù è ritrovare la nostra vera cittadinanza, quella che neanche la morte potrà portarci via (sì perché quella che abbiamo sulla carta d’identità è provvisoria). Ascoltare la sua Parola è ritrovare l’equilibrio, la visuale giusta. Capite allora, fratelli, cosa vuol dire “trasfigurazione”? E’ come una luce – luce di Dio però; Luce che avvolge le persone (a cominciare da te) e le cose e le situazioni: ed ecco che tu, in quella luce puoi vedere molto meglio, puoi vedere come vede il Signore. Poi il brack ovviamente finisce e si torna alle solite occupazioni: sì, ma si torna con un altro spirito (non abbronzati e distesi come quando si torna dalla montagna), ma con un cuore un po’ più leggero, con uno sguardo più limpido per affrontare in maniera equilibrata ciò che ci aspetta…
Insomma, che sia come andare nel deserto, o come salire su di un monte – ma con Gesù! – la Quaresima è un’opportunità che non possiamo permetterci di perdere. Cogliamola, fratelli: in ognuno dei suoi 40 giorni! Facciamolo per noi, e anche per offrire un piccolo contribuito d buon senso e di speranza a questo mondo d’oggi, che – a quanto pare – proprio di speranza e di buon senso ha grande bisogno.
Le Letture Bibliche: Genesi 15,5-12; Filippesi 3,17-4,1; Luca 9,28b-36
“Sul monte”.
Domenica scorsa siamo stati invitati a partire per il deserto con Gesù; oggi, invece, a salire sul monte. Beh, è chiaro: non è che dobbiamo fare le valige, e neanche preparare lo zaino… E’ un altro il viaggio da mettere in programma: lo si potrebbe definire …”interiore”, ma ho paura che questo aggettivo “interiore” sia un po’ sbiadito e dica poco… Preferisco dire così: c’è tanta gente che viaggia con le valige o con lo zaino, ma poi torna a casa che è la stessa di prima: stessa mentalità, stessi gusti, a soprattutto stessi limiti e difetti… Come è anche vero che altre persone non prendono mai né treno, né aereo, restano quasi sempre a casa loro, eppure cambiano; fanno certe esperienze, oppure sanno cogliere certe opportunità, certe occasioni… per cui cambiano, eccome! Cambiano modi di pensare, cambiano interessi e ideali… maturano, insomma.
Allora, fratelli, è chiaro cosa intendiamo quando parliamo di cammino, di viaggio verso la Pasqua: è con lo spirito che ci si muove, con il cuore, con la mentalità, con la riflessione…non tanto con le gambe, o con la macchina. E verso dove si va? La Bibbia, il Vangelo ci risponde, ma ci risponde con delle immagini, perché di certe cose vitali e grandi si può parlare solo con le immagini. Quella del deserto, forse, non ci è molto familiare…visto che il deserto di sabbia, di dune, è molto lontano dal nostro Trentino. Quella del monte invece, eh sì: questa ci è molto familiare. Siamo circondati da montagne…
E sono sempre mumerosi, sia d’estate che d’inverno, quelli che vanno in montagna: a piedi, in auto, o in pullman (almeno fino a un certo punto). Di solito se ne tornano a casa più distesi, più sereni anche nello spirito: tutti, credenti o atei che siano; la montagna ha questo effetto.
Ma…è solo questo che ci vuol dire il vangelo di oggi? Che è bello andare in montagna (magari saltando la messa della domenica) perché si torna belli abbronzati e distesi nello spirito? Sarebbe come dire che il vangelo fa pubblicità alle aziende di soggiorno per aiutarle ad accalappiare clienti…no, non può essere!
“Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. E mentre pregava si trasfigurò…”. Ah, ma allora è diverso dall’andare in montagna solo per sciare o per fare una gita! Eccome che è diverso: c’è Gesù qui che fa da guida. E quello che si va a fare è un po’ strano: pregare (forse che occorre andare in montagna per pregare?). Ma poi, durante quella preghiera capita qualcosa di ancora più strano: Gesù si trasfigurò: il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante…E anche quei tre – Pietro, Giovanni e Giacomo – furono sorpresi, abbagliati da quella luce!
Fratelli, “salire con Gesù sul monte a pregare” non vuol dire prender la macchina o il pullman, e andare a Passo Sella, o scalare le pareti del Catinaccio…Vuol dire piuttosto fare ogni tanto un brack (oggi…invece che sospendere, fare un intervallo, bisogna dire: fare un brack!); ogni tanto però vuol dire quantomeno ogni giorno: un brack che sarà a volte più prolungato, a volte meno, ma che non può mancare. Attenti, però: con Gesù – e per pregare! Che non significa anzitutto dir su orazioni (magari senza pensare a quello che si dice…perché la testa è da un’altra parte!); quale sarà la preghiera che piace a Dio? C’è lo dice Lui stesso, proprio oggi nel Vangelo: “Questo è il Figlio mio, l’eletto: ASCOLTATELO!”. Ecco la preghiera che piace al Padre nostro: metterci in ascolto di Gesù! Pregare – nella Bibbia, nel vangelo – significa prima di tutto ascoltare Dio che parla, ripensare alle sue parole, confrontarle con la nostra vita (che è fatta di impegni che ci attendono, di rapporti con gli altri, non di rado anche di preoccupazioni…); pregare è lasciare che la Parola del Signore illumini tutto ciò: la nostra vita, in una parola.
Ecco, fratelli, questo è salire sul monte con Gesù…
E non è forse vero che dal monte, dall’alto, si ha un panorama ampio e si vede tutto, e meglio? E che ogni cosa prende le dimensioni giuste? Cerchi magari la tua casa e ti meravigli di quanto ti appare piccola da lassù.. Certo che è piccola, come tutte le altre… E’ quando ci sei dentro che sei portato a vedere solo la tua, e ti pare grande…e grandi anche i problemi…e grandi ti sembrano anche i difetti delle persone accanto a te…e così pure le tue apprensioni, o i tuoi interessi… tutto grande, tanto da appesantirti il cuore (e forse ti accade che ciò che è davvero grande magari non lo vedi nemmeno).
Perché a volte perdiamo le staffe, diventiamo scontrosi, magari diciamo parole che poi ci pentiamo di averle dette? In altri termini: perché sbagliamo? Perché noi abbiamo il marchio di fabbrica del cielo, il cielo di Dio (san Paolo ce lo ricorda proprio oggi: La nostra cittadinanza è nel cielo, ci dice…). Ora, se perdiamo di vista il cielo…è inevitabile: ci perdiamo, come in una foresta inestricabile: ecco perché perdiamo le staffe…e sbagliamo, e vediamo storto e male. Salire il monte con Gesù è ritrovare la nostra vera cittadinanza, quella che neanche la morte potrà portarci via (sì perché quella che abbiamo sulla carta d’identità è provvisoria). Ascoltare la sua Parola è ritrovare l’equilibrio, la visuale giusta. Capite allora, fratelli, cosa vuol dire “trasfigurazione”? E’ come una luce – luce di Dio però; Luce che avvolge le persone (a cominciare da te) e le cose e le situazioni: ed ecco che tu, in quella luce puoi vedere molto meglio, puoi vedere come vede il Signore. Poi il brack ovviamente finisce e si torna alle solite occupazioni: sì, ma si torna con un altro spirito (non abbronzati e distesi come quando si torna dalla montagna), ma con un cuore un po’ più leggero, con uno sguardo più limpido per affrontare in maniera equilibrata ciò che ci aspetta…
Insomma, che sia come andare nel deserto, o come salire su di un monte – ma con Gesù! – la Quaresima è un’opportunità che non possiamo permetterci di perdere. Cogliamola, fratelli: in ognuno dei suoi 40 giorni! Facciamolo per noi, e anche per offrire un piccolo contribuito d buon senso e di speranza a questo mondo d’oggi, che – a quanto pare – proprio di speranza e di buon senso ha grande bisogno.
I° Domenica - 9 Marzo
Le Letture Bibliche: Deuteronomio 26,4-10; Romani 10,8-13; Luca 4,1-13
Quando la mattina c’è nebbia o foschia non è molto entusiasmante cominciare la giornata.
Noi pero' siamo qui a cominciare la Quaresima. E cosa c’entrano nebbia e foschia con la Quaresima? Vedete: se un cristiano vuol sapere chi è lo Spirito Santo, deve aprire la Bibbia, e nella Bibbia si trova scritto che è come il vento; anzi, nel linguaggio della Bibbia lo si chiama proprio così: il Vento Santo di Dio. E cosa fa il vento? Spazza via le nuvole, la nebbia e anche la foschia. In quest’inverno che sta passando ha soffiato più d’una volta il vento, e con violenza così impetuosa da provocare anche danni…
Il Vento di Dio, cioè lo Spirito santo, non è violento, ma forte sì. Ebbene, in questi 40 giorni – da oggi a Pasqua – il Signore lo farà soffiare, e se qualcuno lo accoglie volentieri invece che chiudersi, farà sparire dal cuore e dalla mente la foschia… Sì, perché non è tanto grave che ci sia foschia sopra i paesi del Pinetano; è molto più grave la foschia che offusca il cuore e il cervello delle persone; questa si che è pericolosa: rende ciechi, impedisce di vedere bene e chiaramente se stessi, gli altri, e le cose… E il peggio è che non dura un giorno, può durare sempre, addirittura per tutta la vita.
La prima lettura di poco fa’ ci raccontava che gli Ebrei, quando i primi frutti, i primi prodotti della terra, cominciavano a maturare, ne mettevano un po’ in una cesta e li portavano al tempio per offrirli al Signore: oh, il Signore non ne aveva certo bisogno, ma era un bel modo per ricordarsi che tutto ciò che ci fa vivere è dono che viene dal Signore… Non siamo noi che produciamo il frumento in laboratorio, e neanche le patate o i piccoli frutti tipici della zona: è la terra che produce, grazie anche alla pioggia e al sole. Ora, terra, pioggia e sole, li ha creati Dio: per noi e per tutti. E così anche il lavoro e lo stipendio: se il Signore non ci avesse dato un cervello per inventare cose, mestieri, occupazioni varie, e la buona volontà e la forza di lavorare, noi saremo costretti a tirar cinghia…
Ma ecco che certuni hanno una specie di foschia o nebbia sul loro cuore oltre che sui loro occhi; pensano di essere loro stessi i protagonisti della loro fortuna, del loro benessere… E probabilmente non basterà nessuna crisi economica perché si ravvedano e tornino a vederci bene.
Gesù, quando è andato nel deserto, non ha trovato foschia, perché c’era un vento speciale lì: lo Spirito santo. “Fu guidato dallo Spirito santo nel deserto”: comincia così il vangelo di oggi. Oh, i miraggi…quelli sì! Si dice che nel deserto può capitare di vedere cose che in realtà non ci sono… La tentazione dei miraggi l’ha avuta anche Gesù! Eccome che l’ha avuta! Il miraggio del pane, ad esempio, cioè del frigorifero pieno e del guardaroba ben fornito e all’ultima moda: “basta questo, no?! cos’altro vuoi dalla vita?”. Ecco il miraggio. Ecco la foschia che sale e pesa sul cuore e sul cervello.
No: non basta né il frigorifero pieno né il guardaroba ben fornito… perché l’uomo non è fatto solo di stomaco, non gli basta il pane. Noi abbiamo bisogno di sentire spesso Parole di Dio, perché siamo figli suoi.
E poi il miraggio del successo, del potere, del fare fortuna in modo facile: anche questo ha provato; l’illusione di realizzarsi e diventare autosufficienti, o addirittura potenti, perché ci si dà le mani d’attorno… e magari si è venduta anche l’anima al diavolo. Ecco la foschia che impedisce di vedere nient’altro che se stessi.
Fratelli, quando si vede solo se stessi è inevitabile cadere nell’illusione di essere grandi, potenti, invincibili… Gesù non ha lasciato che questa foschia gli oscurasse il cervello: è rimasto limpido il suo sguardo. Attorno a sé vedeva solo polvere e sassi: deserto insomma. Ma lui sapeva che l’uomo è grande solo se si fida di Dio; da solo invece – senza Dio – l’uomo è polvere: il rito austero di Mercoledi scorso ce l’ha ricordato. “Tu sei polvere” ci è stato ripetuto: polvere!
Ma allora, perché non riconoscere serenamente che da soli non siamo né grandi, né potenti, né invincibili? Non vi pare che le esperienze, le situazioni, gli eventi che accadono anche ai nostri giorni, ci ricordino in maniera perfino sfacciata che siamo semplicemente fragili? Non lasciamo che la foschia delle illusioni offuschi di nuovo questa coscienza, fratelli.
L’ultima tentazione Gesù l’ha subita al Tempio: eh, ma possibile? Il tempio è la casa di Dio! Anche nel tempio può entrare il diavolo? Sì, quando la religione entra nella vita delle persone come un tranquillante … Quando si pensa che "un rapporto con Dio si’, bisogna pur averlo, magari con la pretesa che ci riservi una corsia preferenziale in caso di necessità… ma è una religiosità di comodo che non ha Dio al centro, bensì noi stessi, con le nostre visuali e le nostre idee… No, l’esperienza cristiana vera è fatta di tre componenti che devono integrarsi e stare insieme sempre: orazione (cioè preghiera, nel senso di dialogo con il Signore), formazione (cioè spiritualità robusta per affrontare la vita: qualsiasi mestiere richiede formazione, pensate che la vita cristiana valga meno di un qualsiasi mestiere?), la terza componente è l’azione: se non ci sono azioni, opere animate dalla fede e dalla carità… tutto è teoria: non è cristiana quella vita, quella persona! Per fortuna viene ogni anno la Quaresima, che ci provoca a verificare se siamo cristiani solo di nome o se lo siamo nei fatti.
Il Signore ci dà l’opportunità di liberare il nostro cuore e la nostra mente da ogni foschia: lasceremo che il vento dello Spirito la spazzi via? Oh, ma attenzione: occorre lasciarlo entrare, aprendo occhi, orecchi, e soprattutto il cuore, alla Parola di Dio. Eh sì, fratelli, è solo quella Parola che fa chiarezza, che ci abilita a vedere giusto e bene: noi stessi, gli altri e tutto attorno a noi.
Lasciamola entrare quella Parola non solo la Domenica, ma anche nei giorni durante la settimana: quel semplice calendario ormai tradizionale che è stato distribuito, ce la offre… Quaresima infatti è un cammino che richiede la fedeltà del giorno dopo giorno, del passo dopo passo: solo così si arriva a spazzar via la foschia dalla vita e a ritrovare limpidezza.
Non sono tempi facili questi nei quali viviamo, in un certo senso possiamo paragonarli a un deserto, ma se sapremo dare il primo posto alla Parola del Signore invece che alle nostre dee e opinioni personali, anche il deserto può diventare fecondo, e potremo uscirne migliori di come c’eravamo entrati.
***
T e m p o O r d i n a r i o
Domenica 2 Marzo - 8° del Tempo Ordinario
Le Letture Bibliche: Siracide 27,5-8; 1Corinzi 15,54-58; Luca 6,39-45
Se c’è una cosa di cui siamo assolutamente sicuri è che questa è la prima e unica volta che siamo al mondo. (Certuni, vogliosi di originalità, hanno adottato la visuale orientale ed esotica della "reincarnazione"... illudendosi così di avere un'altra chance e poter tornare a vivere un'altra volta... L'han fatto però in modo distorto e disonesto: la reincarnazione in Oriente non è un'opportunità, ma una disgrazia, un castigo..). No, non possiamo dire di aver già fatto un’esperienza precedente e di aver imparato qualcosa: è proprio la prima volta in assoluto che siamo al mondo.
A questo punto sarebbe proprio una brutta batosta sbagliare tutto, rovinare irrimediabilmente quest’unica opportunità che abbiamo. Non c’è infatti un’altra esistenza di riserva.
Questo però ha una conseguenza: nessuno è esperto in partenza di come si fa a vivere, quali scelte, quali decisioni prendere… e quali pericoli, quali strade sbagliate evitare. Al che è evidente che c’è bisogno di una guida, cioè di qualcuno che se n’intende. Ma chi precisamente? Se ogni individuo è nelle nostre stesse condizioni (cioè se è al mondo per la prima volta), come potrà farci da maestro?
È proprio qui che subentrano i rischi, e anche grossi di solito. Ci sono persone di ottima presenza, sanno parlare con disinvoltura, attirano su di sè l’attenzione di molti… Ma c’è da fidarsi? Prova a conoscerle un po’ più da vicino prima di lasciarti conquistare da loro: vedi come si comportano nella vita reale, in famiglia (ammesso che ce ne abbiano una come Dio comanda!), con il loro prossimo, sul lavoro (se sanno cosa vuol dire lavorare…).
Insomma, è dai frutti che si conosce l’albero, ce lo dice proprio oggi Gesù Cristo: “Non vi è albero buono che produca frutti cattivi, ne’ albero cattivo che produca frutti buoni”. E dal momento che è lui a parlare, è ovvio che ciò che è buono e ciò che è cattivo lo si valuta alla luce del suo Vangelo.
Ci sono sempre stati quelli che i frutti dell’albero non li hanno mai presi in considerazione e si sono lasciati plagiare, soggiogare da falsi maestri, guide cieche loro stessi. Oggi, in quest’epoca in cui i cambiamenti sono così rapidi da dare perfino le vertigini, questo è diventato un grosso rischio, anzi un pericolo per tante persone; non solo per i giovani (che, si sa, sono immaturi per natura), ma anche per gli adulti, anzi, perfino per gli anziani (che pure dovrebbero aver imparato qualcosa dalla vita). Si, è più frequente oggi questo rischio, è all’ordine del giorno il pericolo di affidarsi a maestri sbagliati. Non trovate che sia molto attuale quest’altra parola di Cristo che abbiamo ascoltato: “Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso?”. Eh, nel secolo scorso ce ne sono stati ciechi che hanno preteso di guidare altri ciechi… e altro che in un fosso sono caduti! Quante esistenze hanno rovinato! Ma non mancano neanche in quest’altro secolo a quanto pare…
Per non dire che proprio in questa nostra epoca (che potrebbe esser chiamata l’epoca del “secondo me”) non sono pochi quelli che presumono di poter fare da guida a se stessi, senza dipendere da altri… (una presunzione un po’ ingenua a dire il vero, perché proprio chi ritiene di non dipendere da nessun altro, alla fine si ritrova seguace di maestri occulti e astuti che nemmeno immaginava…). Comunque il criterio del “secondo me” ha molti seguaci: specie per quanto riguarda i comportamenti, le scelte di vita, dove può apparire perfino affascinante farsi la propria legge come pare e piace. Qui non è più un cieco che guida un altro cieco; è un cieco che si illude di vederci e brancola al buio: come potrà non precipitare nel fosso?
Teniamo presente però che la cecità non è l’unica malattia degli occhi. C’è chi, senza essere cieco, ha comunque una vista debole, oppure è strabico: vede storto, e male… Forse è una patologia che poco o tanto ci contagia un po’ tutti; è ancora il Vangelo di oggi che ci porta a questa conclusione, con questa domanda di Gesù Cristo: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?”. Eh, mi sa che questo è un ambito nel quale ci capita frequentemente di zoppicare… specialmente se non abbiamo la buona abitudine di fare ogni tanto l’esame di coscienza, oppure lo facciamo sì… ma secondo criteri che ci fanno comodo, tralasciandone certi altri che invece ci disturbano ma che sarebbero più importanti. I difetti degli altri comunque li sappiamo raccontare con tale precisione da farli sembrare perfino più gravi, più pesanti di quello che sono. Perché mai? C’è sempre una curiosità pruriginosa quando si tratta di debolezze umane, ed è una specie di strategia quella che mettiamo in atto in questi casi: quello che ci interessa infatti è che non vengano alla luce i nostri limiti, i nostri difetti. Raccontare quelli degli altri .è un modo astuto per nascondere i nostri.
Fratelli, è possibile affidarci a una guida che ci vede bene e non ci lascia cadere nel fosso? Produrre frutti buoni nel corso della nostra, invece che frutti aspri o immangiabili, sarà possibile? Gesù Cristo è un Maestro molto leale e soprattutto discreto. Non si fa pubblicità, anzitutto, non dirà mai: “Prendete me come guida…”, no; dice semplicemente: “Chi mi vuol seguire, venga e mi segua… Che vantaggio ha uno nel guadagnare anche il mondo intero, se poi perde o rovina se stesso?”.
Con Gesù Cristo non c’è il pericolo di cadere nel fosso, perché lui non solo ci vede bene, ma è luce: luce che non abbiamo acceso noi ma che è venuta da fuori, anzi, dall’alto! Anche se nel nostro occhio avessimo una trave invece che una pagliuzza, la diagnosi non ci deve spaventare: lui - ricco di misericordia - come medico è venuto in questo mondo.
Seguendo lui , si può vivere questa avventura unica che è la vita senza pericolo di rovinarla, perché lui non ci fa soltanto da guida: Lui è la via, la verità, la vita.
Le Letture Bibliche: Siracide 27,5-8; 1Corinzi 15,54-58; Luca 6,39-45
Se c’è una cosa di cui siamo assolutamente sicuri è che questa è la prima e unica volta che siamo al mondo. (Certuni, vogliosi di originalità, hanno adottato la visuale orientale ed esotica della "reincarnazione"... illudendosi così di avere un'altra chance e poter tornare a vivere un'altra volta... L'han fatto però in modo distorto e disonesto: la reincarnazione in Oriente non è un'opportunità, ma una disgrazia, un castigo..). No, non possiamo dire di aver già fatto un’esperienza precedente e di aver imparato qualcosa: è proprio la prima volta in assoluto che siamo al mondo.
A questo punto sarebbe proprio una brutta batosta sbagliare tutto, rovinare irrimediabilmente quest’unica opportunità che abbiamo. Non c’è infatti un’altra esistenza di riserva.
Questo però ha una conseguenza: nessuno è esperto in partenza di come si fa a vivere, quali scelte, quali decisioni prendere… e quali pericoli, quali strade sbagliate evitare. Al che è evidente che c’è bisogno di una guida, cioè di qualcuno che se n’intende. Ma chi precisamente? Se ogni individuo è nelle nostre stesse condizioni (cioè se è al mondo per la prima volta), come potrà farci da maestro?
È proprio qui che subentrano i rischi, e anche grossi di solito. Ci sono persone di ottima presenza, sanno parlare con disinvoltura, attirano su di sè l’attenzione di molti… Ma c’è da fidarsi? Prova a conoscerle un po’ più da vicino prima di lasciarti conquistare da loro: vedi come si comportano nella vita reale, in famiglia (ammesso che ce ne abbiano una come Dio comanda!), con il loro prossimo, sul lavoro (se sanno cosa vuol dire lavorare…).
Insomma, è dai frutti che si conosce l’albero, ce lo dice proprio oggi Gesù Cristo: “Non vi è albero buono che produca frutti cattivi, ne’ albero cattivo che produca frutti buoni”. E dal momento che è lui a parlare, è ovvio che ciò che è buono e ciò che è cattivo lo si valuta alla luce del suo Vangelo.
Ci sono sempre stati quelli che i frutti dell’albero non li hanno mai presi in considerazione e si sono lasciati plagiare, soggiogare da falsi maestri, guide cieche loro stessi. Oggi, in quest’epoca in cui i cambiamenti sono così rapidi da dare perfino le vertigini, questo è diventato un grosso rischio, anzi un pericolo per tante persone; non solo per i giovani (che, si sa, sono immaturi per natura), ma anche per gli adulti, anzi, perfino per gli anziani (che pure dovrebbero aver imparato qualcosa dalla vita). Si, è più frequente oggi questo rischio, è all’ordine del giorno il pericolo di affidarsi a maestri sbagliati. Non trovate che sia molto attuale quest’altra parola di Cristo che abbiamo ascoltato: “Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso?”. Eh, nel secolo scorso ce ne sono stati ciechi che hanno preteso di guidare altri ciechi… e altro che in un fosso sono caduti! Quante esistenze hanno rovinato! Ma non mancano neanche in quest’altro secolo a quanto pare…
Per non dire che proprio in questa nostra epoca (che potrebbe esser chiamata l’epoca del “secondo me”) non sono pochi quelli che presumono di poter fare da guida a se stessi, senza dipendere da altri… (una presunzione un po’ ingenua a dire il vero, perché proprio chi ritiene di non dipendere da nessun altro, alla fine si ritrova seguace di maestri occulti e astuti che nemmeno immaginava…). Comunque il criterio del “secondo me” ha molti seguaci: specie per quanto riguarda i comportamenti, le scelte di vita, dove può apparire perfino affascinante farsi la propria legge come pare e piace. Qui non è più un cieco che guida un altro cieco; è un cieco che si illude di vederci e brancola al buio: come potrà non precipitare nel fosso?
Teniamo presente però che la cecità non è l’unica malattia degli occhi. C’è chi, senza essere cieco, ha comunque una vista debole, oppure è strabico: vede storto, e male… Forse è una patologia che poco o tanto ci contagia un po’ tutti; è ancora il Vangelo di oggi che ci porta a questa conclusione, con questa domanda di Gesù Cristo: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?”. Eh, mi sa che questo è un ambito nel quale ci capita frequentemente di zoppicare… specialmente se non abbiamo la buona abitudine di fare ogni tanto l’esame di coscienza, oppure lo facciamo sì… ma secondo criteri che ci fanno comodo, tralasciandone certi altri che invece ci disturbano ma che sarebbero più importanti. I difetti degli altri comunque li sappiamo raccontare con tale precisione da farli sembrare perfino più gravi, più pesanti di quello che sono. Perché mai? C’è sempre una curiosità pruriginosa quando si tratta di debolezze umane, ed è una specie di strategia quella che mettiamo in atto in questi casi: quello che ci interessa infatti è che non vengano alla luce i nostri limiti, i nostri difetti. Raccontare quelli degli altri .è un modo astuto per nascondere i nostri.
Fratelli, è possibile affidarci a una guida che ci vede bene e non ci lascia cadere nel fosso? Produrre frutti buoni nel corso della nostra, invece che frutti aspri o immangiabili, sarà possibile? Gesù Cristo è un Maestro molto leale e soprattutto discreto. Non si fa pubblicità, anzitutto, non dirà mai: “Prendete me come guida…”, no; dice semplicemente: “Chi mi vuol seguire, venga e mi segua… Che vantaggio ha uno nel guadagnare anche il mondo intero, se poi perde o rovina se stesso?”.
Con Gesù Cristo non c’è il pericolo di cadere nel fosso, perché lui non solo ci vede bene, ma è luce: luce che non abbiamo acceso noi ma che è venuta da fuori, anzi, dall’alto! Anche se nel nostro occhio avessimo una trave invece che una pagliuzza, la diagnosi non ci deve spaventare: lui - ricco di misericordia - come medico è venuto in questo mondo.
Seguendo lui , si può vivere questa avventura unica che è la vita senza pericolo di rovinarla, perché lui non ci fa soltanto da guida: Lui è la via, la verità, la vita.
Domenica 23 Febbraio - 7° del Tempo Ordinario
Le Letture Bibliche: 1Samuele 26; 1Corinzi 15,45-49; Luca 6,27-38
Mentre leggevo questa pagina di Vangelo quali erano i pensieri o i sentimenti con i quali voi l’ascoltavate, fratelli? Oso immaginarli (forse sbagliando). Più di qualcuno avrà pensato: “sì, questa l’abbiamo sentita altre volte… le solite sparate del Vangelo… impossibili da mettere in pratica…”. Qualcun altro invece, già alle prime parole “amate i vostri nemici”, ha deciso di cambiare canale e pensare ai fatti suoi… Certamente c’è anche chi ha pensato, forse pregando in cuor suo: “Signore, ma non ti pare di chiederci un po’ troppo?”.
Sì, d’accordo, nonostante egoismi, individualismi e altri –ismi… siamo ancora abbastanza umani da provare compassione davanti a qualcuno che soffre, o ribellione davanti a un sopruso che grida vendetta al cielo, siamo ancora capaci di fare un gesto di soccorso e di solidarietà verso chi è ingiustamente calpestato o maltrattato.
Ma perdonare a chi ci ha fatto del male, fare del bene ai propri nemici, pregare per quelli che ci maltrattano, a chi ci percuote su una guancia porgere anche l’altra, prestare senza sperare un contraccambio o un interesse… eh, no: non è affatto spontaneo, né facile, e tantomeno immediato. Ma poi, è davvero possibile? Noi poi ragioniamo in teoria, perchè in pratica – e per fortuna – siamo lontani da situazioni drammatiche di oppressione, di violenza, di sopruso… ma come reagiranno i cristiani di certi Paesi dell’Africa (Sudan, Congo…) continuamente esposti a violenza, guerriglia e atrocità d’ogni genere… Cosa penseranno i cristiani palestinesi di Gaza (pochi, le case distrutte, le famiglie martoriate…), cosa penseranno, visto che anche loro oggi sentiranno questo stesso vangelo? Ecco, fratelli, non saremmo onesti se – ascoltandolo – dimenticassimo che ci sono cristiani provocati a metterlo in pratica in situazioni così drammatiche che noi non riusciamo nemmeno a immaginarle… E forse proprio anche per questo trovano il coraggio, l’audacia, di metterlo in pratica.
È bene comunque chiarirlo subito, a scanso di equivoci: queste parole di Gesù non sono rivolte a gente remissiva, debole, che si tira indietro e getta la spugna alla prima difficoltà. Coloro che cercano di mettere in pratica queste esortazioni all’amore e al perdono, non sono vittime inermi che possono solo soccombere. No, ci vuole una grande forza per amare fino a questo punto, per riuscire a vivere una benevolenza, una magnanimità, una misericordia, una nobiltà d’animo che avvicinano a Dio e rendono simili a lui.
Quello che il Signore chiede non era valido solo ieri, lo è per sempre e per tutti. Sì anche per oggi, per questo nostro tempo. Non è questione di pessimismo, ma è sotto gli occhi di tutti (almeno di quelli che gli occhi li tegono aperti): è in atto un preoccupante declino di umanità a tutto vantaggio dell’arroganza di pochi potenti, un disprezzo della vita in tutte le sue fasi, un’assenza di compassione e un trionfo di crudeltà perfino nei confronti degli innocenti, cioè i bambini… Non trovate impressionante questo, fratelli, o ci stiamo facendo il callo? Dio non voglia.
Il male è terribile perchè se si risponde al male con altro male, questo innesca una spirale che si allarga sempre più. Quanto ci vorrà ancora a capire che a rispondere al male con il male si viene ingoiati nel suo gorgo di vendetta e di cattiveria? Come possiamo reagire noi cristiani? Non c’è altro modo per sottrarsi al suo potere che tentare, sforzarsi, riuscire ad amare. L’unica vera e radicale alternativa alle logiche del male e ai criteri folli di questo mondo è il vangelo che ancora anche oggi il Signore ci consegna… Sì, proprio ci consegna, ci affida come qualcosa di irrinunciabile da cui dipende il futuro di tutta l’umanità: l’amore coraggioso, gratuito, ecco la prima e l’ultima parola della storia, l’unica che va assolutamente conservata e difesa, a qualsiasi costo. E tocca a noi, a noi cristiani che abitiamo a tutte le latitudini del mondo, tocca a noi custodirla, testimoniarla, pubblicizzarla in tutti i modi possibili.
E comunque è vero e sarà sempre vero: ci vuole una grande forza per amare fino a questo punto, per riuscire a praticare una bontà a tutta prova, una grandezza d’animo che non si lega mai un’offesa al dito in attesa di vendicarsi ma conosce solo la misericordia… Tutto questo ci avvicina a Dio, sì, certamente… ci rende simili a lui… ma dove prenderemo questa forza? Siamo mica degli eroi…
No, infatti, Dio non ha bisogno di eroi, non ha mai cercato eroi… solo gente come noi: è a persone come noi che Dio da sempre dona la capacità di fare ciò che raccomanda. La nostra forza, il coraggio di perdonare e di amare quando costa tanto amare, viene solo da Lui. Occorre sentirsi amati, accompagnati, guariti, perdonati da Lui per osare a comportarsi come lui ci esorta a fare nel vangelo di oggi. La nostra buona volontà, i propositi, le buone intenzioni, non bastano… anzi, nemmeno per cominciare bastano.
Del resto, per cos’è che preghiamo ogni giorno, e partecipiamo alla Messa la Domenica, e ci accostiamo alla Comunione? Cos’è questo se non fare rifornimento di quella forza che da soli non possiamo avere? Ricordiamocelo, fratelli, se Dio ci chiede dei comportamenti straordinari, non ci lascia in balia dei nostri limiti: ci dà sempre anche l’energia per fare ciò che ci chiede di fare. Certo è che occorre accostarsi alla fonte, rifornirsi di quell’energia, se non si vuol restare a secco. Quante volte, fratelli, stiamo anche noi davanti a Dio come mendicanti di amore e di misericordia! E mai una volta che lui ce la neghi o ce la rifiuti: mai!
Che ne dite se in quest’anno santo prendessimo più a cuore questo vangelo, queste esortazioni del Signore, per rimettere un po’ in sesto questo mondo d’oggi, o per impedire che i suoi mali s’aggravino ancor più? E non caviamocela col dire: chi siamo noi per poter cambiare il mondo? Noi non siamo niente, ma insieme a quel Dio in cui crediamo noi invece contiamo moltissimo. Ricordiamocelo, fratelli.
Allora basterà avere pazienza: anche i muri più solidi, crolleranno. Basterà donare bontà: anche i rifiuti più ostinati, finiranno per cedere. Basterà offrire misericordia: anche la cattiveria più recidiva prima o poi si troverà spiazzata.
Strada difficile? Impossibile? Ah, non è detto che per andare in montagna si debba scalare subito una parete rocciosa. Vale la pena cominciare ad inerpicarsi per qualche sentiero ripido e poco battuto, e già per questo – come ci assicura il Signore oggi – la nostra ricompensa sarà grande e noi saremo davvero figli dell’Altissimo.
Le Letture Bibliche: 1Samuele 26; 1Corinzi 15,45-49; Luca 6,27-38
Mentre leggevo questa pagina di Vangelo quali erano i pensieri o i sentimenti con i quali voi l’ascoltavate, fratelli? Oso immaginarli (forse sbagliando). Più di qualcuno avrà pensato: “sì, questa l’abbiamo sentita altre volte… le solite sparate del Vangelo… impossibili da mettere in pratica…”. Qualcun altro invece, già alle prime parole “amate i vostri nemici”, ha deciso di cambiare canale e pensare ai fatti suoi… Certamente c’è anche chi ha pensato, forse pregando in cuor suo: “Signore, ma non ti pare di chiederci un po’ troppo?”.
Sì, d’accordo, nonostante egoismi, individualismi e altri –ismi… siamo ancora abbastanza umani da provare compassione davanti a qualcuno che soffre, o ribellione davanti a un sopruso che grida vendetta al cielo, siamo ancora capaci di fare un gesto di soccorso e di solidarietà verso chi è ingiustamente calpestato o maltrattato.
Ma perdonare a chi ci ha fatto del male, fare del bene ai propri nemici, pregare per quelli che ci maltrattano, a chi ci percuote su una guancia porgere anche l’altra, prestare senza sperare un contraccambio o un interesse… eh, no: non è affatto spontaneo, né facile, e tantomeno immediato. Ma poi, è davvero possibile? Noi poi ragioniamo in teoria, perchè in pratica – e per fortuna – siamo lontani da situazioni drammatiche di oppressione, di violenza, di sopruso… ma come reagiranno i cristiani di certi Paesi dell’Africa (Sudan, Congo…) continuamente esposti a violenza, guerriglia e atrocità d’ogni genere… Cosa penseranno i cristiani palestinesi di Gaza (pochi, le case distrutte, le famiglie martoriate…), cosa penseranno, visto che anche loro oggi sentiranno questo stesso vangelo? Ecco, fratelli, non saremmo onesti se – ascoltandolo – dimenticassimo che ci sono cristiani provocati a metterlo in pratica in situazioni così drammatiche che noi non riusciamo nemmeno a immaginarle… E forse proprio anche per questo trovano il coraggio, l’audacia, di metterlo in pratica.
È bene comunque chiarirlo subito, a scanso di equivoci: queste parole di Gesù non sono rivolte a gente remissiva, debole, che si tira indietro e getta la spugna alla prima difficoltà. Coloro che cercano di mettere in pratica queste esortazioni all’amore e al perdono, non sono vittime inermi che possono solo soccombere. No, ci vuole una grande forza per amare fino a questo punto, per riuscire a vivere una benevolenza, una magnanimità, una misericordia, una nobiltà d’animo che avvicinano a Dio e rendono simili a lui.
Quello che il Signore chiede non era valido solo ieri, lo è per sempre e per tutti. Sì anche per oggi, per questo nostro tempo. Non è questione di pessimismo, ma è sotto gli occhi di tutti (almeno di quelli che gli occhi li tegono aperti): è in atto un preoccupante declino di umanità a tutto vantaggio dell’arroganza di pochi potenti, un disprezzo della vita in tutte le sue fasi, un’assenza di compassione e un trionfo di crudeltà perfino nei confronti degli innocenti, cioè i bambini… Non trovate impressionante questo, fratelli, o ci stiamo facendo il callo? Dio non voglia.
Il male è terribile perchè se si risponde al male con altro male, questo innesca una spirale che si allarga sempre più. Quanto ci vorrà ancora a capire che a rispondere al male con il male si viene ingoiati nel suo gorgo di vendetta e di cattiveria? Come possiamo reagire noi cristiani? Non c’è altro modo per sottrarsi al suo potere che tentare, sforzarsi, riuscire ad amare. L’unica vera e radicale alternativa alle logiche del male e ai criteri folli di questo mondo è il vangelo che ancora anche oggi il Signore ci consegna… Sì, proprio ci consegna, ci affida come qualcosa di irrinunciabile da cui dipende il futuro di tutta l’umanità: l’amore coraggioso, gratuito, ecco la prima e l’ultima parola della storia, l’unica che va assolutamente conservata e difesa, a qualsiasi costo. E tocca a noi, a noi cristiani che abitiamo a tutte le latitudini del mondo, tocca a noi custodirla, testimoniarla, pubblicizzarla in tutti i modi possibili.
E comunque è vero e sarà sempre vero: ci vuole una grande forza per amare fino a questo punto, per riuscire a praticare una bontà a tutta prova, una grandezza d’animo che non si lega mai un’offesa al dito in attesa di vendicarsi ma conosce solo la misericordia… Tutto questo ci avvicina a Dio, sì, certamente… ci rende simili a lui… ma dove prenderemo questa forza? Siamo mica degli eroi…
No, infatti, Dio non ha bisogno di eroi, non ha mai cercato eroi… solo gente come noi: è a persone come noi che Dio da sempre dona la capacità di fare ciò che raccomanda. La nostra forza, il coraggio di perdonare e di amare quando costa tanto amare, viene solo da Lui. Occorre sentirsi amati, accompagnati, guariti, perdonati da Lui per osare a comportarsi come lui ci esorta a fare nel vangelo di oggi. La nostra buona volontà, i propositi, le buone intenzioni, non bastano… anzi, nemmeno per cominciare bastano.
Del resto, per cos’è che preghiamo ogni giorno, e partecipiamo alla Messa la Domenica, e ci accostiamo alla Comunione? Cos’è questo se non fare rifornimento di quella forza che da soli non possiamo avere? Ricordiamocelo, fratelli, se Dio ci chiede dei comportamenti straordinari, non ci lascia in balia dei nostri limiti: ci dà sempre anche l’energia per fare ciò che ci chiede di fare. Certo è che occorre accostarsi alla fonte, rifornirsi di quell’energia, se non si vuol restare a secco. Quante volte, fratelli, stiamo anche noi davanti a Dio come mendicanti di amore e di misericordia! E mai una volta che lui ce la neghi o ce la rifiuti: mai!
Che ne dite se in quest’anno santo prendessimo più a cuore questo vangelo, queste esortazioni del Signore, per rimettere un po’ in sesto questo mondo d’oggi, o per impedire che i suoi mali s’aggravino ancor più? E non caviamocela col dire: chi siamo noi per poter cambiare il mondo? Noi non siamo niente, ma insieme a quel Dio in cui crediamo noi invece contiamo moltissimo. Ricordiamocelo, fratelli.
Allora basterà avere pazienza: anche i muri più solidi, crolleranno. Basterà donare bontà: anche i rifiuti più ostinati, finiranno per cedere. Basterà offrire misericordia: anche la cattiveria più recidiva prima o poi si troverà spiazzata.
Strada difficile? Impossibile? Ah, non è detto che per andare in montagna si debba scalare subito una parete rocciosa. Vale la pena cominciare ad inerpicarsi per qualche sentiero ripido e poco battuto, e già per questo – come ci assicura il Signore oggi – la nostra ricompensa sarà grande e noi saremo davvero figli dell’Altissimo.
Domenica 16 Febbraio - 6° del Tempo Ordinario
Le Letture Bibliche: Geremia 17,5-8; 1Corinzi 15,12.16-20; Luca 6,17.20-26
A Los Angeles (Stati Uniti), è da tempo che esiste una regola di vita per i miliardari straricchi, in modo che osservandola possano essere felici (in realtà è una presa in giro): «Vi alzate alle otto. Prendete un succo d'arance e le vostre vitamine. Una passeggiata di mezz'ora, con il vostro cane, vi prepara al break-fest. Dopo leggete i giornali e la posta. Verso le dieci e mezza, una prima nuotata in piscina, poi ginnastica defatigante, bagno, sole e toeletta completa. Segue il pranzo, che potete condividere con gli amici. Dopo il pranzo e il caffè, di solito si vede un film in una proiezione privata, oppure shopping e telefonate. Verso le sedici, tennis o equitazione o golf. Al rientro, una seconda nuotata in piscina, e footing del pomeriggio. Dopo questi esercizi, doccia, massaggio e, assolutamente raccomandata, una piccola siesta. Quando vi sveglierete dalla siesta, avrete… ottant'anni».
E’ questo essere felici? No, probabilmente questo è essere stupidi. Questo è passare la vita a rincorrere la felicità senza mai trovarla. Dai primi di gennaio di quest’anno a Los Angeles è divampato per un mese un incendio che ha distrutto oltre 150 chilometri quadrati di territorio e danneggiato più di 6000 case.
Ed ecco che oggi Gesù Cristo viene a dirci: “Beati voi, poveri… voi che avete fame… Ma guai a voi ricchi… guai a voi che siete sazi…!”. Ma sono le minacce di un rivoluzionario o sono da prendere sul serio? E perché dovremmo prenderle sul serio? Il motivo vero oggi ce l’ha detto san Paolo; era la seconda lettura (di solito non la commento, mi basta il vangelo, ma oggi è troppo importante quello che afferma l’apostolo Paolo per non prestargli ascolto…). “Il fondamento della nostra Fede sta nel fatto che Gesù Cristo è risorto dai morti - dice (domenica scorsa nominava anche i numerosi testimoni di questo evento inaudito )… se non crediamo questo, è inutile e vana la nostra Fede, e noi siamo da commiserare più di tutti gli uomini!”.
Insomma, noi siamo gente che accetta come fondamento di tutto un evento che ha del paradosso: la risurrezione di Gesù. Ma accettare questo fondamento vuol dire mettere in discussione ogni logica di questo mondo: quello che sembra bianco, in realtà può essere nero; l'ultimo può risultare il primo; la fine può trasformarsi in nuovo inizio. Se Cristo è risorto, anche il potere assoluto della morte va messo in discussione, e allora tante altre sicurezze - in apparenza scontate - possono scricchiolare e saltare in aria.
Può saltare in aria l'idea che chi è ricco sia perciò stesso felice: "beato lui" si afferma. Ebbene, no: "Guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione!". Può saltare l'idea che ciò che conta è avere dei buoni appoggi per farsi strada nella vita... Macchè! È gioco da bambini. "Maledetto l'uomo che confida nell'uomo - ci grida oggi la Parola di Dio - è come una pianta nella steppa: cresce in fretta nella stagione delle piogge e poi si secca altrettanto in fretta quando arriva l'estate...". "Maledetto" è un termine che, nella Bibbia più che condanna, suona commiserazione: poveretto, che disgraziato! Fa pena!
Come può saltare l'idea che la vita sia una specie di limone da spremere e da godere fin che dura: no. "Guai a voi che ora siete sazi, voi che ridete e ve la spassate, perché piangerete!".
Ed ecco che si affacciano invece altri criteri di valutazione, i quali - pur nella loro stranezza - hanno tutta l'aria di essere autentici e definitivi:"Beati, cioè fortunati, voi poveri! Voi che ora avete fame... Voi che piangete... Fortunati quando dovrete affrontare grane per causa mia (è Cristo a parlare così)... Beati voi!". Sì, ci vuole una bella faccia tosta per dire cose del genere, eppure Gesù Cristo non ci prendeva in giro quando le diceva. Possiamo nutrire senz'altro il sospetto che possa aver ragione.
Ne abbiamo una specie di riprova in un dato che capita a tutti di constatare: l'espressione del nostro volto. E’ qualcosa di così naturale, che non la si può programmare in anticipo; è provocata da quello che c’è dentro di noi. Sei sereno, sei in pace con te stesso e con il prossimo? Lo si vede, e come che lo si vede! Sei agitato, sei teso, inquieto? Stanne certo: traspare dal tuo volto!
Ci sono individui, i quali - stando al comune buon senso - avrebbero tutte le carte in regola per essere felici e spensierati, ma il loro volto esprime invece noia, apatia, grigiore; mentre altri - che in base ai criteri degli uomini dovrebbero fare la pubblicità alla sofferenza, alla disperazione, alla sconfitta - si ritrovano invece un volto che lascia trasparire tranquillità, pace, serenità, forse perfino gioia. Ecco, fratelli, la riprova che ci porta a sospettare che Cristo abbia ragione quando si complimenta con i poveri, con gli afflitti, con quelli che soffrono... Non perché tali situazioni siano di per sé motivo di gioia e di felicità, anzi: tutt'altro. Ma perché Dio, con il suo Regno, si è messo da quella parte e ha fatto sue quelle situazioni. E se Dio sta da quella parte, con quella gente, allora soltanto là si può essere al sicuro.
Se è così, val la pena cercare di ragionare diversamente, con altri criteri, che possono far saltare i dogmi di questo mondo e dell'odierna cultura dominante:
Le Letture Bibliche: Geremia 17,5-8; 1Corinzi 15,12.16-20; Luca 6,17.20-26
A Los Angeles (Stati Uniti), è da tempo che esiste una regola di vita per i miliardari straricchi, in modo che osservandola possano essere felici (in realtà è una presa in giro): «Vi alzate alle otto. Prendete un succo d'arance e le vostre vitamine. Una passeggiata di mezz'ora, con il vostro cane, vi prepara al break-fest. Dopo leggete i giornali e la posta. Verso le dieci e mezza, una prima nuotata in piscina, poi ginnastica defatigante, bagno, sole e toeletta completa. Segue il pranzo, che potete condividere con gli amici. Dopo il pranzo e il caffè, di solito si vede un film in una proiezione privata, oppure shopping e telefonate. Verso le sedici, tennis o equitazione o golf. Al rientro, una seconda nuotata in piscina, e footing del pomeriggio. Dopo questi esercizi, doccia, massaggio e, assolutamente raccomandata, una piccola siesta. Quando vi sveglierete dalla siesta, avrete… ottant'anni».
E’ questo essere felici? No, probabilmente questo è essere stupidi. Questo è passare la vita a rincorrere la felicità senza mai trovarla. Dai primi di gennaio di quest’anno a Los Angeles è divampato per un mese un incendio che ha distrutto oltre 150 chilometri quadrati di territorio e danneggiato più di 6000 case.
Ed ecco che oggi Gesù Cristo viene a dirci: “Beati voi, poveri… voi che avete fame… Ma guai a voi ricchi… guai a voi che siete sazi…!”. Ma sono le minacce di un rivoluzionario o sono da prendere sul serio? E perché dovremmo prenderle sul serio? Il motivo vero oggi ce l’ha detto san Paolo; era la seconda lettura (di solito non la commento, mi basta il vangelo, ma oggi è troppo importante quello che afferma l’apostolo Paolo per non prestargli ascolto…). “Il fondamento della nostra Fede sta nel fatto che Gesù Cristo è risorto dai morti - dice (domenica scorsa nominava anche i numerosi testimoni di questo evento inaudito )… se non crediamo questo, è inutile e vana la nostra Fede, e noi siamo da commiserare più di tutti gli uomini!”.
Insomma, noi siamo gente che accetta come fondamento di tutto un evento che ha del paradosso: la risurrezione di Gesù. Ma accettare questo fondamento vuol dire mettere in discussione ogni logica di questo mondo: quello che sembra bianco, in realtà può essere nero; l'ultimo può risultare il primo; la fine può trasformarsi in nuovo inizio. Se Cristo è risorto, anche il potere assoluto della morte va messo in discussione, e allora tante altre sicurezze - in apparenza scontate - possono scricchiolare e saltare in aria.
Può saltare in aria l'idea che chi è ricco sia perciò stesso felice: "beato lui" si afferma. Ebbene, no: "Guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione!". Può saltare l'idea che ciò che conta è avere dei buoni appoggi per farsi strada nella vita... Macchè! È gioco da bambini. "Maledetto l'uomo che confida nell'uomo - ci grida oggi la Parola di Dio - è come una pianta nella steppa: cresce in fretta nella stagione delle piogge e poi si secca altrettanto in fretta quando arriva l'estate...". "Maledetto" è un termine che, nella Bibbia più che condanna, suona commiserazione: poveretto, che disgraziato! Fa pena!
Come può saltare l'idea che la vita sia una specie di limone da spremere e da godere fin che dura: no. "Guai a voi che ora siete sazi, voi che ridete e ve la spassate, perché piangerete!".
Ed ecco che si affacciano invece altri criteri di valutazione, i quali - pur nella loro stranezza - hanno tutta l'aria di essere autentici e definitivi:"Beati, cioè fortunati, voi poveri! Voi che ora avete fame... Voi che piangete... Fortunati quando dovrete affrontare grane per causa mia (è Cristo a parlare così)... Beati voi!". Sì, ci vuole una bella faccia tosta per dire cose del genere, eppure Gesù Cristo non ci prendeva in giro quando le diceva. Possiamo nutrire senz'altro il sospetto che possa aver ragione.
Ne abbiamo una specie di riprova in un dato che capita a tutti di constatare: l'espressione del nostro volto. E’ qualcosa di così naturale, che non la si può programmare in anticipo; è provocata da quello che c’è dentro di noi. Sei sereno, sei in pace con te stesso e con il prossimo? Lo si vede, e come che lo si vede! Sei agitato, sei teso, inquieto? Stanne certo: traspare dal tuo volto!
Ci sono individui, i quali - stando al comune buon senso - avrebbero tutte le carte in regola per essere felici e spensierati, ma il loro volto esprime invece noia, apatia, grigiore; mentre altri - che in base ai criteri degli uomini dovrebbero fare la pubblicità alla sofferenza, alla disperazione, alla sconfitta - si ritrovano invece un volto che lascia trasparire tranquillità, pace, serenità, forse perfino gioia. Ecco, fratelli, la riprova che ci porta a sospettare che Cristo abbia ragione quando si complimenta con i poveri, con gli afflitti, con quelli che soffrono... Non perché tali situazioni siano di per sé motivo di gioia e di felicità, anzi: tutt'altro. Ma perché Dio, con il suo Regno, si è messo da quella parte e ha fatto sue quelle situazioni. E se Dio sta da quella parte, con quella gente, allora soltanto là si può essere al sicuro.
Se è così, val la pena cercare di ragionare diversamente, con altri criteri, che possono far saltare i dogmi di questo mondo e dell'odierna cultura dominante:
- il dogma del possesso e del benessere come ideale prioritario dell'esistenza
- il dogma del godersi la vita ad ogni costo, evitando ogni sofferenza
- il dogma della riuscita, qui e adesso, perché aldilà non si sa come saranno le cose
- e altri ancora, che hanno già cominciato a scricchiolare perché sono senza fondamento…
Domenica 9 Febbraio - 5° del Tempo Ordinario
Le Letture Bibliche: Isaia 6,1-2a.3-8; 1Corinzi 15,1-11; Luca 5,1-11
“Fallimento” è una parola che risuona spesso di questi tempi. Sul piano delle imprese, soprattutto se piccole e magari in situazioni di crisi, è inevitabile che più d’una deva chiudere i battenti e dichiarare fallimento. Ma anche nell’esperienza personale degli individui o delle famiglie si possono provare sensazioni di fallimento, l’impressione di aver agito e faticato… per niente. Chiunque ha delle responsabilità, come genitore, educatore, vedendo che i risultati sono all’opposto di quello che si aspettava, se lo domanda: “Ma dov’è che ho sbagliato? Ma… allora ci siamo illusi? abbiamo faticato per niente?”. Sì, crisi ce ne sono in tutte le stagioni del mondo, ma certe stagioni o epoche sono terreno fecondo per le crisi: non solo economiche, ma anche e soprattutto crisi di cultura, di ideali, crisi di punti di riferimento sicuri… Anche nella Chiesa, dal momento che vive in questo mondo, si possono sperimentare…
Perché tocco questo argomento? Una predica non dovrebbe invece dare fiducia, infondere coraggio, ravvivare la speranza? Sì, se si predica il vangelo (che è sempre bella notizia) una predica può e deve dare questo…però non basta che io vi dica: “Eh, fatevi coraggio… cosa volete che sia?!”. Vi prenderei in giro se predicassi così. Il vangelo è bella notizia, ma parte sempre dalla realtà: bella o meno bella che sia. E se ho cominciato su questo tono è proprio per via del vangelo, quello che abbiamo ascoltato poco fa’.
Simon Pietro – esperto pescatore di professione – quella mattina se ne tornava a casa dopo una notte buttata via sul lago di Gennesaret senza prender niente: e non andava a pescare per hobby o per passarsi il tempo, come i pescatori di oggi … No, era il suo mestiere; per la sua famiglia era questione di sopravvivenza. Allorchè Gesù si rivolse proprio a lui e gli domandò di prestargli la barca, perché da lì tutti l’avrebbero visto e sentito meglio, Simon Pietro deve aver fatto uno sforzo notevole per non rispondere male…ma il colmo fu quando si sentì rivolgere proprio queste parole: “Prendi il largo e gettate le reti per la pesca…”. “Abbiamo faticato tutta la notte – risponde - e non abbiamo preso niente!”. Io penso che l’evangelista però ha un po’ ammorbidito la risposta di Pietro, il quale invece deve aver reagito con una certa stizza: “Siamo demoralizzati, caro Gesù; tu avrai anche belle parole da dire, ma noi ce ne torniamo a casa a mani vuote. E poi, non sai che a pesca sul mare si va di notte? Per noi… altro che un futuro sereno, altro che fiducia o speranza: se è così, meglio chiudere baracca e cambiar mestiere, ammesso che se ne trovi un altro!”.
A distanza di 2000 anni da quella mattina, c’è ancora molta gente che ragiona così. Anche tra noi cristiani. Solo che ci guardiamo attorno, o che sentiamo certe notizie, c’è da restare amareggiati e demoralizzati, come Simon Pietro… La nostra civiltà occidentale – anche a guardare le discussioni e le polemiche di quelli che dovrebbero governare con senso di responsabilità e competenza - sembra aver imboccato la via del declino più che quella del futuro.
Ah, lo so che non è entusiasmante sentir parlare di queste cose, fratelli, ma siccome la nostra cultura fa di tutto per nasconderle, credo sia nostro primo dovere di cristiani tenere gli occhi aperti. Sì, si respira pessimismo nella cultura di oggi, ma non tolleriamo di esserne dominati telecomandati; anzi, direi non temiamo di scoprire le nostre piaghe – personali o collettive che siano – davanti a Gesù Cristo: lasciamoci curare da lui, lo sa fare con tenerezza e misericordia.
Ora è a noi – a tutti e a ciascuno in particolare - che Gesù dice: “Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca!”. Diciamogli pure le nostra perplessità, le nostre apprensioni, i nostri dubbi: “Abbiamo faticato tanto e per niente, caro Gesù!” . Ma non tralasciamo di dirgli ciò che è più importante: “Sulla tua parola, Signore, getterò le reti!”. Anche se le mie esperienze, i miei sentimenti, il mio buon senso, mi porterebbero in tutt’altra direzione… tuttavia: sulla tua parola, Signore, getterò le reti!
Il vangelo ci ha raccontato che quella mattina, lì sul lago di Tiberiade, il risultato fu… strepitoso. Tanto che Simon Pietro rimase esterrefatto e non seppe dire a Gesù nient’altro che questo: “Signore, allontanati da me perché io sono un peccatore”. Gesù gli rispose: “Non temere: d’ora in poi tu sarai pescatore di uomini!”. No, a Dio non fanno problema i nostri difetti, i nostri peccati… gli fa problema l’ipocrisia, quel voler apparire sempre persone dabbene, irreprensibili, anche quando non lo si è affatto. Queste sono maschere da Carnevale, ma non può essere tutti i giorni Carnevale.
Ed è dentro la vita che Gesù ci chiama, cari fratelli: nel bel mezzo della nostra vita quotidiana, profana, tutta presa da impegni e spesso da preoccupazioni, e magari proprio quando ci sentiamo fragili, stanchi e magari anche demoralizzati… Ci prende come siamo Gesù. Possiamo fare poco? Le nostre disponibilità di mezzi, di qualità, di doti… sono scarse? Non importa, anzi, meglio: così è lui che può fare da protagonista con tutta la sua competenza. Noi gli mettiamo a disposizione quel poco che siamo e che abbiamo (poco tempo, poche qualità, pochi mezzi…), ma è su questo poco che conta il Signore per fare “cose meravigliose”.
Questo vuol dire: bando al pessimismo, alla sfiducia e a tutto quello che ci butta giù di morale. Mettiamo pure in preventivo che Gesù ci chiama, ci aspetta ogni mattina, allorchè riprendiamo la nostra vita quotidiana. Affrontiamo insieme a lui quelle situazioni che ci si presentano durante la giornata: in famiglia, sul lavoro, per strada… con l’unica attenzione a viverle da cristiani. Forse il risultato srà scarso, potremo fare poco, ma quel poco diventa molto insieme a Lui. E’ a ognuno di noi che oggi dice: Prendi il largo e cala le tue reti…, E si aspetta che gli rispondiamo: “Sì, Signore, sulla tua parola lo farò...”.
Quale che sia il nostro stato di vita, il nostro ambito di attività e di responsabilità, siatene certi: con lui, fidandoci della sua Parola, tutto potrà davvero essere diverso, tanto che noi stessi ne resteremo meravigliati.
Le Letture Bibliche: Isaia 6,1-2a.3-8; 1Corinzi 15,1-11; Luca 5,1-11
“Fallimento” è una parola che risuona spesso di questi tempi. Sul piano delle imprese, soprattutto se piccole e magari in situazioni di crisi, è inevitabile che più d’una deva chiudere i battenti e dichiarare fallimento. Ma anche nell’esperienza personale degli individui o delle famiglie si possono provare sensazioni di fallimento, l’impressione di aver agito e faticato… per niente. Chiunque ha delle responsabilità, come genitore, educatore, vedendo che i risultati sono all’opposto di quello che si aspettava, se lo domanda: “Ma dov’è che ho sbagliato? Ma… allora ci siamo illusi? abbiamo faticato per niente?”. Sì, crisi ce ne sono in tutte le stagioni del mondo, ma certe stagioni o epoche sono terreno fecondo per le crisi: non solo economiche, ma anche e soprattutto crisi di cultura, di ideali, crisi di punti di riferimento sicuri… Anche nella Chiesa, dal momento che vive in questo mondo, si possono sperimentare…
Perché tocco questo argomento? Una predica non dovrebbe invece dare fiducia, infondere coraggio, ravvivare la speranza? Sì, se si predica il vangelo (che è sempre bella notizia) una predica può e deve dare questo…però non basta che io vi dica: “Eh, fatevi coraggio… cosa volete che sia?!”. Vi prenderei in giro se predicassi così. Il vangelo è bella notizia, ma parte sempre dalla realtà: bella o meno bella che sia. E se ho cominciato su questo tono è proprio per via del vangelo, quello che abbiamo ascoltato poco fa’.
Simon Pietro – esperto pescatore di professione – quella mattina se ne tornava a casa dopo una notte buttata via sul lago di Gennesaret senza prender niente: e non andava a pescare per hobby o per passarsi il tempo, come i pescatori di oggi … No, era il suo mestiere; per la sua famiglia era questione di sopravvivenza. Allorchè Gesù si rivolse proprio a lui e gli domandò di prestargli la barca, perché da lì tutti l’avrebbero visto e sentito meglio, Simon Pietro deve aver fatto uno sforzo notevole per non rispondere male…ma il colmo fu quando si sentì rivolgere proprio queste parole: “Prendi il largo e gettate le reti per la pesca…”. “Abbiamo faticato tutta la notte – risponde - e non abbiamo preso niente!”. Io penso che l’evangelista però ha un po’ ammorbidito la risposta di Pietro, il quale invece deve aver reagito con una certa stizza: “Siamo demoralizzati, caro Gesù; tu avrai anche belle parole da dire, ma noi ce ne torniamo a casa a mani vuote. E poi, non sai che a pesca sul mare si va di notte? Per noi… altro che un futuro sereno, altro che fiducia o speranza: se è così, meglio chiudere baracca e cambiar mestiere, ammesso che se ne trovi un altro!”.
A distanza di 2000 anni da quella mattina, c’è ancora molta gente che ragiona così. Anche tra noi cristiani. Solo che ci guardiamo attorno, o che sentiamo certe notizie, c’è da restare amareggiati e demoralizzati, come Simon Pietro… La nostra civiltà occidentale – anche a guardare le discussioni e le polemiche di quelli che dovrebbero governare con senso di responsabilità e competenza - sembra aver imboccato la via del declino più che quella del futuro.
Ah, lo so che non è entusiasmante sentir parlare di queste cose, fratelli, ma siccome la nostra cultura fa di tutto per nasconderle, credo sia nostro primo dovere di cristiani tenere gli occhi aperti. Sì, si respira pessimismo nella cultura di oggi, ma non tolleriamo di esserne dominati telecomandati; anzi, direi non temiamo di scoprire le nostre piaghe – personali o collettive che siano – davanti a Gesù Cristo: lasciamoci curare da lui, lo sa fare con tenerezza e misericordia.
Ora è a noi – a tutti e a ciascuno in particolare - che Gesù dice: “Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca!”. Diciamogli pure le nostra perplessità, le nostre apprensioni, i nostri dubbi: “Abbiamo faticato tanto e per niente, caro Gesù!” . Ma non tralasciamo di dirgli ciò che è più importante: “Sulla tua parola, Signore, getterò le reti!”. Anche se le mie esperienze, i miei sentimenti, il mio buon senso, mi porterebbero in tutt’altra direzione… tuttavia: sulla tua parola, Signore, getterò le reti!
Il vangelo ci ha raccontato che quella mattina, lì sul lago di Tiberiade, il risultato fu… strepitoso. Tanto che Simon Pietro rimase esterrefatto e non seppe dire a Gesù nient’altro che questo: “Signore, allontanati da me perché io sono un peccatore”. Gesù gli rispose: “Non temere: d’ora in poi tu sarai pescatore di uomini!”. No, a Dio non fanno problema i nostri difetti, i nostri peccati… gli fa problema l’ipocrisia, quel voler apparire sempre persone dabbene, irreprensibili, anche quando non lo si è affatto. Queste sono maschere da Carnevale, ma non può essere tutti i giorni Carnevale.
Ed è dentro la vita che Gesù ci chiama, cari fratelli: nel bel mezzo della nostra vita quotidiana, profana, tutta presa da impegni e spesso da preoccupazioni, e magari proprio quando ci sentiamo fragili, stanchi e magari anche demoralizzati… Ci prende come siamo Gesù. Possiamo fare poco? Le nostre disponibilità di mezzi, di qualità, di doti… sono scarse? Non importa, anzi, meglio: così è lui che può fare da protagonista con tutta la sua competenza. Noi gli mettiamo a disposizione quel poco che siamo e che abbiamo (poco tempo, poche qualità, pochi mezzi…), ma è su questo poco che conta il Signore per fare “cose meravigliose”.
Questo vuol dire: bando al pessimismo, alla sfiducia e a tutto quello che ci butta giù di morale. Mettiamo pure in preventivo che Gesù ci chiama, ci aspetta ogni mattina, allorchè riprendiamo la nostra vita quotidiana. Affrontiamo insieme a lui quelle situazioni che ci si presentano durante la giornata: in famiglia, sul lavoro, per strada… con l’unica attenzione a viverle da cristiani. Forse il risultato srà scarso, potremo fare poco, ma quel poco diventa molto insieme a Lui. E’ a ognuno di noi che oggi dice: Prendi il largo e cala le tue reti…, E si aspetta che gli rispondiamo: “Sì, Signore, sulla tua parola lo farò...”.
Quale che sia il nostro stato di vita, il nostro ambito di attività e di responsabilità, siatene certi: con lui, fidandoci della sua Parola, tutto potrà davvero essere diverso, tanto che noi stessi ne resteremo meravigliati.
Domenica 2 Febbraio - Presentazione del Signore al Tempio
Le Letture Bibliche: Malachia 3,1-4; Ebrei 2,14-18; Luca 2,22-40
Non pensavano affatto di dare nell’occhio Maria e Giuseppe quel giorno in cui, a breve scadenza dal Natale, portarono il loro bambino al tempio per offrirlo al Signore. Era buona regola tra gli Ebrei che quando nasceva il primo figlio, se era maschio, si doveva andare al tempio per offrirlo a Dio; ma Dio non è che se lo prendeva per sé: lo lasciava alla sua famiglia, la quale al posto del figlio, lasciava al tempio un dono, o faceva celebrare un sacrificio.
In mezzo a una folla di pellegrini, quella di Maria e Giuseppe era una famigliola qualsiasi; povera oltretutto: le famiglie benestanti e ricche lasciavano al tempio doni preziosi, e magari se ne vantavano poi per tutta la vita…Oppure offrivano sacrifici di tori e di vitelli (allora si usava così)… I poveri, come Maria e Giuseppe, si limitavano ad offrire una coppia di tortore o di colombi.
Pensavano di non dare nell’occhio, ma invece non fu così: Simeone, quel santo vecchio che aveva aspettato tutta la vita di vedere il Messia, andò loro incontro e riconobbe in quel bambino Colui che aveva atteso per tanto tempo. La sua gioia è tale che prende la forma di una canzone; diventa cantautore Simeone, mentre stringe fra le sue braccia quel bambino: “Ora sì Signore che me ne posso andare in pace: i miei occhi hanno visto finalmente la salvezza che tu hai preparato per tutta l’umanità! Tu sì che sei di parola, tu sì che mantieni le tue promesse: grazie, Signore!”.
E in questa occasione, come ogni prima domenica di Febbraio da più di 40 anni, noi celebriamo la Giornata Nazionale per la Vita. La celebriamo – continuiamo a celebrarla ogni anno - perché ce n’è bisogno, non solo perché in Italia (più che in qualsiasi altro Paese dl mondo a quanto pare) sono di più quelli che muoiono che non quelli che nascono, ma anche perché – oltre alla vecchia piaga dell’aborto mai guarita - assistiamo ad altre forme ed espressioni di disprezzo della vita, che disonorano e offendono crudelmente la nostra umanità, che pure si ritiene progredita ed evoluta.
I nostri Vescovi, nel loro messaggio per questa giornata, partendo da quell’aspirazione alla Speranza alla quale questo Anno santo intende rispondere, ci invitano ad allargare l’orizzonte alle dimensioni di questo nostro mondo di oggi, e si chiedono: “Come è possibile nutrire speranza dinanzi ai tanti bambini che perdono la vita nei teatri di guerra, a quelli che muoiono nei tragitti delle migrazioni per mare o per terra, a quanti sono vittime delle malattie o della fame nei Paesi più poveri del mondo, a quelli cui è impedito di nascere?”. E’ un ventaglio piuttosto ampio di offese alla vita, ma non sarebbe umano – e tantomeno cristiano – ignorarlo in tutta la sua ampiezza. E concludono, i vescovi: “È urgente rianimare la speranza, perché ogni nuova vita - accolta, salvata, difesa – è speranza fatta carne”. Sì, speranza fatta carne.
Certo, sono diversi oggi i comportamenti sprezzanti, offensivi della vita. Che logica c’è sotto questi comportamenti? La logica dei padroni: come se la vita fosse qualcosa di cui disporre a piacimento. Certo, non basta denunciare a chiare lettere questa logica (anzi, denunciare forse serve poco alla fin fine). Conta di più ricuperare, se possibile il senso vero della vita, e tenerlo vivo con la testimonianza, il servizio, l’impegno operoso, perché se l’accoglienza della vita è garanzia di futuro per tutti, non c’è nessuno che possa esimersi col dire: “io non c’entro, non m’interessa”. No, nessuno può dire “il futuro non mi riguarda”.
Il senso vero della vita è il mistero, fratelli: sì, la vita è mistero, ogni persona è mistero. Ma attenzione: non nel senso banale di qualcosa che non si può capire: mistero – nel linguaggio cristiano – vuol dire dono, realtà viva che si svela un po’ alla volta, e che ha le sue radici, la sua spiegazione ultima in Dio stesso: è Dio l’inventore della vita.
Oggi, accogliendo il bambino Gesù fra le sue braccia, l’anziano Simeone lo presenta come “luce che illumina l’umanità”. Ma la prima cosa che illumina è proprio quella scena che il vangelo ci presenta: un vecchio che stringe fra le braccia un bambino…gli estremi che si toccano… E non in un posto qualsiasi ma nel Tempio, cioè sull’orizzonte di Dio, del suo mistero. Il vecchio riconosce che quel bambino viene da Dio: dono (come ogni bambino) – e proclama che anche lui, vecchio, ora può tornare a Dio: la sua lunga vita non è stata sua proprietà o suo diritto assoluto da rivendicare a ogni costo, no: è stata un dono. “Presentazione” è il nome di questo evento che è il motivo della festa di oggi: “presentazione” di una creatura appena sbocciata al Signore della vita, come per dirgli: “Sei tu che ce l’hai donata: non siamo proprietari, siamo destinatari del tuo dono, e presentandolo a te, lo riconosciamo e ti ringraziamo”.
Qui, fratelli, c’è anche il messaggio per noi, che può diventare un utile correttivo a una certa mentalità consumista; forse non siamo tra quelli che fanno commercio della vita altrui…ma come ci consideriamo rispetto alla nostra vita personale e a quella dei nostri cari? Proprietari o destinatari di doni? Proprietario è quel tale che vuol fare dell’altro quello che vuole lui, e sta male se non ci riesce, o taglia i ponti…Proprietario è quel tale o quella tale che non si ricorda mai di ringraziare Dio per la vita che ha ricevuto, o la vive solo per se stesso; e quando si ammala o deperisce e muore, si dispera, come se lo defraudassero di qualcosa che era suo.
Destinatari è diverso: è un’altra la mentalità. E’ l’atteggiamento di chi riceve se stesso ogni giorno dalle mani di Dio, e lo ringrazia; e oltre che per sé, ringrazia anche per i propri cari, i quali – lo sa – non sono suoi…(anche se si usa dire “mia moglie, mio marito, mio figlio, mio padre, mia madre…” macchè mio! Ognuno è di Dio, soltanto di Dio… Infatti ti è stato dato… tu non l’hai né comprato né costruito!
Auguriamoci che un po’ di quella luce che ha preso a brillare quel giorno nel tempio, brilli anche su questa società dei nostri giorni, a cominciare proprio dalla nostra esistenza, perché possiamo vederla come la vede Dio. E viverla come a Lui piace, cioè come anticipo di un dono ancora più grande, anzi, illimitato: aldilà di questa esistenza biologica e provvisoria, ci attende una vita in pienezza che non avrà mai fine. E’ la vita stessa di Dio.
Mentre viviamo in questo mondo, fratelli, è buona regola non perdere mai di vista quel traguardo, e camminare come pellegrini di Speranza. L’unica Speranza che non delude.
Le Letture Bibliche: Malachia 3,1-4; Ebrei 2,14-18; Luca 2,22-40
Non pensavano affatto di dare nell’occhio Maria e Giuseppe quel giorno in cui, a breve scadenza dal Natale, portarono il loro bambino al tempio per offrirlo al Signore. Era buona regola tra gli Ebrei che quando nasceva il primo figlio, se era maschio, si doveva andare al tempio per offrirlo a Dio; ma Dio non è che se lo prendeva per sé: lo lasciava alla sua famiglia, la quale al posto del figlio, lasciava al tempio un dono, o faceva celebrare un sacrificio.
In mezzo a una folla di pellegrini, quella di Maria e Giuseppe era una famigliola qualsiasi; povera oltretutto: le famiglie benestanti e ricche lasciavano al tempio doni preziosi, e magari se ne vantavano poi per tutta la vita…Oppure offrivano sacrifici di tori e di vitelli (allora si usava così)… I poveri, come Maria e Giuseppe, si limitavano ad offrire una coppia di tortore o di colombi.
Pensavano di non dare nell’occhio, ma invece non fu così: Simeone, quel santo vecchio che aveva aspettato tutta la vita di vedere il Messia, andò loro incontro e riconobbe in quel bambino Colui che aveva atteso per tanto tempo. La sua gioia è tale che prende la forma di una canzone; diventa cantautore Simeone, mentre stringe fra le sue braccia quel bambino: “Ora sì Signore che me ne posso andare in pace: i miei occhi hanno visto finalmente la salvezza che tu hai preparato per tutta l’umanità! Tu sì che sei di parola, tu sì che mantieni le tue promesse: grazie, Signore!”.
E in questa occasione, come ogni prima domenica di Febbraio da più di 40 anni, noi celebriamo la Giornata Nazionale per la Vita. La celebriamo – continuiamo a celebrarla ogni anno - perché ce n’è bisogno, non solo perché in Italia (più che in qualsiasi altro Paese dl mondo a quanto pare) sono di più quelli che muoiono che non quelli che nascono, ma anche perché – oltre alla vecchia piaga dell’aborto mai guarita - assistiamo ad altre forme ed espressioni di disprezzo della vita, che disonorano e offendono crudelmente la nostra umanità, che pure si ritiene progredita ed evoluta.
I nostri Vescovi, nel loro messaggio per questa giornata, partendo da quell’aspirazione alla Speranza alla quale questo Anno santo intende rispondere, ci invitano ad allargare l’orizzonte alle dimensioni di questo nostro mondo di oggi, e si chiedono: “Come è possibile nutrire speranza dinanzi ai tanti bambini che perdono la vita nei teatri di guerra, a quelli che muoiono nei tragitti delle migrazioni per mare o per terra, a quanti sono vittime delle malattie o della fame nei Paesi più poveri del mondo, a quelli cui è impedito di nascere?”. E’ un ventaglio piuttosto ampio di offese alla vita, ma non sarebbe umano – e tantomeno cristiano – ignorarlo in tutta la sua ampiezza. E concludono, i vescovi: “È urgente rianimare la speranza, perché ogni nuova vita - accolta, salvata, difesa – è speranza fatta carne”. Sì, speranza fatta carne.
Certo, sono diversi oggi i comportamenti sprezzanti, offensivi della vita. Che logica c’è sotto questi comportamenti? La logica dei padroni: come se la vita fosse qualcosa di cui disporre a piacimento. Certo, non basta denunciare a chiare lettere questa logica (anzi, denunciare forse serve poco alla fin fine). Conta di più ricuperare, se possibile il senso vero della vita, e tenerlo vivo con la testimonianza, il servizio, l’impegno operoso, perché se l’accoglienza della vita è garanzia di futuro per tutti, non c’è nessuno che possa esimersi col dire: “io non c’entro, non m’interessa”. No, nessuno può dire “il futuro non mi riguarda”.
Il senso vero della vita è il mistero, fratelli: sì, la vita è mistero, ogni persona è mistero. Ma attenzione: non nel senso banale di qualcosa che non si può capire: mistero – nel linguaggio cristiano – vuol dire dono, realtà viva che si svela un po’ alla volta, e che ha le sue radici, la sua spiegazione ultima in Dio stesso: è Dio l’inventore della vita.
Oggi, accogliendo il bambino Gesù fra le sue braccia, l’anziano Simeone lo presenta come “luce che illumina l’umanità”. Ma la prima cosa che illumina è proprio quella scena che il vangelo ci presenta: un vecchio che stringe fra le braccia un bambino…gli estremi che si toccano… E non in un posto qualsiasi ma nel Tempio, cioè sull’orizzonte di Dio, del suo mistero. Il vecchio riconosce che quel bambino viene da Dio: dono (come ogni bambino) – e proclama che anche lui, vecchio, ora può tornare a Dio: la sua lunga vita non è stata sua proprietà o suo diritto assoluto da rivendicare a ogni costo, no: è stata un dono. “Presentazione” è il nome di questo evento che è il motivo della festa di oggi: “presentazione” di una creatura appena sbocciata al Signore della vita, come per dirgli: “Sei tu che ce l’hai donata: non siamo proprietari, siamo destinatari del tuo dono, e presentandolo a te, lo riconosciamo e ti ringraziamo”.
Qui, fratelli, c’è anche il messaggio per noi, che può diventare un utile correttivo a una certa mentalità consumista; forse non siamo tra quelli che fanno commercio della vita altrui…ma come ci consideriamo rispetto alla nostra vita personale e a quella dei nostri cari? Proprietari o destinatari di doni? Proprietario è quel tale che vuol fare dell’altro quello che vuole lui, e sta male se non ci riesce, o taglia i ponti…Proprietario è quel tale o quella tale che non si ricorda mai di ringraziare Dio per la vita che ha ricevuto, o la vive solo per se stesso; e quando si ammala o deperisce e muore, si dispera, come se lo defraudassero di qualcosa che era suo.
Destinatari è diverso: è un’altra la mentalità. E’ l’atteggiamento di chi riceve se stesso ogni giorno dalle mani di Dio, e lo ringrazia; e oltre che per sé, ringrazia anche per i propri cari, i quali – lo sa – non sono suoi…(anche se si usa dire “mia moglie, mio marito, mio figlio, mio padre, mia madre…” macchè mio! Ognuno è di Dio, soltanto di Dio… Infatti ti è stato dato… tu non l’hai né comprato né costruito!
Auguriamoci che un po’ di quella luce che ha preso a brillare quel giorno nel tempio, brilli anche su questa società dei nostri giorni, a cominciare proprio dalla nostra esistenza, perché possiamo vederla come la vede Dio. E viverla come a Lui piace, cioè come anticipo di un dono ancora più grande, anzi, illimitato: aldilà di questa esistenza biologica e provvisoria, ci attende una vita in pienezza che non avrà mai fine. E’ la vita stessa di Dio.
Mentre viviamo in questo mondo, fratelli, è buona regola non perdere mai di vista quel traguardo, e camminare come pellegrini di Speranza. L’unica Speranza che non delude.
Domenica 26 Gennaio - 3° del T.O.
Le Letture Bibliche: Neemìa 8,2-4a.5-6.8-10; 1Corinzi 12,12-30; Luca 1,1-4; 4,14-21
Capita a tutti (almeno ogni tanto) di andare in città o di recarsi in qualche Centro commerciale… Passando davanti a negozi di vario genere, capita anche di sostare per qualche istante a osservare una vetrina, a seconda dell’interesse: chi si ferma davanti a vetrine d’abbigliamento, chi invece è interessato a strumenti elettronici, chi a merce d’altro genere…
Si guarda, si osserva, se si è in compagnia magari si fa qualche commento. (“Guarda che bello questo… guarda che interessante quello…”). Sì, però, fin che rimane lì… può essere bello fin che si vuole, ma è quello… Il giorno in cui entro e lo compro, non è più quello ma diventa mio. Lo guardo con altri occhi, con uno sguardo diverso: fa parte della mia vita in qualche modo.
Ebbene, è così anche per le parole. Sono un po’ come i capi d’abbigliamento o gli oggetti esposti in vetrina: le sentiamo, le leggiamo, magari le usiamo anche, ma non sempre sono nostre, anzi, raramente forse sono nostre… Ci sono per esempio parole che indicano malattie pesanti e temute: chi è che non le dice almeno qualche volta? Sì ma di solito son parole che non ci appartengono, riguardano altri… Ma se per caso (spero che non succeda) un giorno prendesse anche me quel malattia… ah allora sì che avrebbe un suono diverso sulle mie labbra quella partola; allora diventa mia… Prima era una parola quasi straniera, ma da quel momento fa parte del mio vocabolario personale. Ma ci sono anche esempi positivi e belli per fortuna. Pensate: chi non ha mai detto, almeno qualche volta, la parola amore? Ogni persona la conosce: sì, ma quand’è che diventa sua e sente che le appartiene? Quando s’innamora. Un giovane, una ragazza, certo che conoscono la parola “amore”, ma è quando s’innamorano che quella parola prende un significato forte: appartiene proprio a loro, come se nessun altro la conoscesse.
Gesù, arrivato all’età di 30 anni, aveva cominciato a girare per i paesi della Galilea (la sua patria) per dire alla gente che Dio stava cominciando a costruire il suo Regno in mezzo a loro; e non diceva soltanto belle parole, faceva anche cose straordinarie, come guarire i malati, o cambiare l’acqua in vino a una festa di nozze, al punto che la gente commentava: Ah, ma allora è vero che Dio è qui in mezzo a noi!
Un giorno Gesù tornò al suo paese, era di sabato, e di sabato gli ebrei fanno festa, come noi cristiani la Domenica. Vanno in Sinagoga (come noi veniamo in chiesa) e lì c’è qualcuno che proclama le letture della Bibbia, proprio come facciamo noi alla Messa. Finite le letture, segue la predica: di solito è uno del villaggio, uno che probabilmente conosce la Bibbia un po’ meglio degli altri… Quel giorno dissero a Gesù: “Oggi fai tu la lettura… e anche la predica. Dicono in giro che sei così bravo… ”.
E Gesù prese il rotolo del profeta Isaia (i libri, allora, erano dei lunghi rotoli di pergamena avvolti attorno a due bastoni): lo svolse e lesse queste parole: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, e proclamare l’anno di grazia del Signore”.
Eh, le avevano sentite tante volte queste parole, le sapevano quasi a memoria a forza di riascoltarle…E ogni volta si chiedevano: “Ma chi è questo tale pieno di Spirito del Signore, che verrà a portare un lieto annuncio ai poveri, a liberare prigionieri, ad aprire gli occhi ai ciechi, a ridare dignità agli oppressi? E poi, quand’è che verrà? Sono secoli che l’aspettiamo!”. Gesù arrotolò il volume, lo consegnò all'inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. “Cos’avrà mai da dire il figlio di Maria e di Giuseppe? – si chiedevano -. Ha sempre fatto il carpentiere qui in paese… che predica potrà mai fare un carpentiere? Sta a vedere che oggi ne sentiremo delle belle!”.
E infatti fu così. Gesù fece la sua predica, breve, ma di una carica… esplosiva! “Le parole che avete ascoltato oggi, si realizzano, si compiono per voi, se lo volete: Dio mi ha mandato per questo!”. Le parole antiche, le parole che avete sentito tante volte ma che sono passate sopra le vostre teste, ebbene no: oggi – se vorrete - prendono un altro suono, un altro colore, diventano vostre… perché io sono qui per realizzarle. Ci sono poveri tra voi? Io ho un lieto messaggio per loro… Ci sono prigionieri? (Gesù non allude a quelli legati con le catene ai polsi: la prigionia peggiore è quella di chi le catene ce le ha attorno al cuore!). Io sono qui per liberarli, annuncia. Ci sono ciechi? (Oh, i non vedenti ci vedono meglio degli altri a volte. I peggiori ciechi son quelli che hanno l’oscurità dentro, nell’animo!). Io sono qui per dar loro la luce, annuncia Gesù. Insomma, le parole che avete sentito tante volte, oggi possono diventare vostre: come la parola “amore” quando ci si innamora.
E noi cosa c’entriamo con tutto questo? Cosa voleva dirci san Luca che ha scritto questa storia? Una cosa sola, che vi invito a scolpirvi bene nel cuore, fratelli: quando ci incontriamo insieme nel suo nome (come in questo momento dell’Eucaristia) c’è anche Lui, Gesù Cristo, in mezzo a noi. Ognuno può dirmi che non lo vede, ma non importa: nella Fede si crede di più alla Parola di Dio che non ai propri occhi. E’ Lui del resto che ce l’ha assicurato: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome - ha detto -, io sono là, in mezzo a loro!”. Se questo è vero, allora le parole che sentiamo qui sono sue: il messaggio che contengono è lui che ce lo offre, sì: Gesù stesso.
Ma allora, fratelli, guardiamoci dal rischio che le sue parole ci passino sopra le teste senza entrarci nel cuore. Afferriamone qualcuna e diciamo a noi stessi: questa Gesù Cristo la dice a me, anzi, la realizza per me; sì, perché è qui per questo. Quello che ha detto quel giorno a Nazaret, ormai vale sempre, vale per noi soprattutto: “Le parole che avete ascoltato oggi si realizzano, si compiono per voi: io sono qui a proclamare l’anno di grazia del Signore!”. Non occorre che ve lo ricordi: l’anno di grazia è diventato per noi “l’Anno Santo”. Non è questo 2025 che abbiamo iniziato da poco? Motivo in più per portarci nel cuore una Parola del Signore ogni Domenica quando usciamo dalla Messa. Ognuno ripeta a se stesso: “Questa il Signore la dice per me.”
Custodiamola gelosamente nel cuore quella parola: ci penserà lui a realizzarla nella nostra vita.
Non è qui per questo l’Anno santo, l’anno di grazia?
Le Letture Bibliche: Neemìa 8,2-4a.5-6.8-10; 1Corinzi 12,12-30; Luca 1,1-4; 4,14-21
Capita a tutti (almeno ogni tanto) di andare in città o di recarsi in qualche Centro commerciale… Passando davanti a negozi di vario genere, capita anche di sostare per qualche istante a osservare una vetrina, a seconda dell’interesse: chi si ferma davanti a vetrine d’abbigliamento, chi invece è interessato a strumenti elettronici, chi a merce d’altro genere…
Si guarda, si osserva, se si è in compagnia magari si fa qualche commento. (“Guarda che bello questo… guarda che interessante quello…”). Sì, però, fin che rimane lì… può essere bello fin che si vuole, ma è quello… Il giorno in cui entro e lo compro, non è più quello ma diventa mio. Lo guardo con altri occhi, con uno sguardo diverso: fa parte della mia vita in qualche modo.
Ebbene, è così anche per le parole. Sono un po’ come i capi d’abbigliamento o gli oggetti esposti in vetrina: le sentiamo, le leggiamo, magari le usiamo anche, ma non sempre sono nostre, anzi, raramente forse sono nostre… Ci sono per esempio parole che indicano malattie pesanti e temute: chi è che non le dice almeno qualche volta? Sì ma di solito son parole che non ci appartengono, riguardano altri… Ma se per caso (spero che non succeda) un giorno prendesse anche me quel malattia… ah allora sì che avrebbe un suono diverso sulle mie labbra quella partola; allora diventa mia… Prima era una parola quasi straniera, ma da quel momento fa parte del mio vocabolario personale. Ma ci sono anche esempi positivi e belli per fortuna. Pensate: chi non ha mai detto, almeno qualche volta, la parola amore? Ogni persona la conosce: sì, ma quand’è che diventa sua e sente che le appartiene? Quando s’innamora. Un giovane, una ragazza, certo che conoscono la parola “amore”, ma è quando s’innamorano che quella parola prende un significato forte: appartiene proprio a loro, come se nessun altro la conoscesse.
Gesù, arrivato all’età di 30 anni, aveva cominciato a girare per i paesi della Galilea (la sua patria) per dire alla gente che Dio stava cominciando a costruire il suo Regno in mezzo a loro; e non diceva soltanto belle parole, faceva anche cose straordinarie, come guarire i malati, o cambiare l’acqua in vino a una festa di nozze, al punto che la gente commentava: Ah, ma allora è vero che Dio è qui in mezzo a noi!
Un giorno Gesù tornò al suo paese, era di sabato, e di sabato gli ebrei fanno festa, come noi cristiani la Domenica. Vanno in Sinagoga (come noi veniamo in chiesa) e lì c’è qualcuno che proclama le letture della Bibbia, proprio come facciamo noi alla Messa. Finite le letture, segue la predica: di solito è uno del villaggio, uno che probabilmente conosce la Bibbia un po’ meglio degli altri… Quel giorno dissero a Gesù: “Oggi fai tu la lettura… e anche la predica. Dicono in giro che sei così bravo… ”.
E Gesù prese il rotolo del profeta Isaia (i libri, allora, erano dei lunghi rotoli di pergamena avvolti attorno a due bastoni): lo svolse e lesse queste parole: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, e proclamare l’anno di grazia del Signore”.
Eh, le avevano sentite tante volte queste parole, le sapevano quasi a memoria a forza di riascoltarle…E ogni volta si chiedevano: “Ma chi è questo tale pieno di Spirito del Signore, che verrà a portare un lieto annuncio ai poveri, a liberare prigionieri, ad aprire gli occhi ai ciechi, a ridare dignità agli oppressi? E poi, quand’è che verrà? Sono secoli che l’aspettiamo!”. Gesù arrotolò il volume, lo consegnò all'inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. “Cos’avrà mai da dire il figlio di Maria e di Giuseppe? – si chiedevano -. Ha sempre fatto il carpentiere qui in paese… che predica potrà mai fare un carpentiere? Sta a vedere che oggi ne sentiremo delle belle!”.
E infatti fu così. Gesù fece la sua predica, breve, ma di una carica… esplosiva! “Le parole che avete ascoltato oggi, si realizzano, si compiono per voi, se lo volete: Dio mi ha mandato per questo!”. Le parole antiche, le parole che avete sentito tante volte ma che sono passate sopra le vostre teste, ebbene no: oggi – se vorrete - prendono un altro suono, un altro colore, diventano vostre… perché io sono qui per realizzarle. Ci sono poveri tra voi? Io ho un lieto messaggio per loro… Ci sono prigionieri? (Gesù non allude a quelli legati con le catene ai polsi: la prigionia peggiore è quella di chi le catene ce le ha attorno al cuore!). Io sono qui per liberarli, annuncia. Ci sono ciechi? (Oh, i non vedenti ci vedono meglio degli altri a volte. I peggiori ciechi son quelli che hanno l’oscurità dentro, nell’animo!). Io sono qui per dar loro la luce, annuncia Gesù. Insomma, le parole che avete sentito tante volte, oggi possono diventare vostre: come la parola “amore” quando ci si innamora.
E noi cosa c’entriamo con tutto questo? Cosa voleva dirci san Luca che ha scritto questa storia? Una cosa sola, che vi invito a scolpirvi bene nel cuore, fratelli: quando ci incontriamo insieme nel suo nome (come in questo momento dell’Eucaristia) c’è anche Lui, Gesù Cristo, in mezzo a noi. Ognuno può dirmi che non lo vede, ma non importa: nella Fede si crede di più alla Parola di Dio che non ai propri occhi. E’ Lui del resto che ce l’ha assicurato: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome - ha detto -, io sono là, in mezzo a loro!”. Se questo è vero, allora le parole che sentiamo qui sono sue: il messaggio che contengono è lui che ce lo offre, sì: Gesù stesso.
Ma allora, fratelli, guardiamoci dal rischio che le sue parole ci passino sopra le teste senza entrarci nel cuore. Afferriamone qualcuna e diciamo a noi stessi: questa Gesù Cristo la dice a me, anzi, la realizza per me; sì, perché è qui per questo. Quello che ha detto quel giorno a Nazaret, ormai vale sempre, vale per noi soprattutto: “Le parole che avete ascoltato oggi si realizzano, si compiono per voi: io sono qui a proclamare l’anno di grazia del Signore!”. Non occorre che ve lo ricordi: l’anno di grazia è diventato per noi “l’Anno Santo”. Non è questo 2025 che abbiamo iniziato da poco? Motivo in più per portarci nel cuore una Parola del Signore ogni Domenica quando usciamo dalla Messa. Ognuno ripeta a se stesso: “Questa il Signore la dice per me.”
Custodiamola gelosamente nel cuore quella parola: ci penserà lui a realizzarla nella nostra vita.
Non è qui per questo l’Anno santo, l’anno di grazia?
Domenica 19 Gennaio - 2° del T.O.
Le Letture Bibliche: Isaia 62,1-5; 1Corinzi 12,4-11; Giovanni 2,1-11
Io oggi sono vestito di verde (quest’abito liturgico si chiama casula in linguaggio da sacrestia). Questo bel color verde contrassegna, nel corso dell’anno cristiano, quel tempo che si chiama “ordinario” (oggi è la prima domenica del Tempo Ordinario). Infatti, non è vero che un tempo vale l’altro, proprio come nel caso dei colori: sono diversi uno dall’altro. Nel nostro anno cristiano, ci sono tempi speciali, come la Quaresima o l’Avvento (nei quali si adopera il color viola, che significa attesa, austerità, anche penitenza), i giorni del Natale o quelli dopo Pasqua, nei quali si adopera il bianco (segno di festa). E ci sono tempi meno eccezionali e più ordinari, che non sono affatto monotoni o grigi, tant’è vero che il colore non è il grigio (non c’è il grigio nella vita cristiana), è il verde: il verde è il colore della vita. E della Speranza. Non dimentichiamo che quest’anno santo è proprio all’insegna della Speranza che cercheremo di viverlo: di Speranza abbiamo bisogno noi e ne ha bisogno il mondo d’oggi… e quanto bisogno ne ha!
Adesso, in questi freddi giorni d’inverno, non è molto bella la natura: gli alberi spogli sembrano nudi, poveretti… Ma fra qualche mese torneranno le fronde, il verde: e allora sarà molto più bella anche la natura. Il Verde è il colore della vita. Nell’esperienza cristiana non si aspetta la primavera per vivere, per rinascere: ogni giorno, ordinario e normale, è vita, vita cristiana, vissuta e gustata con soddisfazione. Una domanda allora: Siamo contenti noi, fratelli, di essere cristiani? Proviamo, almeno ogni tanto, la gioia e la soddisfazione di essere cristiani?
Dico questo prendendo lo spunto dal vangelo di oggi: una festa di nozze. Pensate un po’: la prima domenica di questo tempo totalmente ordinario il vangelo ci parla di una festa di nozze. E’ come dire che il clima che segna la nostra vita quotidiana di cristiani ha tutto il diritto di essere quello della serenità, della soddisfazione, “solare” in una parola… E’ davvero così?
Non solo, Giovanni – l’autore del vangelo di oggi – ci ha detto che questo prodigio dell'acqua cambiata in vino è stato il primo segno che Gesù ha fatto: segno che Dio è davvero in mezzo a noi e si dà da fare per noi. Beh, si deve dire che è un buon segno: se Dio comincia così in mezzo a noi è un buon segno; entrare nel gioco con Dio non potrà che essere motivo di soddisfazione, qualcosa a cui si prende gusto… Ecco come può essere la nostra vita cristiana!
Alla messa della Domenica però osservo a volte le facce della gente: quante ne vedo di tese, tirate, serie da non dirsi; sì, d’accordo, anch’io mi ritrovo una faccia che non è proprio la pubblicità del buonumore, però… se c’è da cantare, canto, e se c’è da pregare, apro la bocca e la voce dice qualcosa che sento dentro…, invece, alla Messa, certe bocche restano ermeticamente chiuse: ci manca solo un lucchetto tra un labbro e l’altro. E allora penso: eppure il cristianesimo è una bella notizia… ma allora perché queste persone sono così serie e tirate? Forse hanno qualche grossa preoccupazione che pesa loro sul cuore… e allora sono da capire; ma se “vangelo” vuol dire “bella notizia”, non può essere anche per loro motivo di consolazione, di sollievo? Oppure mi sbaglio io a dire che il Cristianesimo è gioia, è festa? “Vi annuncio una grande gioia!” ricordate la bella notizia degli angeli a Natale? Non può essere che io abbia letto male il vangelo, o le lettere degli apostoli… Allora torno a rileggere… e trovo che nel vangelo e negli scritti degli apostoli la parola gioia ricorre 70 volte: notate bene, non sette: 70!
Trovo che quel tale che incontra Gesù è come un mercante di perle preziose, ed è pieno di gioia perchè né ha trovata una che è di valore eccezionale…
Trovo che anche in cielo c’è gioia quando uno, che si era perduto, viene ritrovato e torna alla casa del Padre…
Trovo che i discepoli di Gesù, mandati ad annunciare il vangelo per le strade, tornano pieni di gioia…
Trovo Gesù che prima della sua ultima Pasqua afferma: “le cose che vi dico, ve le dico perché la mia gioia sia in voi… Anche se ci saranno momenti di afflizione, questa si cambierà in gioia…e nessuno potrà togliervi la vostra gioia…”.
Bernanos, celebre scrittore francese del passato, un giorno immaginò di prendere il microfono in una chiesa piena di gente e di gridare: “Cristiani! Dove diavolo l’avete nascosta la vostra gioia?”.
Voi mi direte: “senti un po’: ma lo sai tu com’è la vita? Lo sai quante preoccupazioni abbiamo nella vita di tutti i giorni, e se non sono preoccupazioni sono problemi, o grane, o malattie, o acciacchi…lo sai? Ma tu…vivi sotto vuoto? Lo sai cosa vuol dire faticare tutti i giorni ed essere stanchi la sera e il fine settimana? fai presto tu a parlare di gioia, ma prova a scendere un po’ dentro la vita concreta che si vive al giorno d’oggi!”. (Ecco, immagino che potreste ribattermi proprio così!). E allora io vi risponderei: ma a chi credete che parlasse di gioia Gesù? agli angeli? agli eremiti che vivono fuori dal mondo? No, parlava a gente che sì… era diversa da noi per tanti motivi, ma se la mettiamo sul piano dei problemi e delle preoccupazioni forse ne aveva anche di più gravi delle nostre… Eppure, Gesù parlava di gioia a questa gente.
E’ venuto a inaugurare una festa di nozze proprio per questa gente; e questa gente, al seguito di Gesù, ha scoperto che il vino della gioia non è lo spumante della notte di San Silvestro, che si finisce di bere in pochi minuti… E’ un vino buono che dura sempre. Quella gente non è che fosse liberata dai problemi e dalle grane che aveva, però – in mezzo alle grane e ai problemi – poteva dire: “meno male che c’è Gesù, meno male che c’è il Regno di Dio…per fortuna c’è Dio che è nostro Padre e noi, qualsiasi cosa accada, siamo nelle sue buone mani”. Ed era una soddisfazione poter dire così per quella gente.
Io penso, fratelli, che qui è questione di credere sul serio oppure no in Gesù. E’ questione di dargli fiducia incondizionata e di seguirlo davvero in tutto quello che ci insegna… perché se si comincia a dire: sì…ma…però… allora la gioia, o quanto meno la soddisfazione di essere cristiani, non la proveremmo mai. Allora saremmo come quegli invitati che, invece di entrare nella sala del banchetto, stanno fuori a guardare dalle finestre, ma la gioia degli invitati non la possono provare stando fuori, perché è dentro che si gusta il vino buono che non finisce mai…
Fratelli, questa certezza portiamocela nel cuore: il cristianesimo è una festa di nozze!
Le Letture Bibliche: Isaia 62,1-5; 1Corinzi 12,4-11; Giovanni 2,1-11
Io oggi sono vestito di verde (quest’abito liturgico si chiama casula in linguaggio da sacrestia). Questo bel color verde contrassegna, nel corso dell’anno cristiano, quel tempo che si chiama “ordinario” (oggi è la prima domenica del Tempo Ordinario). Infatti, non è vero che un tempo vale l’altro, proprio come nel caso dei colori: sono diversi uno dall’altro. Nel nostro anno cristiano, ci sono tempi speciali, come la Quaresima o l’Avvento (nei quali si adopera il color viola, che significa attesa, austerità, anche penitenza), i giorni del Natale o quelli dopo Pasqua, nei quali si adopera il bianco (segno di festa). E ci sono tempi meno eccezionali e più ordinari, che non sono affatto monotoni o grigi, tant’è vero che il colore non è il grigio (non c’è il grigio nella vita cristiana), è il verde: il verde è il colore della vita. E della Speranza. Non dimentichiamo che quest’anno santo è proprio all’insegna della Speranza che cercheremo di viverlo: di Speranza abbiamo bisogno noi e ne ha bisogno il mondo d’oggi… e quanto bisogno ne ha!
Adesso, in questi freddi giorni d’inverno, non è molto bella la natura: gli alberi spogli sembrano nudi, poveretti… Ma fra qualche mese torneranno le fronde, il verde: e allora sarà molto più bella anche la natura. Il Verde è il colore della vita. Nell’esperienza cristiana non si aspetta la primavera per vivere, per rinascere: ogni giorno, ordinario e normale, è vita, vita cristiana, vissuta e gustata con soddisfazione. Una domanda allora: Siamo contenti noi, fratelli, di essere cristiani? Proviamo, almeno ogni tanto, la gioia e la soddisfazione di essere cristiani?
Dico questo prendendo lo spunto dal vangelo di oggi: una festa di nozze. Pensate un po’: la prima domenica di questo tempo totalmente ordinario il vangelo ci parla di una festa di nozze. E’ come dire che il clima che segna la nostra vita quotidiana di cristiani ha tutto il diritto di essere quello della serenità, della soddisfazione, “solare” in una parola… E’ davvero così?
Non solo, Giovanni – l’autore del vangelo di oggi – ci ha detto che questo prodigio dell'acqua cambiata in vino è stato il primo segno che Gesù ha fatto: segno che Dio è davvero in mezzo a noi e si dà da fare per noi. Beh, si deve dire che è un buon segno: se Dio comincia così in mezzo a noi è un buon segno; entrare nel gioco con Dio non potrà che essere motivo di soddisfazione, qualcosa a cui si prende gusto… Ecco come può essere la nostra vita cristiana!
Alla messa della Domenica però osservo a volte le facce della gente: quante ne vedo di tese, tirate, serie da non dirsi; sì, d’accordo, anch’io mi ritrovo una faccia che non è proprio la pubblicità del buonumore, però… se c’è da cantare, canto, e se c’è da pregare, apro la bocca e la voce dice qualcosa che sento dentro…, invece, alla Messa, certe bocche restano ermeticamente chiuse: ci manca solo un lucchetto tra un labbro e l’altro. E allora penso: eppure il cristianesimo è una bella notizia… ma allora perché queste persone sono così serie e tirate? Forse hanno qualche grossa preoccupazione che pesa loro sul cuore… e allora sono da capire; ma se “vangelo” vuol dire “bella notizia”, non può essere anche per loro motivo di consolazione, di sollievo? Oppure mi sbaglio io a dire che il Cristianesimo è gioia, è festa? “Vi annuncio una grande gioia!” ricordate la bella notizia degli angeli a Natale? Non può essere che io abbia letto male il vangelo, o le lettere degli apostoli… Allora torno a rileggere… e trovo che nel vangelo e negli scritti degli apostoli la parola gioia ricorre 70 volte: notate bene, non sette: 70!
Trovo che quel tale che incontra Gesù è come un mercante di perle preziose, ed è pieno di gioia perchè né ha trovata una che è di valore eccezionale…
Trovo che anche in cielo c’è gioia quando uno, che si era perduto, viene ritrovato e torna alla casa del Padre…
Trovo che i discepoli di Gesù, mandati ad annunciare il vangelo per le strade, tornano pieni di gioia…
Trovo Gesù che prima della sua ultima Pasqua afferma: “le cose che vi dico, ve le dico perché la mia gioia sia in voi… Anche se ci saranno momenti di afflizione, questa si cambierà in gioia…e nessuno potrà togliervi la vostra gioia…”.
Bernanos, celebre scrittore francese del passato, un giorno immaginò di prendere il microfono in una chiesa piena di gente e di gridare: “Cristiani! Dove diavolo l’avete nascosta la vostra gioia?”.
Voi mi direte: “senti un po’: ma lo sai tu com’è la vita? Lo sai quante preoccupazioni abbiamo nella vita di tutti i giorni, e se non sono preoccupazioni sono problemi, o grane, o malattie, o acciacchi…lo sai? Ma tu…vivi sotto vuoto? Lo sai cosa vuol dire faticare tutti i giorni ed essere stanchi la sera e il fine settimana? fai presto tu a parlare di gioia, ma prova a scendere un po’ dentro la vita concreta che si vive al giorno d’oggi!”. (Ecco, immagino che potreste ribattermi proprio così!). E allora io vi risponderei: ma a chi credete che parlasse di gioia Gesù? agli angeli? agli eremiti che vivono fuori dal mondo? No, parlava a gente che sì… era diversa da noi per tanti motivi, ma se la mettiamo sul piano dei problemi e delle preoccupazioni forse ne aveva anche di più gravi delle nostre… Eppure, Gesù parlava di gioia a questa gente.
E’ venuto a inaugurare una festa di nozze proprio per questa gente; e questa gente, al seguito di Gesù, ha scoperto che il vino della gioia non è lo spumante della notte di San Silvestro, che si finisce di bere in pochi minuti… E’ un vino buono che dura sempre. Quella gente non è che fosse liberata dai problemi e dalle grane che aveva, però – in mezzo alle grane e ai problemi – poteva dire: “meno male che c’è Gesù, meno male che c’è il Regno di Dio…per fortuna c’è Dio che è nostro Padre e noi, qualsiasi cosa accada, siamo nelle sue buone mani”. Ed era una soddisfazione poter dire così per quella gente.
Io penso, fratelli, che qui è questione di credere sul serio oppure no in Gesù. E’ questione di dargli fiducia incondizionata e di seguirlo davvero in tutto quello che ci insegna… perché se si comincia a dire: sì…ma…però… allora la gioia, o quanto meno la soddisfazione di essere cristiani, non la proveremmo mai. Allora saremmo come quegli invitati che, invece di entrare nella sala del banchetto, stanno fuori a guardare dalle finestre, ma la gioia degli invitati non la possono provare stando fuori, perché è dentro che si gusta il vino buono che non finisce mai…
Fratelli, questa certezza portiamocela nel cuore: il cristianesimo è una festa di nozze!
* * *
Tempo di NATALE
12 Gennaio - Battesimo del Signore
Le Letture bibliche: Isaia 40,1-5.9-11; Tito 2,11-14; 3, 4-7; Luca 3,15-16.21-22
E' proprio vero che le persone straordinarie a questo mondo sono poche e che la maggior parte degli individui sono del tutto ordinari, se non addirittura insignificanti? sarà proprio vero che i galantuomini, i generosi, i bravi, sono un piccolo numero, mentre tutti gli altri o non sono bravi, o non sono né carne né pesce come si dice? lo penso che non dipenda anzitutto dalle doti personali (uno ce le ha e un altro invece no); credo che dipenda prima di tutto dal fatto che alcuni sanno di avere delle doti (lo sanno sempre, ogni giorno), altri invece o non sanno di averle, o se ne dimenticano.
Capita anche a noi, cristiani: a volte dimentichiamo chi siamo, perdiamo la memoria in un certo senso. Siamo figli di Dio, ci dicono: ma allora, probabilmente, abbiamo anche le doti necessarie per comportarci da figli di Dio. Sì, ma ecco che ce ne dimentichiamo, e allora non siamo più all'altezza di quella missione che il Signore ci ha affidato.
In questa domenica dopo l'Epifania celebriamo il Battesimo di Gesù; un fatto che tutti i vangeli raccontano perché è sorprendente: il Figlio di Dio, l'unico innocente in questo mondo di colpevoli, entra anche lui nell'acqua del battesimo come se fosse un peccatore... Non lo era, ma l'ha fatto per solidarietà con noi. Ed è per questo che noi, che invece siamo davvero peccatori, nel Battesimo siamo ridiventati innocenti davanti a Dio.
Ogni vangelo racconta questo fatto. Luca però aggiunge qualche particolare tutto suo: per esempio, che Gesù, una volta ricevuto il Battesimo, stava in preghiera; ed è mentre prega che si apre il cielo su di lui e sente la voce del Padre: "Tu sei il figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento". Da quel giorno Gesù ha la coscienza di essere il Figlio di Dio e di avere una missione da portare avanti. San Luca nel suo vangelo ci dice spesso che Gesù pregava... Per Gesù, Figlio di Dio, era normale dialogare con suo Padre: è questo la preghiera. Era il modo per conservare la lucida coscienza di chi era, e della missione che doveva svolgere.
E' interessante questo, anche per noi ed è una provocazione a riflettere sulla decisiva importanza della preghiera nella nostra vita di cristiani. Sì, è nella preghiera che noi prendiamo sempre coscienza di chi siamo, della nostra dignità, e di quella missione che è la vita di ogni giorno... Senza preghiera io credo che diventiamo come quei tali di cui dicevo poco fa': hanno delle doti, ma non sanno di averle... Potrebbero essere migliori di quello che sono, ma non ne hanno voglia, perché hanno perso la coscienza di chi sono veramente...
La preghiera è il momento in cui la vita di un cristiano respira, perché se non respira, avvizzisce e muore, come tutto ciò che vive. E come si fa a pregare? Cosa vuol dire? Scusate se faccio domande così banali ma forse ce n'è bisogno...
Pregare, per un cristiano, vuoi dire parlare con il Signore anzitutto in certi momenti della sua vita quotidiana: ci hanno insegnato che questi momenti importanti sono soprattutto al mattino e alla sera... Sappiamo anche delle espressioni di preghiera a questo proposito, per esempio il Padre Nostro e l'Ave Maria... Non scartiamole colla scusa che sono delle formule imparate e che è meglio parlare a Dio con spontaneità: ci sono dei giorni in cui la spontaneità proprio non ci viene, oppure abbiamo altro per la testa, e allora...addio preghiera. No, l'abitudinarietà (il far le cose solo per la soddisfazione di averle fatte in qualche modo) non è una bella cosa, ma le buone abitudini invece sono da coltivare: sono queste che rendono seria e affidabile una persona, anche nei rapporti con Dio. Pregare al mattino e alla sera è prova di vita cristiana seria. Ed è anche il modo per ricuperare ogni giorno quella coscienza di chi siamo, che è quella che ci aiuta ad affrontare la vita quotidiana nel modo giusto...
Ma poi è nella vita — dentro la vita - che un cristiano ha bisogno di far respirare la sua fede. E qui, fratelli, è ancora una volta questione di buone abitudini. Pensate un po': ci sono anche cose belle — grazie a Dio — nella vita di ogni giorno... l'incontro con una persona... una bella notizia... una soddisfazione che provi... Ma cosa costa dire — nel segreto del cuore - : "Grazie, Signore Iddio! Ti ringrazio di cuore!". Come è vero che ci sono cose meno belle, anzi decisamente brutte e angoscianti: una brutta notizia... un problema di cui vieni a conoscenza... un fatto preoccupante che ti succede... Cosa ci vuole ad innalzare un'accorata invocazione al Signore sempre nel segreto del cuore: "Signore, abbi pietà di me!". Signore, aiuta quella persona!". Questi sono quegli squarci nel cielo che fanno respirare la vita... (Non dice oggi il vangelo che mentre Gesù pregava, il cielo si aprì?). Condividere con il Signore una gioia, una soddisfazione, è come farla ancora più grande, più intensa! Come il condividere con lui una preoccupazione, un peso: è come spartirlo, alleggerirlo, portarlo in due!
" Mentre Gesù pregava — ci dice Luca — lo Spirito santo scese su di lui in apparenza corporea...": vuol dire che lo si poteva...toccare! E noi che magari pensiamo che lo Spirito santo sia una teoria, un'astrazione... Fratelli, cominciamo a pregare più spesso, e dentro le situazioni della vita, e allora potremo toccare con mano anche noi lo Spirito santo!
Ma il vero motivo per pregare ogni giorno non ve l'ho ancora fatto notare. Ed eccolo allora: di quel Dio che preghiamo, noi siamo figli. Notate bene: figli, non clienti. I clienti si fanno vedere solo quando hanno bisogno. I figli no, si comportano diversamente con il loro padre; non si limitano adialogare con lui una volta ogni tanto; certo, anche nel bisogno ricorrono a lui, ma se lo facessero soltanto per questo, mostrerebbero che non è l'affetto per il padre che li muove, ma il loro interesse. No, è l'amore, l'affetto che porta ad incontrare le persone care e a dialogare con loro; e lo si fa ogni volta che si può; e se non si ha il tempo, lo si trova... e come che lo si trova!
Fratelli, il Signore Dio ci sta a cuore almeno quanto una persona cara? Siamo discepoli di Gesù, il primo figlio di Dio, l'amato... e la vita per noi è una missione che ci viene affidata: sì, ma solo con la preghiera di ogni giorno possiamo essere all'altezza della nostra dignità e adempiere la missione. Impariamo da Gesù allora: dal giorno del Battesimo in poi è così che vale la pena comportarsi.
Le Letture bibliche: Isaia 40,1-5.9-11; Tito 2,11-14; 3, 4-7; Luca 3,15-16.21-22
E' proprio vero che le persone straordinarie a questo mondo sono poche e che la maggior parte degli individui sono del tutto ordinari, se non addirittura insignificanti? sarà proprio vero che i galantuomini, i generosi, i bravi, sono un piccolo numero, mentre tutti gli altri o non sono bravi, o non sono né carne né pesce come si dice? lo penso che non dipenda anzitutto dalle doti personali (uno ce le ha e un altro invece no); credo che dipenda prima di tutto dal fatto che alcuni sanno di avere delle doti (lo sanno sempre, ogni giorno), altri invece o non sanno di averle, o se ne dimenticano.
Capita anche a noi, cristiani: a volte dimentichiamo chi siamo, perdiamo la memoria in un certo senso. Siamo figli di Dio, ci dicono: ma allora, probabilmente, abbiamo anche le doti necessarie per comportarci da figli di Dio. Sì, ma ecco che ce ne dimentichiamo, e allora non siamo più all'altezza di quella missione che il Signore ci ha affidato.
In questa domenica dopo l'Epifania celebriamo il Battesimo di Gesù; un fatto che tutti i vangeli raccontano perché è sorprendente: il Figlio di Dio, l'unico innocente in questo mondo di colpevoli, entra anche lui nell'acqua del battesimo come se fosse un peccatore... Non lo era, ma l'ha fatto per solidarietà con noi. Ed è per questo che noi, che invece siamo davvero peccatori, nel Battesimo siamo ridiventati innocenti davanti a Dio.
Ogni vangelo racconta questo fatto. Luca però aggiunge qualche particolare tutto suo: per esempio, che Gesù, una volta ricevuto il Battesimo, stava in preghiera; ed è mentre prega che si apre il cielo su di lui e sente la voce del Padre: "Tu sei il figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento". Da quel giorno Gesù ha la coscienza di essere il Figlio di Dio e di avere una missione da portare avanti. San Luca nel suo vangelo ci dice spesso che Gesù pregava... Per Gesù, Figlio di Dio, era normale dialogare con suo Padre: è questo la preghiera. Era il modo per conservare la lucida coscienza di chi era, e della missione che doveva svolgere.
E' interessante questo, anche per noi ed è una provocazione a riflettere sulla decisiva importanza della preghiera nella nostra vita di cristiani. Sì, è nella preghiera che noi prendiamo sempre coscienza di chi siamo, della nostra dignità, e di quella missione che è la vita di ogni giorno... Senza preghiera io credo che diventiamo come quei tali di cui dicevo poco fa': hanno delle doti, ma non sanno di averle... Potrebbero essere migliori di quello che sono, ma non ne hanno voglia, perché hanno perso la coscienza di chi sono veramente...
La preghiera è il momento in cui la vita di un cristiano respira, perché se non respira, avvizzisce e muore, come tutto ciò che vive. E come si fa a pregare? Cosa vuol dire? Scusate se faccio domande così banali ma forse ce n'è bisogno...
Pregare, per un cristiano, vuoi dire parlare con il Signore anzitutto in certi momenti della sua vita quotidiana: ci hanno insegnato che questi momenti importanti sono soprattutto al mattino e alla sera... Sappiamo anche delle espressioni di preghiera a questo proposito, per esempio il Padre Nostro e l'Ave Maria... Non scartiamole colla scusa che sono delle formule imparate e che è meglio parlare a Dio con spontaneità: ci sono dei giorni in cui la spontaneità proprio non ci viene, oppure abbiamo altro per la testa, e allora...addio preghiera. No, l'abitudinarietà (il far le cose solo per la soddisfazione di averle fatte in qualche modo) non è una bella cosa, ma le buone abitudini invece sono da coltivare: sono queste che rendono seria e affidabile una persona, anche nei rapporti con Dio. Pregare al mattino e alla sera è prova di vita cristiana seria. Ed è anche il modo per ricuperare ogni giorno quella coscienza di chi siamo, che è quella che ci aiuta ad affrontare la vita quotidiana nel modo giusto...
Ma poi è nella vita — dentro la vita - che un cristiano ha bisogno di far respirare la sua fede. E qui, fratelli, è ancora una volta questione di buone abitudini. Pensate un po': ci sono anche cose belle — grazie a Dio — nella vita di ogni giorno... l'incontro con una persona... una bella notizia... una soddisfazione che provi... Ma cosa costa dire — nel segreto del cuore - : "Grazie, Signore Iddio! Ti ringrazio di cuore!". Come è vero che ci sono cose meno belle, anzi decisamente brutte e angoscianti: una brutta notizia... un problema di cui vieni a conoscenza... un fatto preoccupante che ti succede... Cosa ci vuole ad innalzare un'accorata invocazione al Signore sempre nel segreto del cuore: "Signore, abbi pietà di me!". Signore, aiuta quella persona!". Questi sono quegli squarci nel cielo che fanno respirare la vita... (Non dice oggi il vangelo che mentre Gesù pregava, il cielo si aprì?). Condividere con il Signore una gioia, una soddisfazione, è come farla ancora più grande, più intensa! Come il condividere con lui una preoccupazione, un peso: è come spartirlo, alleggerirlo, portarlo in due!
" Mentre Gesù pregava — ci dice Luca — lo Spirito santo scese su di lui in apparenza corporea...": vuol dire che lo si poteva...toccare! E noi che magari pensiamo che lo Spirito santo sia una teoria, un'astrazione... Fratelli, cominciamo a pregare più spesso, e dentro le situazioni della vita, e allora potremo toccare con mano anche noi lo Spirito santo!
Ma il vero motivo per pregare ogni giorno non ve l'ho ancora fatto notare. Ed eccolo allora: di quel Dio che preghiamo, noi siamo figli. Notate bene: figli, non clienti. I clienti si fanno vedere solo quando hanno bisogno. I figli no, si comportano diversamente con il loro padre; non si limitano adialogare con lui una volta ogni tanto; certo, anche nel bisogno ricorrono a lui, ma se lo facessero soltanto per questo, mostrerebbero che non è l'affetto per il padre che li muove, ma il loro interesse. No, è l'amore, l'affetto che porta ad incontrare le persone care e a dialogare con loro; e lo si fa ogni volta che si può; e se non si ha il tempo, lo si trova... e come che lo si trova!
Fratelli, il Signore Dio ci sta a cuore almeno quanto una persona cara? Siamo discepoli di Gesù, il primo figlio di Dio, l'amato... e la vita per noi è una missione che ci viene affidata: sì, ma solo con la preghiera di ogni giorno possiamo essere all'altezza della nostra dignità e adempiere la missione. Impariamo da Gesù allora: dal giorno del Battesimo in poi è così che vale la pena comportarsi.
6 Gennaio - EPIFANIA
Le letture bibliche: Isaia 60,1-6; Efesini 3,2-3a.5-6; Matteo 2,1-12
E’ uno di quei racconti che hanno sempre affascinato questo dei Magi. Gli evangelisti Matteo e Luca, quando ci parlano del Natale, non lo fanno da giornalisti…che oggi vedono un fatto e domani lo scrivono sul giornale. Ci consegnano invece una storia che è stata scritta molti anni dopo che i fatti erano accaduti: certi particolari un po’ fantasiosi sono stati aggiunti da chi la raccontava… (e si sa com’è: a forza di raccontare, si finisce sempre coll’aggiungere ogni volta qualcosa…). Ma hanno talmente affascinato questi racconti del vangelo, che la tradizione popolare non ha mai smesso di aggiungerci qualcosa…
I Maghi – che dovevano essere astrologi persiani della religione di Zoroastro – sono diventati i “magi”, anzi i “Re magi”. E tre per la precisione; addirittura gli è stato dato un nome: Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Uno di loro sarebbe stato di pelle scura. La stella che seguivano sarebbe stata una cometa. Tutte cose che non troviamo scritte nel vangelo: né che fossero tre, né che fossero dei re, né che si chiamassero così, e neanche che la stella avesse la coda…E’ la fantasia popolare che ha ricamato in lungo e in largo su quello che il vangelo racconta…
Quello che è certo è che Gesù, Figlio di Dio, è venuto come Salvatore di tutti, e quindi è ovvio che tutti guardino a lui, non solo i pastori vicini a quel grotta, ma anche quelli che sono molto lontani e che magari fanno un mestiere diverso da quello dei pastori…
Ma comunque, a guardar bene, succede una cosa un po’ strana all’Epifania: ci sono di quelli che abitano vicino (la gente di Gerusalemme – Gerusalemme dista pochi chilometri da Betlemme - : i sacerdoti del tempio, il re Erode…) che non fanno neanche un passo per andare a trovare Gesù: e così perdono l’opportunità di incontrare il Salvatore… (“Venne tra la sua gente – ci diceva l’evangelista Giovanni – ma i suoi non l’hanno accolto”). Ed ecco che invece ci sono di quelli che abitano molto lontano, vedono un segno (la stella) e affrontano un lungo viaggio per cercarlo; e lo trovano: trovano il Salvatore. Mi pare che il bel messaggio dell’Epifania – il vangelo per noi – sta proprio in questa contraddizione: i lontani si muovono e trovano, i vicini non trovano niente perché non fanno nemmeno un passo per cercare.
Che significato ha per noi questa contraddizione? Cerchiamo di chiarirla.
I maghi hanno visto un segno (la stella): l’hanno vista mentre erano intenti al loro lavoro, lì al loro paese…Ma forse che c’era solo per loro la stella? Ci sono per tutti le stelle! E allora perché a Gerusalemme i sacerdoti e gli scribi non l’hanno vista? Semplice: occorre guardare in su per vedere le stelle, occorre scrutare il cielo per distinguere una stella da un’altra…Cosa voglio dire con questo? Nella vita che viviamo – nelle nostre famiglie, nelle nostre vicende personali, nel momento storico che stiamo vivendo – il Signore ci offre dei segni, solo che non sono segni clamorosi, spettacolari…sono segni semplici e discreti, occorre vivere facendo attenzione a quello che accade…è necessario soffermarsi e riflettere su quello che succede (come Maria: ricordate qual è l’atteggiamento di Maria nel presepio? Conservava nel suo cuore tutto ciò che accadeva e lo meditava…). Chi vive in maniera sbadata, distratta, chi è superficiale, non vede quei segni, non scorge la stella! Perché non è chissà dove: è dentro la nostra vita di ogni giorno quella stella!
E’ anche vero, però, che per vederla, per prestarle attenzione e seguirla, occorre avere in cuore un grande desiderio… Ma un desiderio che preme, che non dà pace, solo questo può spingere a cercare anche a fatica, anche con sacrificio… Oggi si viaggia per turismo, per il piacere di viaggiare, ma allora no, ci voleva un grosso motivo per affrontare un viaggio come quello: un forte desiderio, appunto. E qui, fratelli, siamo al cuore del messaggio: noi tutti nutriamo attese, speranze, desideri nella nostra vita… ma il desiderio di salvezza quanto è forte in noi? Anzi, c’è ancora il desiderio di salvezza in noi, o abbiamo ridotto la salvezza allo star bene di salute e una carta di credito nel portafoglio? Quanto è forte il nostro amore per Gesù, il desiderio di incontrarlo come nostro salvatore? E’ abbastanza forte da indurci a rischiare qualcosa, da renderci capaci di affrontare qualche sacrificio? Non accontentiamoci di sentire ogni tanto il bisogno o la voglia di incontrare Dio; questo desiderio forte, che ha messo in cammino i magi, è ben più che una voglia passeggera…
Sì, sappiamo tante cose su Dio, sulla religione…chi più chi meno ne sappiamo tante. Anche i sacerdoti e gli scribi di Gerusalemme le sapevano, ma a cosa gli è servito saperle e basta? I Magi non sapevano tutte quelle cose che sapevano quei sacerdoti e quegli scribi, ma quell’unica di cui son venuti a conoscenza (cioè, dove sarebbe nato il Messia, Gesù), l’hanno messa a frutto: sono partiti subito alla volta di Betlemme. E hanno trovato il Salvatore.
Scribi e sacerdoti, con tutta la loro scienza religiosa, non l’hanno trovato: avevano il cuore e la mente pieni di teorie, ma quel desiderio grande di un Salvatore, no, non ce l’avevano.
Fratelli, questo mi pare il vangelo per noi oggi. Guardiamoci dal sapere religioso che non serve a niente, che non passa nella vita, che non ci mette in movimento verso traguardi e ideali grandi e duraturi. Guardiamoci dal ritenerci credenti solo perché pensiamo che Dio forse, c’è, esiste da qualche parte… No, credere è ben altro da questo!
Facciamo un attimo di verifica oggi, festa dell’Epifania: tra le attese e i desideri che ci animano veramente tutti i giorni, quanto è forte il desiderio di incontrare Gesù Cristo salvatore? Perché, se non desideriamo anzitutto Lui – cioè la salvezza di tutta la nostra persona – a che ci serve spendere fiato e energie per desiderare tante altre cose?
I Magi! “Mago” in dialetto trentino lo si dice di uno …un po’ tonto, sprovveduto, poco accorto. Sarà.
Ma i Magi dell’Epifania sono tutt’altro che tonti o sprovveduti. Sono modelli di vera grandezza, di autentica saggezza, e di fede davvero ardente. E allora, non guardiamo a loro come a personaggi un po’ folkloristici: imitiamoli piuttosto. Questo è davvero importante.
Le letture bibliche: Isaia 60,1-6; Efesini 3,2-3a.5-6; Matteo 2,1-12
E’ uno di quei racconti che hanno sempre affascinato questo dei Magi. Gli evangelisti Matteo e Luca, quando ci parlano del Natale, non lo fanno da giornalisti…che oggi vedono un fatto e domani lo scrivono sul giornale. Ci consegnano invece una storia che è stata scritta molti anni dopo che i fatti erano accaduti: certi particolari un po’ fantasiosi sono stati aggiunti da chi la raccontava… (e si sa com’è: a forza di raccontare, si finisce sempre coll’aggiungere ogni volta qualcosa…). Ma hanno talmente affascinato questi racconti del vangelo, che la tradizione popolare non ha mai smesso di aggiungerci qualcosa…
I Maghi – che dovevano essere astrologi persiani della religione di Zoroastro – sono diventati i “magi”, anzi i “Re magi”. E tre per la precisione; addirittura gli è stato dato un nome: Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Uno di loro sarebbe stato di pelle scura. La stella che seguivano sarebbe stata una cometa. Tutte cose che non troviamo scritte nel vangelo: né che fossero tre, né che fossero dei re, né che si chiamassero così, e neanche che la stella avesse la coda…E’ la fantasia popolare che ha ricamato in lungo e in largo su quello che il vangelo racconta…
Quello che è certo è che Gesù, Figlio di Dio, è venuto come Salvatore di tutti, e quindi è ovvio che tutti guardino a lui, non solo i pastori vicini a quel grotta, ma anche quelli che sono molto lontani e che magari fanno un mestiere diverso da quello dei pastori…
Ma comunque, a guardar bene, succede una cosa un po’ strana all’Epifania: ci sono di quelli che abitano vicino (la gente di Gerusalemme – Gerusalemme dista pochi chilometri da Betlemme - : i sacerdoti del tempio, il re Erode…) che non fanno neanche un passo per andare a trovare Gesù: e così perdono l’opportunità di incontrare il Salvatore… (“Venne tra la sua gente – ci diceva l’evangelista Giovanni – ma i suoi non l’hanno accolto”). Ed ecco che invece ci sono di quelli che abitano molto lontano, vedono un segno (la stella) e affrontano un lungo viaggio per cercarlo; e lo trovano: trovano il Salvatore. Mi pare che il bel messaggio dell’Epifania – il vangelo per noi – sta proprio in questa contraddizione: i lontani si muovono e trovano, i vicini non trovano niente perché non fanno nemmeno un passo per cercare.
Che significato ha per noi questa contraddizione? Cerchiamo di chiarirla.
I maghi hanno visto un segno (la stella): l’hanno vista mentre erano intenti al loro lavoro, lì al loro paese…Ma forse che c’era solo per loro la stella? Ci sono per tutti le stelle! E allora perché a Gerusalemme i sacerdoti e gli scribi non l’hanno vista? Semplice: occorre guardare in su per vedere le stelle, occorre scrutare il cielo per distinguere una stella da un’altra…Cosa voglio dire con questo? Nella vita che viviamo – nelle nostre famiglie, nelle nostre vicende personali, nel momento storico che stiamo vivendo – il Signore ci offre dei segni, solo che non sono segni clamorosi, spettacolari…sono segni semplici e discreti, occorre vivere facendo attenzione a quello che accade…è necessario soffermarsi e riflettere su quello che succede (come Maria: ricordate qual è l’atteggiamento di Maria nel presepio? Conservava nel suo cuore tutto ciò che accadeva e lo meditava…). Chi vive in maniera sbadata, distratta, chi è superficiale, non vede quei segni, non scorge la stella! Perché non è chissà dove: è dentro la nostra vita di ogni giorno quella stella!
E’ anche vero, però, che per vederla, per prestarle attenzione e seguirla, occorre avere in cuore un grande desiderio… Ma un desiderio che preme, che non dà pace, solo questo può spingere a cercare anche a fatica, anche con sacrificio… Oggi si viaggia per turismo, per il piacere di viaggiare, ma allora no, ci voleva un grosso motivo per affrontare un viaggio come quello: un forte desiderio, appunto. E qui, fratelli, siamo al cuore del messaggio: noi tutti nutriamo attese, speranze, desideri nella nostra vita… ma il desiderio di salvezza quanto è forte in noi? Anzi, c’è ancora il desiderio di salvezza in noi, o abbiamo ridotto la salvezza allo star bene di salute e una carta di credito nel portafoglio? Quanto è forte il nostro amore per Gesù, il desiderio di incontrarlo come nostro salvatore? E’ abbastanza forte da indurci a rischiare qualcosa, da renderci capaci di affrontare qualche sacrificio? Non accontentiamoci di sentire ogni tanto il bisogno o la voglia di incontrare Dio; questo desiderio forte, che ha messo in cammino i magi, è ben più che una voglia passeggera…
Sì, sappiamo tante cose su Dio, sulla religione…chi più chi meno ne sappiamo tante. Anche i sacerdoti e gli scribi di Gerusalemme le sapevano, ma a cosa gli è servito saperle e basta? I Magi non sapevano tutte quelle cose che sapevano quei sacerdoti e quegli scribi, ma quell’unica di cui son venuti a conoscenza (cioè, dove sarebbe nato il Messia, Gesù), l’hanno messa a frutto: sono partiti subito alla volta di Betlemme. E hanno trovato il Salvatore.
Scribi e sacerdoti, con tutta la loro scienza religiosa, non l’hanno trovato: avevano il cuore e la mente pieni di teorie, ma quel desiderio grande di un Salvatore, no, non ce l’avevano.
Fratelli, questo mi pare il vangelo per noi oggi. Guardiamoci dal sapere religioso che non serve a niente, che non passa nella vita, che non ci mette in movimento verso traguardi e ideali grandi e duraturi. Guardiamoci dal ritenerci credenti solo perché pensiamo che Dio forse, c’è, esiste da qualche parte… No, credere è ben altro da questo!
Facciamo un attimo di verifica oggi, festa dell’Epifania: tra le attese e i desideri che ci animano veramente tutti i giorni, quanto è forte il desiderio di incontrare Gesù Cristo salvatore? Perché, se non desideriamo anzitutto Lui – cioè la salvezza di tutta la nostra persona – a che ci serve spendere fiato e energie per desiderare tante altre cose?
I Magi! “Mago” in dialetto trentino lo si dice di uno …un po’ tonto, sprovveduto, poco accorto. Sarà.
Ma i Magi dell’Epifania sono tutt’altro che tonti o sprovveduti. Sono modelli di vera grandezza, di autentica saggezza, e di fede davvero ardente. E allora, non guardiamo a loro come a personaggi un po’ folkloristici: imitiamoli piuttosto. Questo è davvero importante.
5 Gennaio - 2* Domenica dopo NATALE
Le Letture bibliche: Siracide 24,1-4.12-16; Efesini 1,3-6.15-18; Giovanni 1,1-18
Chi ha partecipato alla Messa il giorno di Natale, sentendo questo vangelo può aver pensato: “l’abbiamo già sentito". Perché mai oggi lo risentiamo di nuovo?”
Ed ecco la risposta: è un po’ quel motivo per cui, quando si tratta di un'importante opera d'arte, o di una famosa città, si torna sempre volentieri a visitarla.
Di questa pagina del Vangelo di Giovanni – il prologo cosiddetto – noi tutt’al più ricordiamo una frase, come quella che dice: Il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi. Ma se un ateo ci chiedesse: chi è questo Verbo? siamo sicuri di saper rispondere? Allora – siccome la nostra Fede ha bisogno anche di parole umane e di solide basi culturali - soffermiamoci un po’… proprio su questa parola “Verbo” e cerchiamo di capire.
Sia chiaro, non ha niente a che vedere con la grammatica o la sintassi… (dove si parla di verbo essere o verbo avere…). No, Verbo qui traduce una parola greca molto conosciuta in antico e che suonava così: Logos. I greci l’adoperavano moltissimo, e voleva dire: “significato”, “senso”, proprio nel modo che l’intendiamo noi quando diciamo: “Che senso ha questa cosa, questo fatto? Che significato ha questa parola, questa espressione, quel gesto? Cosa vuol dire?”.
Ecco, appunto: il senso, il motivo, il perché: LOGOS lo chiamavano i greci duemila anni fa'. Ebbene, proprio in quella lingua – il greco – l’apostolo Giovanni scrive il vangelo e dice : “Il Logos era fin dal principio presso Dio, anzi: il Logos era Dio. Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste”. Ecco, fratelli, da queste parole – tanto solenni da sembrare forse un po’ enigmatiche – si deduce che tutto ha un senso, e nulla di ciò che esiste o accade è senza senso. Posso tentare di spiegarmi meglio con qualche esempio?
Perchè a partire da fine dicembre i giorni comincino ad allungarsi e le notti ad accorciarsi, e ogni anno è così? Non mi si dica che dipende da fenomeni di rotazione o di rivoluzione della terra attorno al sole… non mi basta questa spiegazione così banale. Perché poi la terra si ridesta, germoglia e fiorisce a ogni primavera, in estate produce frutti, in autunno sovrabbondano e in inverno poi si riposa? Dove sta scritto che deve essere sempre così? E che l’acqua di tutti i torrenti e i fiumi vada verso il mare – e non viceversa – chi l’ha stabilito? Il Parlamento? O il Presidente degli Stati Uniti? E la bellezza! La bellezza delle nostre montagne innevate, sfiorate dal sole all’alba o al tramonto, da dove viene? Chi ne è l’autore?
“Tutto è stato fatto per mezzo del Logos e senza di lui nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste”. E il Logos si è fatto carne, è venuto in mezzo a noi: ha preso il volto di Gesù”. Ecco la ragione, il motivo, la spiegazione di tutto: Gesù. Gesù Cristo.
Fratelli, non permettiamo che crescono i calli sulle nostre coscienze, al punto da non saperci più stupire delle meraviglie che sovrabbondano nel cosmo attorno a noi… E se per caso abbiamo pensato fin’ora che tutto dipenda dal caso, finiamola con questa stupida baggianata e riconosciamo invece la presenza del Logos, Gesù: tutto è stato fatto per mezzo di lui.
E consideriamo anche le tante esperienze umane che accomunano donne e uomini di ogni razza e cultura… L’amore che unisce strettamente ogni papà e ogni mamma alle loro creature… l’amore che che germoglia nell’animo degli adolescenti, dei giovani… l’esigenza di scegliere quella professione, quel mestiere anziché un altro (poi non sempre realizzabile magari) ma da dove viene? E quell’istinto forte ad arrestare il passo, a fare qualcosa, se incontri un tuo simile che sta male… chi te l’ha messa nel cuore? E il bisogno di incontrarci, di fraternizzare, di dotarci di amicizie… perchè? Chi ce l’ha dato? Si potrebbe continuare a lungo… ma la risposta diventa un ritornello: “Tutto è stato fatto per mezzo del Logos e senza di lui nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste”. E il Logos si è fatto carne, è venuto in mezzo a noi: ha preso il volto di Gesù”. Ecco la ragione, il motivo, la spiegazione di tutto: Gesù. Gesù Cristo.
E’ importante riconoscerlo, fratelli? Sì, al punto che - soprattutto al giorno d’oggi – ne va della nostra Fede… E’ tempo e ora grande di pensare a Gesù Cristo non solo quando ci troviamo in chiesa, ma anche fuori dalle chiese… nel mondo e nel concreto della nostra esistenza quotidiana. Ed è bello pensare che Lui è la ragione, il motivo di tutto ciò che vi è di bello, di positivo nel cosmo che ci avvolge e nelle nostre esperienze umane più preziose e più sane…
E’ importante perché allora anche ciò che è negativo assume un altro peso. Se l’ordine del cosmo, la fecondità della terra, l’alternarsi abituale delle stagioni, viene manomesso dall’ingordigia degli uomini, con le drammatiche conseguenze degli sconvolgimenti climatici, tutti questo è oltraggio al Logos, Gesù Cristo. E se questo sconvolgimento avviene tra gli uomini, popoli o singole famiglie, calpestando diritti e dignità (come sta accadendo spesso di questi tempi), è oltraggio ancora più grave al Logos, Gesù Cristo, venuto ad abitare in mezzo a noi per insegnarci ad essere umani.
Insomma, in questi giorni del Natale, Dio ci ha aperto il suo cuore: “Ha tanto amato il mondo da donarci il suo Figlio”. “Il LOGOS si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi. E noi l’abbiamo contemplato…” continua l'evangelista Giovanni e continueremo a contemplarlo: in noi e attorno a noi.
Abbiamo un’eccezionale opportunità ormai noi come cristiani: guardare Gesù – bambino nel presepio, ragazzo a Nazaret, uomo adulto che insegna e guarisce e perdona – oppure ancora Crocifisso, o risorto – e pensare: ecco il LOGOS che si è fatto carne. Ecco il senso di tutto, proprio di tutto, anche di ciò che sperimento e vivo: Gesù Cristo.
Guardare lui, contemplare lui, soprattutto in certe ore e in certi momenti, è trovare… non dico una risposta a tutti i nostri “perché”, ma la conferma, la certezza che una risposta sì: c’è, ed è buona. Questo ci aiuta a vivere, ad andare avanti anche quando c’è buio e oscurità attorno a noi. Infatti, anche questo ci ha detto oggi il vangelo: “la luce splende ormai nelle tenebre e le tenebre, sì' l'hanno combattuta, ma non sono riuscite a sopraffarla".
Il Logos, il Verbo di Dio, non è venuto a toglierci le tenebre. E’ venuto come luce che splende nelle tenebre. E questo ci basta.
Le Letture bibliche: Siracide 24,1-4.12-16; Efesini 1,3-6.15-18; Giovanni 1,1-18
Chi ha partecipato alla Messa il giorno di Natale, sentendo questo vangelo può aver pensato: “l’abbiamo già sentito". Perché mai oggi lo risentiamo di nuovo?”
Ed ecco la risposta: è un po’ quel motivo per cui, quando si tratta di un'importante opera d'arte, o di una famosa città, si torna sempre volentieri a visitarla.
Di questa pagina del Vangelo di Giovanni – il prologo cosiddetto – noi tutt’al più ricordiamo una frase, come quella che dice: Il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi. Ma se un ateo ci chiedesse: chi è questo Verbo? siamo sicuri di saper rispondere? Allora – siccome la nostra Fede ha bisogno anche di parole umane e di solide basi culturali - soffermiamoci un po’… proprio su questa parola “Verbo” e cerchiamo di capire.
Sia chiaro, non ha niente a che vedere con la grammatica o la sintassi… (dove si parla di verbo essere o verbo avere…). No, Verbo qui traduce una parola greca molto conosciuta in antico e che suonava così: Logos. I greci l’adoperavano moltissimo, e voleva dire: “significato”, “senso”, proprio nel modo che l’intendiamo noi quando diciamo: “Che senso ha questa cosa, questo fatto? Che significato ha questa parola, questa espressione, quel gesto? Cosa vuol dire?”.
Ecco, appunto: il senso, il motivo, il perché: LOGOS lo chiamavano i greci duemila anni fa'. Ebbene, proprio in quella lingua – il greco – l’apostolo Giovanni scrive il vangelo e dice : “Il Logos era fin dal principio presso Dio, anzi: il Logos era Dio. Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste”. Ecco, fratelli, da queste parole – tanto solenni da sembrare forse un po’ enigmatiche – si deduce che tutto ha un senso, e nulla di ciò che esiste o accade è senza senso. Posso tentare di spiegarmi meglio con qualche esempio?
Perchè a partire da fine dicembre i giorni comincino ad allungarsi e le notti ad accorciarsi, e ogni anno è così? Non mi si dica che dipende da fenomeni di rotazione o di rivoluzione della terra attorno al sole… non mi basta questa spiegazione così banale. Perché poi la terra si ridesta, germoglia e fiorisce a ogni primavera, in estate produce frutti, in autunno sovrabbondano e in inverno poi si riposa? Dove sta scritto che deve essere sempre così? E che l’acqua di tutti i torrenti e i fiumi vada verso il mare – e non viceversa – chi l’ha stabilito? Il Parlamento? O il Presidente degli Stati Uniti? E la bellezza! La bellezza delle nostre montagne innevate, sfiorate dal sole all’alba o al tramonto, da dove viene? Chi ne è l’autore?
“Tutto è stato fatto per mezzo del Logos e senza di lui nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste”. E il Logos si è fatto carne, è venuto in mezzo a noi: ha preso il volto di Gesù”. Ecco la ragione, il motivo, la spiegazione di tutto: Gesù. Gesù Cristo.
Fratelli, non permettiamo che crescono i calli sulle nostre coscienze, al punto da non saperci più stupire delle meraviglie che sovrabbondano nel cosmo attorno a noi… E se per caso abbiamo pensato fin’ora che tutto dipenda dal caso, finiamola con questa stupida baggianata e riconosciamo invece la presenza del Logos, Gesù: tutto è stato fatto per mezzo di lui.
E consideriamo anche le tante esperienze umane che accomunano donne e uomini di ogni razza e cultura… L’amore che unisce strettamente ogni papà e ogni mamma alle loro creature… l’amore che che germoglia nell’animo degli adolescenti, dei giovani… l’esigenza di scegliere quella professione, quel mestiere anziché un altro (poi non sempre realizzabile magari) ma da dove viene? E quell’istinto forte ad arrestare il passo, a fare qualcosa, se incontri un tuo simile che sta male… chi te l’ha messa nel cuore? E il bisogno di incontrarci, di fraternizzare, di dotarci di amicizie… perchè? Chi ce l’ha dato? Si potrebbe continuare a lungo… ma la risposta diventa un ritornello: “Tutto è stato fatto per mezzo del Logos e senza di lui nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste”. E il Logos si è fatto carne, è venuto in mezzo a noi: ha preso il volto di Gesù”. Ecco la ragione, il motivo, la spiegazione di tutto: Gesù. Gesù Cristo.
E’ importante riconoscerlo, fratelli? Sì, al punto che - soprattutto al giorno d’oggi – ne va della nostra Fede… E’ tempo e ora grande di pensare a Gesù Cristo non solo quando ci troviamo in chiesa, ma anche fuori dalle chiese… nel mondo e nel concreto della nostra esistenza quotidiana. Ed è bello pensare che Lui è la ragione, il motivo di tutto ciò che vi è di bello, di positivo nel cosmo che ci avvolge e nelle nostre esperienze umane più preziose e più sane…
E’ importante perché allora anche ciò che è negativo assume un altro peso. Se l’ordine del cosmo, la fecondità della terra, l’alternarsi abituale delle stagioni, viene manomesso dall’ingordigia degli uomini, con le drammatiche conseguenze degli sconvolgimenti climatici, tutti questo è oltraggio al Logos, Gesù Cristo. E se questo sconvolgimento avviene tra gli uomini, popoli o singole famiglie, calpestando diritti e dignità (come sta accadendo spesso di questi tempi), è oltraggio ancora più grave al Logos, Gesù Cristo, venuto ad abitare in mezzo a noi per insegnarci ad essere umani.
Insomma, in questi giorni del Natale, Dio ci ha aperto il suo cuore: “Ha tanto amato il mondo da donarci il suo Figlio”. “Il LOGOS si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi. E noi l’abbiamo contemplato…” continua l'evangelista Giovanni e continueremo a contemplarlo: in noi e attorno a noi.
Abbiamo un’eccezionale opportunità ormai noi come cristiani: guardare Gesù – bambino nel presepio, ragazzo a Nazaret, uomo adulto che insegna e guarisce e perdona – oppure ancora Crocifisso, o risorto – e pensare: ecco il LOGOS che si è fatto carne. Ecco il senso di tutto, proprio di tutto, anche di ciò che sperimento e vivo: Gesù Cristo.
Guardare lui, contemplare lui, soprattutto in certe ore e in certi momenti, è trovare… non dico una risposta a tutti i nostri “perché”, ma la conferma, la certezza che una risposta sì: c’è, ed è buona. Questo ci aiuta a vivere, ad andare avanti anche quando c’è buio e oscurità attorno a noi. Infatti, anche questo ci ha detto oggi il vangelo: “la luce splende ormai nelle tenebre e le tenebre, sì' l'hanno combattuta, ma non sono riuscite a sopraffarla".
Il Logos, il Verbo di Dio, non è venuto a toglierci le tenebre. E’ venuto come luce che splende nelle tenebre. E questo ci basta.
1 Gennaio 2025 - Maria SS.ma Madre di Dio
Le Letture bibliche: Numeri 6,22-27; Galati 4,4-7; Luca 2,16-21
L'Omelia che segue è stata tenuta durante Celebrazione di Apertura dell'Anno Santo presso il Santuario,
quale "chiesa giubilare" della Diocesi
I tempi, gli anni, non sono eguali per tutti: non solo perché a certuni portano fortuna e buona salute, mentre ad altri riservano preoccupazioni e problemi… ma anche perché le donne e gli uomini che vivono nel tempo non sono tutti eguali. Se per gli scettici o gli atei un anno vale l’altro, per i credenti – per noi cristiani in particolare – da quando Dio, l’Eterno, è entrato nella nostra storia umana, tempi, anni, stagioni e giorni possono essere diversi. Tutti hanno senso e valore, ma alcuni possono essere più favorevoli di altri.
L’anno santo, la cui origine risale a secoli or sono, non se l’è inventato un papa perché se l’era sognato di notte: è venuta dal popolo l’intuizione d’un tempo di particolare grazia e misericordia; l’autorità della Chiesa l’ha accolta e riconosciuta legittima. Non con la presunzione di indurre Dio ad essere più ben disposto del solito – lui è sempre fonte inesauribile di grazia e misericordia – ma con l’intento di recare un po’ di sollievo a questo mondo, che troppo sovente sembra contagiato da virus di rovina, di perdizione.
E l’antidoto provvidenziale per il mondo, in questo Anno Santo appena iniziato, ha un nome ben preciso e familiare: Speranza. Questo sarà l’Anno in cui avremo l’’opportunità e la responsabilità di riscoprire, ravvivare e testimoniare la Speranza. Perché proprio la Speranza?
La risposta è tanto semplice da sembrare perfino banale: perché ce n’è estremo bisogno. A tutti i livelli.
Sono anni che nelle città – specie d’inverno – s’inventano misure per contenere in tutti i modi lo smog che inquina l’aria che si respira. Ma lo smog più micidiale che avvelena tutti, e non solo nelle città, è il pessimismo, il venir meno della fiducia, e quindi il disimpegno, l’indifferenza, e l’avanzare degli egoismi, individuali o collettivi che siano.
Le guerre che imperversano in più di trenta Paesi del mondo e alle quali si rischia perfino d’abituarsi… lo confermano: c’è bisogno di ricuperare Speranza.
Le ripetute suppliche e preghiere per la pace rimaste in apparenza senza risposta – tanto da indurre non pochi a pensare che Dio non ci ascolti più – in realtà sollecitano noi credenti a ridestare e a potenziare ancor più la Speranza.
Non mancano, come ben sappiamo, gelide ventate di pessimismo e sfiducia anche nell’ambito sociale di cui siamo parte; non mancano in settori d’importanza vitale per tutti: come il mondo del lavoro, l’ambito sanitario, quello educativo… Certo che coinvolgono la responsabilità e la coscienza di quanti sono preposti al bene comune, ma chiunque siano costoro… potranno fare ben poco se prima non si ridà respiro alla Speranza.
Sì, anche nella Chiesa ce n’è bisogno. Questa Chiesa universale, amareggiata da scandali che sono venuti alla luce; la Chiesa delle nostre Comunità che faticano a far fronte alle crisi che le hanno investite in varie maniere in questi ultimi anni… e a volte corrono ai ripari sì, ma per vie ingannevoli: o con ritorni al passato che poco hanno a che vedere col vangelo, o con fughe in avanti verso un avvenire che non pare coincida con il futuro provvidenziale di Dio: tutto ciò odora più di mondano che di cristiano, e ben poco ha a che vedere con la Speranza.
E non posso certo ignorare famiglie e anche singoli individui che della Speranza hanno dimenticato non solo la forza ma perfino il nome. Penso a genitori già avanti negli anni, amareggiati per certe scelte dei loro figli, ormai adulti e accasati, del tutto contrarie a quegli ideali dei quali loro – genitori - avevano dato l’esempio… Ed è l’amarezza. Può subentrare Speranza nell'amarezza di quei genitori? Può guarire il pessimismo di quegli individui, uomini o donne, che certe dure esperienze della vita hanno portato a chiudersi in loro stessi, in un egocentrismo che fa male a loro prima ancora che al loro prossimo?
Fratelli, chi oserà dire che non c’è bisogno di Speranza? Ho voluto soffermarmi e passare in rassegna questi vari ambiti, anche a rischio di essere accusato io stesso di pessimismo; ma il pericolo di essere teorici nel parlare di Speranza sarebbe molto più grave.
E pur tuttavia c’è una domanda alla quale già oggi occorre rispondere, ed è questa: di quale Speranza parliamo? Cosa intendiamo con questa parola? “Pellegrini di Speranza” dice il logo che accompagna quest’anno santo… E’ forse quella cui si dice nelle nostre conversazioni che “è l’ultima a morire” oppure “fin che c’è vita c’è speranza”? No, decisamente: questa la condividono anche i pagani, anche gli atei. Questa speranza, umana e soltanto umana, ad un certo punto finisce, muore: magari per ultima, ma muore. Per questa non occorre indire alcun Anno Santo.
Quella di cui ci facciamo pellegrini noi cristiani, e probabilmente anche altri con noi, non muore perché è un’energia, una “corrente ad alta tensione” per così dire, che viene direttamente da Dio. E’ Lui che ce la dona, assieme alla Fede e alla Carità, anzi, ce l’ha già donata: il giorno del nostro Battesimo. Ora, della Fede e della carità – poco o tanto, bene o meno bene – se ne parla e noi ce ne curiamo, cerchiamo di alimentarle, esercitarle. Della Speranza – pur essendo energia potente e divina – si parla poco, ce ne occupiamo di rado: tra le potenti virtù che Dio ci ha regalato, questa è ridotta a Cenerentola…. Ecco perché, tra le iniziative che terremo qui al Santuario in questi prossimi mesi, sono stati programmati anche alcuni Ritiri o occasioni particolari di spiritualità: appunto per riscoprire, per ravvivare la virtù divina della Speranza. E ad essa sarà opportuno attingere anche nelle celebrazioni e incontri di preghiera più abituali.
Di questa speranza che il Signore ci ha dato, san Paolo non scrive che è l’ultima a morire, ma che non delude mai: anche se tutte le nostre umane attese restassero prive di risposta, di questa possiamo ripetere sempre: “La Speranza che Dio ci ha dato non delude”. Non solo: è sempre ben disposto il Signore a rifornircene, ad alimentarla, perché – notate bene – non è solo a nostro uso e consumo che ce la dona, ma perché la possiamo condividere con chi ne ha una sete esasperata, ben più di noi.
Quest’anno è santo – fratelli - perchè lo Spirito di Dio, se ci trova disponibili, potrà animarci in modo particolarmente generoso. Lasciamoci animare allora, e non manchiamo di metterci la nostra personale buona volontà.
Così sia.
Le Letture bibliche: Numeri 6,22-27; Galati 4,4-7; Luca 2,16-21
L'Omelia che segue è stata tenuta durante Celebrazione di Apertura dell'Anno Santo presso il Santuario,
quale "chiesa giubilare" della Diocesi
I tempi, gli anni, non sono eguali per tutti: non solo perché a certuni portano fortuna e buona salute, mentre ad altri riservano preoccupazioni e problemi… ma anche perché le donne e gli uomini che vivono nel tempo non sono tutti eguali. Se per gli scettici o gli atei un anno vale l’altro, per i credenti – per noi cristiani in particolare – da quando Dio, l’Eterno, è entrato nella nostra storia umana, tempi, anni, stagioni e giorni possono essere diversi. Tutti hanno senso e valore, ma alcuni possono essere più favorevoli di altri.
L’anno santo, la cui origine risale a secoli or sono, non se l’è inventato un papa perché se l’era sognato di notte: è venuta dal popolo l’intuizione d’un tempo di particolare grazia e misericordia; l’autorità della Chiesa l’ha accolta e riconosciuta legittima. Non con la presunzione di indurre Dio ad essere più ben disposto del solito – lui è sempre fonte inesauribile di grazia e misericordia – ma con l’intento di recare un po’ di sollievo a questo mondo, che troppo sovente sembra contagiato da virus di rovina, di perdizione.
E l’antidoto provvidenziale per il mondo, in questo Anno Santo appena iniziato, ha un nome ben preciso e familiare: Speranza. Questo sarà l’Anno in cui avremo l’’opportunità e la responsabilità di riscoprire, ravvivare e testimoniare la Speranza. Perché proprio la Speranza?
La risposta è tanto semplice da sembrare perfino banale: perché ce n’è estremo bisogno. A tutti i livelli.
Sono anni che nelle città – specie d’inverno – s’inventano misure per contenere in tutti i modi lo smog che inquina l’aria che si respira. Ma lo smog più micidiale che avvelena tutti, e non solo nelle città, è il pessimismo, il venir meno della fiducia, e quindi il disimpegno, l’indifferenza, e l’avanzare degli egoismi, individuali o collettivi che siano.
Le guerre che imperversano in più di trenta Paesi del mondo e alle quali si rischia perfino d’abituarsi… lo confermano: c’è bisogno di ricuperare Speranza.
Le ripetute suppliche e preghiere per la pace rimaste in apparenza senza risposta – tanto da indurre non pochi a pensare che Dio non ci ascolti più – in realtà sollecitano noi credenti a ridestare e a potenziare ancor più la Speranza.
Non mancano, come ben sappiamo, gelide ventate di pessimismo e sfiducia anche nell’ambito sociale di cui siamo parte; non mancano in settori d’importanza vitale per tutti: come il mondo del lavoro, l’ambito sanitario, quello educativo… Certo che coinvolgono la responsabilità e la coscienza di quanti sono preposti al bene comune, ma chiunque siano costoro… potranno fare ben poco se prima non si ridà respiro alla Speranza.
Sì, anche nella Chiesa ce n’è bisogno. Questa Chiesa universale, amareggiata da scandali che sono venuti alla luce; la Chiesa delle nostre Comunità che faticano a far fronte alle crisi che le hanno investite in varie maniere in questi ultimi anni… e a volte corrono ai ripari sì, ma per vie ingannevoli: o con ritorni al passato che poco hanno a che vedere col vangelo, o con fughe in avanti verso un avvenire che non pare coincida con il futuro provvidenziale di Dio: tutto ciò odora più di mondano che di cristiano, e ben poco ha a che vedere con la Speranza.
E non posso certo ignorare famiglie e anche singoli individui che della Speranza hanno dimenticato non solo la forza ma perfino il nome. Penso a genitori già avanti negli anni, amareggiati per certe scelte dei loro figli, ormai adulti e accasati, del tutto contrarie a quegli ideali dei quali loro – genitori - avevano dato l’esempio… Ed è l’amarezza. Può subentrare Speranza nell'amarezza di quei genitori? Può guarire il pessimismo di quegli individui, uomini o donne, che certe dure esperienze della vita hanno portato a chiudersi in loro stessi, in un egocentrismo che fa male a loro prima ancora che al loro prossimo?
Fratelli, chi oserà dire che non c’è bisogno di Speranza? Ho voluto soffermarmi e passare in rassegna questi vari ambiti, anche a rischio di essere accusato io stesso di pessimismo; ma il pericolo di essere teorici nel parlare di Speranza sarebbe molto più grave.
E pur tuttavia c’è una domanda alla quale già oggi occorre rispondere, ed è questa: di quale Speranza parliamo? Cosa intendiamo con questa parola? “Pellegrini di Speranza” dice il logo che accompagna quest’anno santo… E’ forse quella cui si dice nelle nostre conversazioni che “è l’ultima a morire” oppure “fin che c’è vita c’è speranza”? No, decisamente: questa la condividono anche i pagani, anche gli atei. Questa speranza, umana e soltanto umana, ad un certo punto finisce, muore: magari per ultima, ma muore. Per questa non occorre indire alcun Anno Santo.
Quella di cui ci facciamo pellegrini noi cristiani, e probabilmente anche altri con noi, non muore perché è un’energia, una “corrente ad alta tensione” per così dire, che viene direttamente da Dio. E’ Lui che ce la dona, assieme alla Fede e alla Carità, anzi, ce l’ha già donata: il giorno del nostro Battesimo. Ora, della Fede e della carità – poco o tanto, bene o meno bene – se ne parla e noi ce ne curiamo, cerchiamo di alimentarle, esercitarle. Della Speranza – pur essendo energia potente e divina – si parla poco, ce ne occupiamo di rado: tra le potenti virtù che Dio ci ha regalato, questa è ridotta a Cenerentola…. Ecco perché, tra le iniziative che terremo qui al Santuario in questi prossimi mesi, sono stati programmati anche alcuni Ritiri o occasioni particolari di spiritualità: appunto per riscoprire, per ravvivare la virtù divina della Speranza. E ad essa sarà opportuno attingere anche nelle celebrazioni e incontri di preghiera più abituali.
Di questa speranza che il Signore ci ha dato, san Paolo non scrive che è l’ultima a morire, ma che non delude mai: anche se tutte le nostre umane attese restassero prive di risposta, di questa possiamo ripetere sempre: “La Speranza che Dio ci ha dato non delude”. Non solo: è sempre ben disposto il Signore a rifornircene, ad alimentarla, perché – notate bene – non è solo a nostro uso e consumo che ce la dona, ma perché la possiamo condividere con chi ne ha una sete esasperata, ben più di noi.
Quest’anno è santo – fratelli - perchè lo Spirito di Dio, se ci trova disponibili, potrà animarci in modo particolarmente generoso. Lasciamoci animare allora, e non manchiamo di metterci la nostra personale buona volontà.
Così sia.
29 Dicembre - Festa della Santa Famiglia
Le Letture bibliche: 1Samuele 1,20-22.24-28; 1Giovanni 3,1-2.21-24; Luca 2,41-52
A nessuno sfugge che i tempi nei quali viviamo ci riservano elementi positivi e anche situazioni negative, conquiste e pure fallimenti: contraddizioni insomma. Tempi di contraddizioni i nostri tempi.
Una contraddizione tra le più ricorrenti è questa: da un lato i fallimenti familiari: mai sono stati così frequenti (con un calo notevole di matrimoni, sia in chiesa che in Comune), e d’altro lato c’è una notevole percentuale di giovani che continua a mettere al primo posto proprio l’ideale della famiglia: ecco la contraddizione. Da una parte, una serie di dati negativi che indurrebbero al pessimismo e, dall’altra, questo ideale positivo della famiglia, condiviso anche dalle nuove generazioni…
Che pensare? Che dire? Senza mancare di rispetto a sociologi, psicologi… e tutta questa brava gente, noi qui oggi – in questa Eucaristia – preferiamo dare la parola al Signore e tirare qualche conclusione in base a quello che lui ci dice. E il Signore ama parlare con i fatti, con le storie di vita di quelli che si fidano di lui e si affidano a lui. Due ne abbiamo sentite. Le storie di due famiglie: in ciascuna di esse c’è un bambino che viene portato al tempio dai suoi genitori.
Nella prima il bambino si chiama Samuele: nome che vuol dire “Dio ha ascoltato”; un nome che riassume tutta una storia di vita. Sua madre, Anna, donna sterile, aveva supplicato ardentemente il Signore di farle dono di un figlio; gli aveva anche promesso che, se l’avesse avuto, l’avrebbe messo a sua disposizione: ecco perché, una volta avuto quel dono, mantiene la promessa e lo porta al tempio… Noi oggi, con la sensibilità che ci ritroviamo, forse saremmo piuttosto critici verso un tal modo di fare: “come può una madre decidere la vita che dovrà fare suo figlio?”. Non dimentichiamo, però, che 3000 anni fa’ non si andava tanto per il sottile… e poi resta da vedere se 3000 anni dopo (cioè ai nostri giorni) possiamo davvero ritenerci più progrediti in fatto di valori e di criteri di valutazione…
Quell’antica storia insegna una cosa che per noi credenti è sempre vera (anche se al giorno d’oggi molti faticano ad accettarla): un figlio non è un diritto per nessuno; è dono di Dio, sempre, e come tale va accolto con amore e responsabilità, senza forzare egoisticamente la natura (cioè la creazione di Dio) e la scienza medica. Questo modo di ragionare alla fin fine ha una conseguenza importante: garantisce dignità e rispetto a ogni persona, sia a chi deve nascere, sia a chi lo porta in grembo. Dignità e rispetto: se mancano, ogni vita non può che essere a rischio… Samuele è dono di Dio, e i suoi genitori lo riconoscono portandolo al tempio e offrendolo riconoscenti al Signore.
Nell’altra storia di vita – vita di famiglia! – troviamo Maria e Giuseppe i quali pure vanno al tempio con il loro bambino, Gesù. L’avevano già offerto a Dio pochi giorni dopo la nascita. Tra gli ebrei c’era infatti questa abitudine: offrire al Signore il figlio primogenito… Poi quel figlio cresceva comunque in famiglia (non è che i genitori lo lasciavano nel tempio), però ogni anno la famiglia vi si recava in pellegrinaggio, e quando il bambino era in grado di affrontare il viaggio, ci andava anche lui con i suoi genitori. Era un modo per dire: “noi – papà, mamma, figli – apparteniamo a Dio: ognuno di noi è dono suo; Lui è il Signore, lui ha il primo posto nella nostra famiglia”. Quella volta che Maria e Giuseppe portarono con loro Gesù dodicenne, accadde quello che il vangelo ci ha raccontato: al ritorno da quel pellegrinaggio a un certo punto si accorsero che il figlio non era con loro; Maria, che in carovana camminava con le donne, avrà pensato: “sarà dietro con Giuseppe, con gli uomini”… Giuseppe invece: “di sicuro è davanti, con sua madre”… fattostà che, quando s’accorsero che non c’era proprio, lo cercarono affannosamente per tre giorni… per sentirsi dire, al momento del ritrovamento: “Perché mi cercavate? Non sapete che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Ma essi non compresero le sue parole, dice il vangelo.
Quando si afferma che un figlio è dono di Dio, anzi, che ogni persona della famiglia è dono di Dio, non è affatto una teoria, o una bella frase da cantare in certe occasioni. E’ realtà, è dato di fatto. L’apostolo san Giovanni ce l’ha detto oggi con altre parole: “Carissimi, quale grande amore ci ha dato il Padre: noi ci diciamo figli di Dio – e lo siamo realmente, fin dora!”. Ciò vuol dire che prima che figlio di un uomo e di una donna ognuno di noi è figlio di Dio: prima viene lui (che vive per sempre), dopo vengono i nostri genitori (che invece non vivono per sempre). Detta così potrà sembrare un po’ strana la cosa, ma a un certo punto della vita si intuisce che questa è la realtà provvidenziale alla quale è giusto educare anche i figli: Dio è nostro Padre, e lui viene prima di tutti, anche prima dei nostri genitori. Nostro Padre sempre, anche quando i genitori non ci sono più. Solo a questa condizione – nelle nostre famiglie - la vita di ognuno vede garantita la sua dignità ed è al sicuro.
Fatto sta che per tre giorni hanno cercato Gesù in quell’occasione, poi l’hanno ritrovato nel Tempio. Sì, anche noi possiamo “smarrire” Gesù, lasciarlo sparire dall’orizzonte della nostra vita… Di solito capita gradualmente, un po’ alla volta: si comincia col tralasciare prima la Messa della Domenica, poi la preghiera, la Confessione, poi il contatto con la propria Comunità…e quando si perde di vista Gesù è come trovarsi senza fondamento, senza perno: allora tutto può accadere. Attenzione, fratelli: attenzione a non perdere di vista Gesù! Certo, anche nelle migliori famiglie a volte si fa fatica a capire qual è il progetto di vita delle persone, di un figlio (soprattutto in certe stagioni della crescita); si fa fatica a volte anche a capirsi… ma questo non è indice di famiglia sbagliata o malata. Forse che era sbagliata la famiglia di Giuseppe e Maria? Eppure anche loro hanno faticato a capire quel Figlio… che era di Dio, prima che loro figlio.
Fratelli, quando il primo posto spetta davvero a lui, quando si cerca Gesù con passione, ci potranno essere anche momenti di tensione, preoccupazioni e apprensioni: sì, ma si tengono a bada, sotto controllo. Perché si sa per certo che lui – l’Emmanuele – è con noi. Allora le nostre famiglie – se pure con numerosi limiti e fragilità – agli occhi di Dio sono comunque e sempre “sante famiglie” .
In esse anche lui, l’Emmanuele – il Dio-con-noi – abita volentieri e ci si trova bene.
Le Letture bibliche: 1Samuele 1,20-22.24-28; 1Giovanni 3,1-2.21-24; Luca 2,41-52
A nessuno sfugge che i tempi nei quali viviamo ci riservano elementi positivi e anche situazioni negative, conquiste e pure fallimenti: contraddizioni insomma. Tempi di contraddizioni i nostri tempi.
Una contraddizione tra le più ricorrenti è questa: da un lato i fallimenti familiari: mai sono stati così frequenti (con un calo notevole di matrimoni, sia in chiesa che in Comune), e d’altro lato c’è una notevole percentuale di giovani che continua a mettere al primo posto proprio l’ideale della famiglia: ecco la contraddizione. Da una parte, una serie di dati negativi che indurrebbero al pessimismo e, dall’altra, questo ideale positivo della famiglia, condiviso anche dalle nuove generazioni…
Che pensare? Che dire? Senza mancare di rispetto a sociologi, psicologi… e tutta questa brava gente, noi qui oggi – in questa Eucaristia – preferiamo dare la parola al Signore e tirare qualche conclusione in base a quello che lui ci dice. E il Signore ama parlare con i fatti, con le storie di vita di quelli che si fidano di lui e si affidano a lui. Due ne abbiamo sentite. Le storie di due famiglie: in ciascuna di esse c’è un bambino che viene portato al tempio dai suoi genitori.
Nella prima il bambino si chiama Samuele: nome che vuol dire “Dio ha ascoltato”; un nome che riassume tutta una storia di vita. Sua madre, Anna, donna sterile, aveva supplicato ardentemente il Signore di farle dono di un figlio; gli aveva anche promesso che, se l’avesse avuto, l’avrebbe messo a sua disposizione: ecco perché, una volta avuto quel dono, mantiene la promessa e lo porta al tempio… Noi oggi, con la sensibilità che ci ritroviamo, forse saremmo piuttosto critici verso un tal modo di fare: “come può una madre decidere la vita che dovrà fare suo figlio?”. Non dimentichiamo, però, che 3000 anni fa’ non si andava tanto per il sottile… e poi resta da vedere se 3000 anni dopo (cioè ai nostri giorni) possiamo davvero ritenerci più progrediti in fatto di valori e di criteri di valutazione…
Quell’antica storia insegna una cosa che per noi credenti è sempre vera (anche se al giorno d’oggi molti faticano ad accettarla): un figlio non è un diritto per nessuno; è dono di Dio, sempre, e come tale va accolto con amore e responsabilità, senza forzare egoisticamente la natura (cioè la creazione di Dio) e la scienza medica. Questo modo di ragionare alla fin fine ha una conseguenza importante: garantisce dignità e rispetto a ogni persona, sia a chi deve nascere, sia a chi lo porta in grembo. Dignità e rispetto: se mancano, ogni vita non può che essere a rischio… Samuele è dono di Dio, e i suoi genitori lo riconoscono portandolo al tempio e offrendolo riconoscenti al Signore.
Nell’altra storia di vita – vita di famiglia! – troviamo Maria e Giuseppe i quali pure vanno al tempio con il loro bambino, Gesù. L’avevano già offerto a Dio pochi giorni dopo la nascita. Tra gli ebrei c’era infatti questa abitudine: offrire al Signore il figlio primogenito… Poi quel figlio cresceva comunque in famiglia (non è che i genitori lo lasciavano nel tempio), però ogni anno la famiglia vi si recava in pellegrinaggio, e quando il bambino era in grado di affrontare il viaggio, ci andava anche lui con i suoi genitori. Era un modo per dire: “noi – papà, mamma, figli – apparteniamo a Dio: ognuno di noi è dono suo; Lui è il Signore, lui ha il primo posto nella nostra famiglia”. Quella volta che Maria e Giuseppe portarono con loro Gesù dodicenne, accadde quello che il vangelo ci ha raccontato: al ritorno da quel pellegrinaggio a un certo punto si accorsero che il figlio non era con loro; Maria, che in carovana camminava con le donne, avrà pensato: “sarà dietro con Giuseppe, con gli uomini”… Giuseppe invece: “di sicuro è davanti, con sua madre”… fattostà che, quando s’accorsero che non c’era proprio, lo cercarono affannosamente per tre giorni… per sentirsi dire, al momento del ritrovamento: “Perché mi cercavate? Non sapete che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Ma essi non compresero le sue parole, dice il vangelo.
Quando si afferma che un figlio è dono di Dio, anzi, che ogni persona della famiglia è dono di Dio, non è affatto una teoria, o una bella frase da cantare in certe occasioni. E’ realtà, è dato di fatto. L’apostolo san Giovanni ce l’ha detto oggi con altre parole: “Carissimi, quale grande amore ci ha dato il Padre: noi ci diciamo figli di Dio – e lo siamo realmente, fin dora!”. Ciò vuol dire che prima che figlio di un uomo e di una donna ognuno di noi è figlio di Dio: prima viene lui (che vive per sempre), dopo vengono i nostri genitori (che invece non vivono per sempre). Detta così potrà sembrare un po’ strana la cosa, ma a un certo punto della vita si intuisce che questa è la realtà provvidenziale alla quale è giusto educare anche i figli: Dio è nostro Padre, e lui viene prima di tutti, anche prima dei nostri genitori. Nostro Padre sempre, anche quando i genitori non ci sono più. Solo a questa condizione – nelle nostre famiglie - la vita di ognuno vede garantita la sua dignità ed è al sicuro.
Fatto sta che per tre giorni hanno cercato Gesù in quell’occasione, poi l’hanno ritrovato nel Tempio. Sì, anche noi possiamo “smarrire” Gesù, lasciarlo sparire dall’orizzonte della nostra vita… Di solito capita gradualmente, un po’ alla volta: si comincia col tralasciare prima la Messa della Domenica, poi la preghiera, la Confessione, poi il contatto con la propria Comunità…e quando si perde di vista Gesù è come trovarsi senza fondamento, senza perno: allora tutto può accadere. Attenzione, fratelli: attenzione a non perdere di vista Gesù! Certo, anche nelle migliori famiglie a volte si fa fatica a capire qual è il progetto di vita delle persone, di un figlio (soprattutto in certe stagioni della crescita); si fa fatica a volte anche a capirsi… ma questo non è indice di famiglia sbagliata o malata. Forse che era sbagliata la famiglia di Giuseppe e Maria? Eppure anche loro hanno faticato a capire quel Figlio… che era di Dio, prima che loro figlio.
Fratelli, quando il primo posto spetta davvero a lui, quando si cerca Gesù con passione, ci potranno essere anche momenti di tensione, preoccupazioni e apprensioni: sì, ma si tengono a bada, sotto controllo. Perché si sa per certo che lui – l’Emmanuele – è con noi. Allora le nostre famiglie – se pure con numerosi limiti e fragilità – agli occhi di Dio sono comunque e sempre “sante famiglie” .
In esse anche lui, l’Emmanuele – il Dio-con-noi – abita volentieri e ci si trova bene.
25 Dicembre - NATALE DEL SIGNORE
Le Letture bibliche: Isaia 9,1-6; Tito 2,11-14; Luca 2,1-14
Questa di Natale è una storia che conosciamo da un pezzo, eppure la risentiamo sempre volentieri; siamo un po’ come i bambini: certe storie le sanno per filo e per segno meglio dei genitori, eppure ogni tanto chiedono: “Dài, raccontamela un’altra volta!”. Ma siamo sicuri di averla capita bene noi, prima di raccontarla agli altri? “Maria diede alla luce suo figlio, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia perché per loro non c’era posto nell’alloggio”. “Non c’era posto per loro…”. Per una donna che stava per dare alla luce un bambino, come Maria, ci voleva un minimo d’intimità, e nelle povere abitazioni di Betlemme l’unico posto non poteva che essere quella grotta più interna alla casa, che serviva da stalla.
Sì, poi leggenda e fantasia hanno ricamato parecchio sul Natale… ma in sostanza, resta vero: il Figlio di Dio non ha avuto l’accoglienza che meritava. La gente di Betlemme non si è mossa per lui (gli unici a farlo furono i pastori, che era come dire… gli ultimi, i lontani, quelli che la gente perbene teneva alla larga); e poi non passarono molti giorni che Maria e Giuseppe dovettero fuggire anche da quella grotta, perché un potente ambizioso e schizofrenico, cercava di mettere le mani su quel bambino per toglierlo di mezzo. Se questa è accoglienza!…ebbene no, questo è rifiuto, è porte sbattute in faccia.
E non fu solo una vicenda isolata, accaduta all’inizio; domani, giorno di Natale, il Vangelo lo dirà senza mezzi termini, perfino con solennità: “Venne fra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto”. Sì, dirà anche che altri l’hanno accolto, e a questi ha dato la possibilità di diventare figli di Dio (che non è poco!). Ma quel primo giudizio rimane, inappellabile: ““Venne fra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto”. Questo giudizio, questa conclusione – fratelli – suona e risuonerà sempre come un avvertimento: per tutti. Quindi anche per noi.
Un avvertimento che diventa una domanda impertinente sia a me che a voi, fratelli: Ma… l’abbiamo accolto noi Gesù Cristo? Gli abbiamo davvero aperto la porta? Eh, la porta!
Viene a proposito questa immagine: poco fa’ a Roma, Papa Francesco ha aperto la Porta Santa della basilica di san Pietro ed è iniziato così l’anno del Giubileo. Ma è un simbolo quella porta: Dio ci ha aperto tutto il suo Mistero, ci ha spalancato la sua disponibilità… e noi possiamo entrare. Ma io, noi, abbiamo aperto a lui la porta della nostra vita? Quella di san Pietro a Roma si apre dal di fuori, ma quella della mia, della tua vita, è solo dall’interno che si apre… Tocca a te, a me, a ciascuno lasciar entrare il Signore o rifiutargli l’ingresso.
L’apriremo, fratelli? Avremo il coraggio di aprirla? Oh, l’apriamo spesso se è per quello; l’apriamo a qualche amico o amica ogni tanto (quando ci confidiamo con schiettezza), l’apriamo magari a chi ci seduce con opinioni o idee che ci fanno comodo e condividiamo senza batter ciglio; capita di aprirla subito se c’è un interesse o una gratificazione immediata… Avremo il coraggio di aprirla a Gesù Cristo? Ma aprirla nel senso che possa entrare e rimanere con noi, non come uno sconosciuto che facciamo sostare sulla soglia e prima se ne va meglio è. No: farlo entrare volentieri, e che possa rimanere.
Del resto, non viene per occupare spazio. Ci chiederà solo un po’ di attenzione, di ascolto. E quello che ci darà sarà infinitamente più di quello che ci chiede: lui è la Vita, che ha i connotati della pienezza, del per sempre. La nostra vita non ce li ha questi connotati.
Non solo, a volte vivere è come brancolare nel buio, o se non proprio nel buio, in quel clima da crepuscolo che ci impedisce di vedere tutto e bene, e ci fa pensare al futuro con apprensione perché il futuro per noi è …l’ignoto, soprattutto di questi tempi sovraccarichi di incognite, di apprensioni, di incertezze.
Ma, fratelli, Gesù viene come luce, e per chi brancola nel buio della notte, è lui il vero sole che sorge nuovo ogni mattina. E’ Gesù quel futuro, quella luce. Chi può dire di non averne bisogno? Non limitiamoci a guardarlo in qualche presepio: è sulla soglia della nostra vita che Egli aspetta. L’ha detto lui stesso (è scritto nell’Apocalisse): “Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno mi apre, entrerò e staremo insieme”, in un vincolo di amicizia che nulla potrà più spezzare.
Oh, non ci toglierà di mezzo tutti gli ostacoli – anche se è Figlio di Dio, l’onnipotente – non ci risolverà i problemi magari ancor prima che sorgano, ma li affronterà con noi, e questo ci permetterà di non lasciarci mai dominare dalla paura, e tantomeno di cadere nell’angoscia. Vi pare poco?
Apriamogli allora, anzi: invitiamolo ad entrare e a stare con noi.
Che altro può voler dire “buon Natale” se non proprio questo?
Amen
Le Letture bibliche: Isaia 9,1-6; Tito 2,11-14; Luca 2,1-14
Questa di Natale è una storia che conosciamo da un pezzo, eppure la risentiamo sempre volentieri; siamo un po’ come i bambini: certe storie le sanno per filo e per segno meglio dei genitori, eppure ogni tanto chiedono: “Dài, raccontamela un’altra volta!”. Ma siamo sicuri di averla capita bene noi, prima di raccontarla agli altri? “Maria diede alla luce suo figlio, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia perché per loro non c’era posto nell’alloggio”. “Non c’era posto per loro…”. Per una donna che stava per dare alla luce un bambino, come Maria, ci voleva un minimo d’intimità, e nelle povere abitazioni di Betlemme l’unico posto non poteva che essere quella grotta più interna alla casa, che serviva da stalla.
Sì, poi leggenda e fantasia hanno ricamato parecchio sul Natale… ma in sostanza, resta vero: il Figlio di Dio non ha avuto l’accoglienza che meritava. La gente di Betlemme non si è mossa per lui (gli unici a farlo furono i pastori, che era come dire… gli ultimi, i lontani, quelli che la gente perbene teneva alla larga); e poi non passarono molti giorni che Maria e Giuseppe dovettero fuggire anche da quella grotta, perché un potente ambizioso e schizofrenico, cercava di mettere le mani su quel bambino per toglierlo di mezzo. Se questa è accoglienza!…ebbene no, questo è rifiuto, è porte sbattute in faccia.
E non fu solo una vicenda isolata, accaduta all’inizio; domani, giorno di Natale, il Vangelo lo dirà senza mezzi termini, perfino con solennità: “Venne fra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto”. Sì, dirà anche che altri l’hanno accolto, e a questi ha dato la possibilità di diventare figli di Dio (che non è poco!). Ma quel primo giudizio rimane, inappellabile: ““Venne fra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto”. Questo giudizio, questa conclusione – fratelli – suona e risuonerà sempre come un avvertimento: per tutti. Quindi anche per noi.
Un avvertimento che diventa una domanda impertinente sia a me che a voi, fratelli: Ma… l’abbiamo accolto noi Gesù Cristo? Gli abbiamo davvero aperto la porta? Eh, la porta!
Viene a proposito questa immagine: poco fa’ a Roma, Papa Francesco ha aperto la Porta Santa della basilica di san Pietro ed è iniziato così l’anno del Giubileo. Ma è un simbolo quella porta: Dio ci ha aperto tutto il suo Mistero, ci ha spalancato la sua disponibilità… e noi possiamo entrare. Ma io, noi, abbiamo aperto a lui la porta della nostra vita? Quella di san Pietro a Roma si apre dal di fuori, ma quella della mia, della tua vita, è solo dall’interno che si apre… Tocca a te, a me, a ciascuno lasciar entrare il Signore o rifiutargli l’ingresso.
L’apriremo, fratelli? Avremo il coraggio di aprirla? Oh, l’apriamo spesso se è per quello; l’apriamo a qualche amico o amica ogni tanto (quando ci confidiamo con schiettezza), l’apriamo magari a chi ci seduce con opinioni o idee che ci fanno comodo e condividiamo senza batter ciglio; capita di aprirla subito se c’è un interesse o una gratificazione immediata… Avremo il coraggio di aprirla a Gesù Cristo? Ma aprirla nel senso che possa entrare e rimanere con noi, non come uno sconosciuto che facciamo sostare sulla soglia e prima se ne va meglio è. No: farlo entrare volentieri, e che possa rimanere.
Del resto, non viene per occupare spazio. Ci chiederà solo un po’ di attenzione, di ascolto. E quello che ci darà sarà infinitamente più di quello che ci chiede: lui è la Vita, che ha i connotati della pienezza, del per sempre. La nostra vita non ce li ha questi connotati.
Non solo, a volte vivere è come brancolare nel buio, o se non proprio nel buio, in quel clima da crepuscolo che ci impedisce di vedere tutto e bene, e ci fa pensare al futuro con apprensione perché il futuro per noi è …l’ignoto, soprattutto di questi tempi sovraccarichi di incognite, di apprensioni, di incertezze.
Ma, fratelli, Gesù viene come luce, e per chi brancola nel buio della notte, è lui il vero sole che sorge nuovo ogni mattina. E’ Gesù quel futuro, quella luce. Chi può dire di non averne bisogno? Non limitiamoci a guardarlo in qualche presepio: è sulla soglia della nostra vita che Egli aspetta. L’ha detto lui stesso (è scritto nell’Apocalisse): “Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno mi apre, entrerò e staremo insieme”, in un vincolo di amicizia che nulla potrà più spezzare.
Oh, non ci toglierà di mezzo tutti gli ostacoli – anche se è Figlio di Dio, l’onnipotente – non ci risolverà i problemi magari ancor prima che sorgano, ma li affronterà con noi, e questo ci permetterà di non lasciarci mai dominare dalla paura, e tantomeno di cadere nell’angoscia. Vi pare poco?
Apriamogli allora, anzi: invitiamolo ad entrare e a stare con noi.
Che altro può voler dire “buon Natale” se non proprio questo?
Amen
Tempo di AVVENTO
22 Dicembre - Quarta Domenica
Le Letture bibliche: Michea 5,1-4a; Ebrei 10,5-10; Luca 1,39-45
Siamo vicini ormai anche quest’anno al Natale, e direi che non c’è tempo da perdere se vogliamo che sia buono: un buon Natale, come si usa dire. Perché l’augurio ce lo faremo e ce lo scambieremo certamente, ma che poi sia davvero buono dipende da Dio anzitutto, e poi da noi: da ciascuno di noi. Non c’è più tempo nemmeno per perdersi in critiche sul natale consumistico che abbonda e sovrabbonda nonostante le crisi economiche: chi lo vuole così se lo faccia… peccato per lui che perde il meglio e si accontenta della tara, della schiuma…
Tra credenti, è meglio badare all’essenziale, a ciò che conta di più. E la prima cosa essenziale mi pare questa: occorre lasciarsi coinvolgere personalmente… sì, ma questa espressione è già da libro stampato, preferisco dire: occorre lasciarsi prendere, sì ma dal Natale di Gesù.
Lasciarsi prender è diverso dallo stare lì a vederlo arrivare e poi passare, magari sbocconcellando panettone o aprendo pacchetti-regalo… Lasciarsi prendere è fare come Maria: “in quei giorni si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta la casa di Zaccaria”; la moglie di Zaccaria, Elisabetta, aspettava un bambino (che sarebbe diventato Giovanni Battista); Maria, che aveva già detto sì a Dio e già portava in grembo Gesù, pensò che fosse suo dovere andare a dare una mano a Elisabetta…Non disse: “le mando una badante…” (anche perché non poteva); no, ci vado io… Maria si è lasciata prender dentro personalmente.
Quando arriva, Elisabetta si congratula con lei: “Beata te che hai creduto alla parola del Signore!”. Non beata perché sei piena di grazia, o perché stai diventando la madre del Messia…no: perché hai creduto alla Parola del Signore!
E qui Maria ci aiuta a capire cosa vuol dire essere credenti. Noi a volte stiamo lì a distinguere tra credenti e praticanti: è una distinzione che assomiglia tanto a una bugia pietosa. Esser credenti non significa credere che Dio esiste: ci son tante di quelle cose che esistono eppure a me non dicono un bel niente…
Esser credenti significa lasciarsi prender dentro da Dio in quello che vuole fare: dargli fiducia e stare al gioco. Credere è decidere di offrire a Dio la propria vita perché sia lo spazio in cui Lui può fare qualcosa di buono per tutti. E questo comporta necessariamente un certo disturbo (ma, del resto, ce l’ha anche il Natale consumistico un certo prezzo…).
Fratelli, il protagonista del Natale è Gesù Cristo: beh, lui è il primo che si è lasciato prender dentro dall’avvenimento; nella seconda lettura di poco fa’ ci veniva data la prova della sua disponibilità: “Ecco – dice a Dio, il Padre suo – io vengo per fare la tua volontà!”.
Ecco come accade questo evento che chiamiamo il Natale, fratelli. L’unico modo per fare degnamente Natale è quello di lasciarsi coinvolgere, anche con un certo disturbo…(che non è solo quello di uscire di casa per venire alla Messa, probabilmente, lasciarsi prender dentro dal Natale è qualcosa di più…).
I nostri incontri natalizi potranno assomigliare almeno un po’ all’incontro tra Maria e Elisabetta? O dovranno essere obbligatoriamente luoghi di consumo, secondo soliti clichès ormai consunti…tanto per restar fedeli alla trazione?
La nostra tavola sarà soltanto luogo di chiacchiere, di parole finte e vane, o potrà davvero essere occasione di cordialità, di accoglienza, di gioia autentica?
Andremo impavidi e affannati a cercare regali un po’ strani, inediti, per riempire le nostre case già stracolme di oggetti inutili, o sapremo prenderci il tempo per fermarci a incontrare Dio, ascoltarlo e fargli un po’ di più spazio nella nostra vita?
Cerchiamo di essere saggi e anche un po’ furbi: il Signore ci aveva detto – qualche settimana fa’ – “vegliate!”: ricordate? Riascoltiamo seriamente quell'invito: prima di augurare agli altri Buon Natale, vediamo di prepararcelo buono noi. La Parola di Dio oggi ci ha detto come fare: lasciarsi prender dentro personalmente, anche se costa un certo prezzo. Ciascuno di noi si chieda cosa può voler dire questo per lui, ma seriamente se lo chieda, e sappia che si ci tiene a fare un buon Natale, la risposta dovrà essere concreta, molto concreta.
Del resto, l'ha pagato anche il Figlio di Dio questo prezzo, e molto più caro di noi. E anche Maria, sua Madre.
Tutto quello che vale ha un prezzo. Che c’è di strano se troveremo il modo di pagarlo anche noi? Allora anche ogni nostro augurio avrà probabilmente un altro tono: meno formale, più spontaneo e sincero.
Le Letture bibliche: Michea 5,1-4a; Ebrei 10,5-10; Luca 1,39-45
Siamo vicini ormai anche quest’anno al Natale, e direi che non c’è tempo da perdere se vogliamo che sia buono: un buon Natale, come si usa dire. Perché l’augurio ce lo faremo e ce lo scambieremo certamente, ma che poi sia davvero buono dipende da Dio anzitutto, e poi da noi: da ciascuno di noi. Non c’è più tempo nemmeno per perdersi in critiche sul natale consumistico che abbonda e sovrabbonda nonostante le crisi economiche: chi lo vuole così se lo faccia… peccato per lui che perde il meglio e si accontenta della tara, della schiuma…
Tra credenti, è meglio badare all’essenziale, a ciò che conta di più. E la prima cosa essenziale mi pare questa: occorre lasciarsi coinvolgere personalmente… sì, ma questa espressione è già da libro stampato, preferisco dire: occorre lasciarsi prendere, sì ma dal Natale di Gesù.
Lasciarsi prender è diverso dallo stare lì a vederlo arrivare e poi passare, magari sbocconcellando panettone o aprendo pacchetti-regalo… Lasciarsi prendere è fare come Maria: “in quei giorni si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta la casa di Zaccaria”; la moglie di Zaccaria, Elisabetta, aspettava un bambino (che sarebbe diventato Giovanni Battista); Maria, che aveva già detto sì a Dio e già portava in grembo Gesù, pensò che fosse suo dovere andare a dare una mano a Elisabetta…Non disse: “le mando una badante…” (anche perché non poteva); no, ci vado io… Maria si è lasciata prender dentro personalmente.
Quando arriva, Elisabetta si congratula con lei: “Beata te che hai creduto alla parola del Signore!”. Non beata perché sei piena di grazia, o perché stai diventando la madre del Messia…no: perché hai creduto alla Parola del Signore!
E qui Maria ci aiuta a capire cosa vuol dire essere credenti. Noi a volte stiamo lì a distinguere tra credenti e praticanti: è una distinzione che assomiglia tanto a una bugia pietosa. Esser credenti non significa credere che Dio esiste: ci son tante di quelle cose che esistono eppure a me non dicono un bel niente…
Esser credenti significa lasciarsi prender dentro da Dio in quello che vuole fare: dargli fiducia e stare al gioco. Credere è decidere di offrire a Dio la propria vita perché sia lo spazio in cui Lui può fare qualcosa di buono per tutti. E questo comporta necessariamente un certo disturbo (ma, del resto, ce l’ha anche il Natale consumistico un certo prezzo…).
Fratelli, il protagonista del Natale è Gesù Cristo: beh, lui è il primo che si è lasciato prender dentro dall’avvenimento; nella seconda lettura di poco fa’ ci veniva data la prova della sua disponibilità: “Ecco – dice a Dio, il Padre suo – io vengo per fare la tua volontà!”.
Ecco come accade questo evento che chiamiamo il Natale, fratelli. L’unico modo per fare degnamente Natale è quello di lasciarsi coinvolgere, anche con un certo disturbo…(che non è solo quello di uscire di casa per venire alla Messa, probabilmente, lasciarsi prender dentro dal Natale è qualcosa di più…).
I nostri incontri natalizi potranno assomigliare almeno un po’ all’incontro tra Maria e Elisabetta? O dovranno essere obbligatoriamente luoghi di consumo, secondo soliti clichès ormai consunti…tanto per restar fedeli alla trazione?
La nostra tavola sarà soltanto luogo di chiacchiere, di parole finte e vane, o potrà davvero essere occasione di cordialità, di accoglienza, di gioia autentica?
Andremo impavidi e affannati a cercare regali un po’ strani, inediti, per riempire le nostre case già stracolme di oggetti inutili, o sapremo prenderci il tempo per fermarci a incontrare Dio, ascoltarlo e fargli un po’ di più spazio nella nostra vita?
Cerchiamo di essere saggi e anche un po’ furbi: il Signore ci aveva detto – qualche settimana fa’ – “vegliate!”: ricordate? Riascoltiamo seriamente quell'invito: prima di augurare agli altri Buon Natale, vediamo di prepararcelo buono noi. La Parola di Dio oggi ci ha detto come fare: lasciarsi prender dentro personalmente, anche se costa un certo prezzo. Ciascuno di noi si chieda cosa può voler dire questo per lui, ma seriamente se lo chieda, e sappia che si ci tiene a fare un buon Natale, la risposta dovrà essere concreta, molto concreta.
Del resto, l'ha pagato anche il Figlio di Dio questo prezzo, e molto più caro di noi. E anche Maria, sua Madre.
Tutto quello che vale ha un prezzo. Che c’è di strano se troveremo il modo di pagarlo anche noi? Allora anche ogni nostro augurio avrà probabilmente un altro tono: meno formale, più spontaneo e sincero.
15 Dicembre - Terza Domenica
Le Letture bibliche: Sofonìa 3,14-17; Filippesi 4,4-7; Luca 3,10-18
Qualche giorno fa’ era santa Lucia. Da molte parti per i bambini è una festa, quasi un anticipo del Natale. Perché Lucia ha a che vedere con luce. Anticipa l’arrivo della Luce vera che è Gesù, lo sappiamo.
Una luce che ci fa aprire gli occhi su noi stessi e anche sulla realtà che ci circonda; ci permette di avere uno sguardo più profondo, più obiettivo: per cui, se certe cose vanno male, tu cristiano non puoi permetterti di dire "Facciamo finta che vadano bene" o, peggio ancora "facciamo finta di non vedere…". No, noi dobbiamo vedere; noi possiamo guardare le cose senza paura. Perché è una luce calda quella di Gesù. Una luce che ci avvolge di tenerezza. L’anno santo della Misericordia che abbiamo iniziato è qui a ricordarci che la luce che ci viene dal vangelo non è abbagliante e fredda come quella delle luminarie natalizie che si vedono un po’ dappertutto in queste notti (luci fredde: se uno sta lì a guardarle sperando di scaldarsi, muore congelato!). Luce umile e calda è quella del Signore. E ci permette di capire che quello che appare, non è tutto; quello che i giornali dicono, o non dicono, non è tutto: c'è qualcosa che non si vede, che sfugge alle statistiche dei sociologi e ai rèportages dei giornalisti, qualcosa che può darci un bel po’ di coraggio invece che buttarci giù, una sensazione di gioia invece che di amarezza.
E che cos'è che può darci tutto questo? La Parola del Signore. Quante volte lo si ripete nella Bibbia: “E’ la tua Parola, Signore, che illumina la mia strada!”.
Ebbene, in questa Domenica, eccola la Parola che ci illumina la strada: "Rallègrati, Sion (Sion è tutto il popolo dei credenti), grida di gioia, esulta e acclama con tutto il cuore… Non lasciarti cadere le braccia! Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un Salvatore potente!". Era un profeta a dire così, e lo diceva a un popolo che ne aveva subite di tutti i colori e che rischiava di perdere la fiducia e la speranza nel suo futuro. Ebbene sì, sarà pur vero che hai conosciuto tante prove e sventure – dice il profeta a quel popolo – ma il Signore non ti ha mai abbandonato, anzi, sappilo per certo: è in mezzo a te; e perciò gioisci ed esulta.
Queste parole oggi sono per noi: è il vangelo - cioè la lieta notizia - di questa 3° Domenica dell’Avvento: " Non lasciarti cadere le braccia! Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un Salvatore potente!".
Grazie a questa bella notizia, fratelli, noi possiamo continuare ad impegnarci nel bene, nella solidarietà, perchè le cose di questo mondo cambino, a vantaggio soprattutto di coloro per i quali invece vanno sempre storte... Si parla sempre di ripresa economica, ma forse l’unica ripresa in atto è sempre a vantaggio di coloro che non ne hanno mai avuto bisogno perché la vera crisi non l’hanno mai conosciuta: quelli invece che la devono affrontare ogni giorno aumentano sempre più! Sì, è preoccupante.
E allora ci domandiamo: ma come possono opporsi le nostre piccole iniziative, i nostri piccoli gesti di solidarietà, a certi meccanismi enormi e diabolici che fanno l'alto e il basso sulla faccia della terra?
Dà perfino il voltastomaco la spudorata ipocrisia di quei responsabili delle nazioni che dicono – a parole – di voler metter fine a guerre, a ingiustizie … e poi si scopre che loro stessi sovvenzionano e alimentano traffici e commerci che continuano a creare profughi e fuggiaschi… Ecco, se c’è una cosa che noi cristiani non possiamo fare è chiudere gli occhi di fronte a queste tragedie, anche se il tenerli aperti ci disturba il sonno. D’altra parte, se le cose stanno così, la domanda è inevitabile: Chi siamo noi per opporci a tutto questo?
Sembra una lotta delle formiche contro i dinosauri la nostra, ha detto qualcuno. Ed è vero. Solo che chi vde le cose in questo modo, fa una valutazione incompleta: manca una cifra importante nell'operazione: "Dio"; il Signore tuo Dio in mezzo a te è un Salvatore potente! Questo, fratelli, è come mettere la cifra 1 davanti allo zero, o davanti a tanti zeri. I nostri piccoli gesti, i nostri comportamenti, vengono potenziati da quella presenza: "il tuo Dio in mezzo a te è un Salvatore potente!". Ecco perchè ha senso fare il bene senza mai stancarsi, e continuare ad impegnarsi in una certa direzione senza lasciar cadere le braccia! E oltretutto, con gioia, ecco: con gioia.
San Paolo ai cristiani di Filippi rivolgeva lo stesso invito: “Siate sempre lieti nel Signore; e ve lo ripeto: siate lieti. Il Signore è vicino!”. Sapete da dove scriveva san Paolo queste cose? Da una prigione. Sì, san Paolo era in carcere e tuttavia invitava i suoi cristiani alla gioia! E non lo scriveva due settimane prima di Natale (allora non si festeggiava ancora il Natale); lo raccomandava come atteggiamento di tutti i giorni: “Siate sempre lieti nel Signore; il Signore infatti è vicino!”.
Quando c’è letizia e gioia, allora c’è anche solidarietà. Allora diventi capace di condividere quello che hai, invece che lamentarti per quello che non hai. Come diceva oggi Giovanni Battista: “Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha e chi ha da mangiare faccia altrettanto…”. Cose piccole, gesti tutt'altro che clamorosi: battaglia di formiche contro i dinosauri forse. Con la differenza, però, che i dinosauri sono già scomparsi da un pezzo, mentre le formiche ci sono ancora.
E c’è anche giustizia, quando c’è letizia e gioia: amore e passione per la giustizia. Che è impegno a fare bene il proprio mestiere, con onestà, nel rispetto delle regole e delle leggi… Troppo sovente oggi si mette passione solo nel rivendicare diritti… invece che nel fare al meglio possibile i propri doveri.
No, la giustizia non va d’accordo con questa visuale, e tantomeno la gioia: essa va a braccetto con una vita onesta e giusta, umile e paziente… Come diceva Giovanni Battista a quei soldati che l’interrogavano: “Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, contentatevi delle vostre paghe”.
Chi pretende sempre, da arrogante, da prepotente, non conosce la gioia; magari cerca di costruirsela da solo, con i suoi metodi, ma non ne è capace, perché la gioia ha bisogno di un clima adatto per germogliare, e il clima adatto è solo la condivisione, la solidarietà. Da soli non si potrà mai essere felici. Ce l’ha insegnato Dio stesso: è venuto tra noi a condividere ciò che è nostro e a darci ciò che è suo. Gioia e letizia vengono da questa certezza.
Auguriamoci di essere davvero convinti che il Signore è vicino, così da provare non un po’ di euforia o spensieratezza ogni tanto (che vengono e passano in fretta), ma gioia e letizia: che durano sempre.
Le Letture bibliche: Sofonìa 3,14-17; Filippesi 4,4-7; Luca 3,10-18
Qualche giorno fa’ era santa Lucia. Da molte parti per i bambini è una festa, quasi un anticipo del Natale. Perché Lucia ha a che vedere con luce. Anticipa l’arrivo della Luce vera che è Gesù, lo sappiamo.
Una luce che ci fa aprire gli occhi su noi stessi e anche sulla realtà che ci circonda; ci permette di avere uno sguardo più profondo, più obiettivo: per cui, se certe cose vanno male, tu cristiano non puoi permetterti di dire "Facciamo finta che vadano bene" o, peggio ancora "facciamo finta di non vedere…". No, noi dobbiamo vedere; noi possiamo guardare le cose senza paura. Perché è una luce calda quella di Gesù. Una luce che ci avvolge di tenerezza. L’anno santo della Misericordia che abbiamo iniziato è qui a ricordarci che la luce che ci viene dal vangelo non è abbagliante e fredda come quella delle luminarie natalizie che si vedono un po’ dappertutto in queste notti (luci fredde: se uno sta lì a guardarle sperando di scaldarsi, muore congelato!). Luce umile e calda è quella del Signore. E ci permette di capire che quello che appare, non è tutto; quello che i giornali dicono, o non dicono, non è tutto: c'è qualcosa che non si vede, che sfugge alle statistiche dei sociologi e ai rèportages dei giornalisti, qualcosa che può darci un bel po’ di coraggio invece che buttarci giù, una sensazione di gioia invece che di amarezza.
E che cos'è che può darci tutto questo? La Parola del Signore. Quante volte lo si ripete nella Bibbia: “E’ la tua Parola, Signore, che illumina la mia strada!”.
Ebbene, in questa Domenica, eccola la Parola che ci illumina la strada: "Rallègrati, Sion (Sion è tutto il popolo dei credenti), grida di gioia, esulta e acclama con tutto il cuore… Non lasciarti cadere le braccia! Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un Salvatore potente!". Era un profeta a dire così, e lo diceva a un popolo che ne aveva subite di tutti i colori e che rischiava di perdere la fiducia e la speranza nel suo futuro. Ebbene sì, sarà pur vero che hai conosciuto tante prove e sventure – dice il profeta a quel popolo – ma il Signore non ti ha mai abbandonato, anzi, sappilo per certo: è in mezzo a te; e perciò gioisci ed esulta.
Queste parole oggi sono per noi: è il vangelo - cioè la lieta notizia - di questa 3° Domenica dell’Avvento: " Non lasciarti cadere le braccia! Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un Salvatore potente!".
Grazie a questa bella notizia, fratelli, noi possiamo continuare ad impegnarci nel bene, nella solidarietà, perchè le cose di questo mondo cambino, a vantaggio soprattutto di coloro per i quali invece vanno sempre storte... Si parla sempre di ripresa economica, ma forse l’unica ripresa in atto è sempre a vantaggio di coloro che non ne hanno mai avuto bisogno perché la vera crisi non l’hanno mai conosciuta: quelli invece che la devono affrontare ogni giorno aumentano sempre più! Sì, è preoccupante.
E allora ci domandiamo: ma come possono opporsi le nostre piccole iniziative, i nostri piccoli gesti di solidarietà, a certi meccanismi enormi e diabolici che fanno l'alto e il basso sulla faccia della terra?
Dà perfino il voltastomaco la spudorata ipocrisia di quei responsabili delle nazioni che dicono – a parole – di voler metter fine a guerre, a ingiustizie … e poi si scopre che loro stessi sovvenzionano e alimentano traffici e commerci che continuano a creare profughi e fuggiaschi… Ecco, se c’è una cosa che noi cristiani non possiamo fare è chiudere gli occhi di fronte a queste tragedie, anche se il tenerli aperti ci disturba il sonno. D’altra parte, se le cose stanno così, la domanda è inevitabile: Chi siamo noi per opporci a tutto questo?
Sembra una lotta delle formiche contro i dinosauri la nostra, ha detto qualcuno. Ed è vero. Solo che chi vde le cose in questo modo, fa una valutazione incompleta: manca una cifra importante nell'operazione: "Dio"; il Signore tuo Dio in mezzo a te è un Salvatore potente! Questo, fratelli, è come mettere la cifra 1 davanti allo zero, o davanti a tanti zeri. I nostri piccoli gesti, i nostri comportamenti, vengono potenziati da quella presenza: "il tuo Dio in mezzo a te è un Salvatore potente!". Ecco perchè ha senso fare il bene senza mai stancarsi, e continuare ad impegnarsi in una certa direzione senza lasciar cadere le braccia! E oltretutto, con gioia, ecco: con gioia.
San Paolo ai cristiani di Filippi rivolgeva lo stesso invito: “Siate sempre lieti nel Signore; e ve lo ripeto: siate lieti. Il Signore è vicino!”. Sapete da dove scriveva san Paolo queste cose? Da una prigione. Sì, san Paolo era in carcere e tuttavia invitava i suoi cristiani alla gioia! E non lo scriveva due settimane prima di Natale (allora non si festeggiava ancora il Natale); lo raccomandava come atteggiamento di tutti i giorni: “Siate sempre lieti nel Signore; il Signore infatti è vicino!”.
Quando c’è letizia e gioia, allora c’è anche solidarietà. Allora diventi capace di condividere quello che hai, invece che lamentarti per quello che non hai. Come diceva oggi Giovanni Battista: “Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha e chi ha da mangiare faccia altrettanto…”. Cose piccole, gesti tutt'altro che clamorosi: battaglia di formiche contro i dinosauri forse. Con la differenza, però, che i dinosauri sono già scomparsi da un pezzo, mentre le formiche ci sono ancora.
E c’è anche giustizia, quando c’è letizia e gioia: amore e passione per la giustizia. Che è impegno a fare bene il proprio mestiere, con onestà, nel rispetto delle regole e delle leggi… Troppo sovente oggi si mette passione solo nel rivendicare diritti… invece che nel fare al meglio possibile i propri doveri.
No, la giustizia non va d’accordo con questa visuale, e tantomeno la gioia: essa va a braccetto con una vita onesta e giusta, umile e paziente… Come diceva Giovanni Battista a quei soldati che l’interrogavano: “Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, contentatevi delle vostre paghe”.
Chi pretende sempre, da arrogante, da prepotente, non conosce la gioia; magari cerca di costruirsela da solo, con i suoi metodi, ma non ne è capace, perché la gioia ha bisogno di un clima adatto per germogliare, e il clima adatto è solo la condivisione, la solidarietà. Da soli non si potrà mai essere felici. Ce l’ha insegnato Dio stesso: è venuto tra noi a condividere ciò che è nostro e a darci ciò che è suo. Gioia e letizia vengono da questa certezza.
Auguriamoci di essere davvero convinti che il Signore è vicino, così da provare non un po’ di euforia o spensieratezza ogni tanto (che vengono e passano in fretta), ma gioia e letizia: che durano sempre.
8 Dicembre - Immacolata Concezione
Le Letture Bibliche: Gen 3,9-15.20; Efesini 1,3-6.11-12; Luca 1,26-38
Siamo davvero progrediti in certi campi, in certe sensibilità, non lo si può negare: la pulizia, ad esempio, sia nell’igiene personale, sia nelle nostre case come nelle piazze e per le vie, piace a tutti.
In passato, sporcizia e volgarità nei comportamenti e nelle parole, caratterizzavano spesso le persone ignoranti o povere da ogni punto di vista… Oggi, non più. Oggi capita di trovare persone pulitissime, eleganti, magari anche istruite, ma nello stesso tempo arroganti, sguaiate e volgari, con un parlare infarcito di bassezze e di banalità… La cosa fa ancora più impressione quando ci accorgiamo che, oltre alla volgarità, anche gli interessi di queste persone sono di basso profilo: egocentrici, piccini. E’ come se puzzassero in permanenza. Eppure sono pulitissime, magari anche di “bella presenza”, come si suol dire.
Ebbene, questo è il risultato di un progresso che è stato un po’ troppo parziale, superficiale: dentro nell’intimo, nella mentalità, nella coscienza – ma diciamo pure nell’anima – si è rimasti un po’ indietro, con una sensibilità piuttosto rattrappita e limitata.
Il fatto è, fratelli, che non c’è soltanto un’ecologia dell’ambiente (fatta di persone pulite, di case belle e decorose, di piazze senza immondizie), c’è – ci deve essere anche un’ecologia dello spirito. Papa Francesco lo diceva qualche anno fa’ in quella lettera enciclica che aveva per titolo le prime parole del Cantico di san Francesco: Laudato si’. Pulizia ed ecologia è ora grande di coltivarle a partire dall’intimo di noi stessi. L’unica bellezza che ci soddisfa veramente non può essere quella che ci riflette lo specchio (e che dura quel che dura, come sappiamo), o quella che ha in mente chi ci dice “Come stai bene vestito così!”… Solo chi è perennemente infantile può accontentarsi di queste valutazioni, ma non chi matura in età, equilibrio e saggezza… Del resto, quando diciamo di qualcuno: “Quella è una bella persona…”, non ci riferiamo affatto alle sue qualità estetiche, o al suo abbigliamento elegante: andiamo ben oltre questi parametri. L’unica bellezza che ci riguarda senza mai sparire è quella che parte dallo spirito, si riflette nello sguardo, trova espressione negli atteggiamenti e nel nostro modo di parlare.
Una bellezza che abita volti puliti, ma puliti perché accesi da uno sguardo limpido e buono… Una bellezza che traspare anche dal parlare, che non ha bisogno di mescolare volgarità, parolacce o bestemmie per far colpo. Una bellezza che rende belli anche gli atteggiamenti e i gesti, perché sono sinceri, non violenti o rozzi o arroganti.
Sto forse facendo una lezione di galateo o di buone maniere? No. Sto facendo la predica dell’Immacolata Concezione di Maria, madre di Dio. Sto cercando di ridestare in noi tutti la nostalgia per quella bellezza di cui ho parlato, e che Dio ha già cominciato a realizzare perché ne ha già posto il fondamento. Dio sapeva che noi da soli possiamo aspirare a certi ideali, ma realizzarli, costruirli… no, non è in nostro potere. E’ come se ci mancasse il fondamento su cui costruire. E allora Dio ci ha fornito lui il fondamento: Maria. E’ Maria, questo fondamento. “Piena di grazia”… vuol dire bella di quella bellezza che nessuno può costruire da solo: belli così si è solo per grazia di Dio.
“Tota pulchra es Maria” si canta in questa occasione: tutta bella sei, Maria… Tu sei il fondamento, l’inizio di quella bellezza che ora possiamo realizzare anche noi senza passare per ingenui. E tu – con la tua storia - ci dai le direttive per realizzarla, via via che procede il cantiere della nostra esistenza.
Direttive e criteri che alla fine si riducono a uno solo, ma molto, molto decisivo: uno stile di vita aperto, di ampio respiro… nel senso più semplice e immediato della parola. Vivere così vuol dire accorgersi, vedere, fare attenzione all’altro che ci cammina accanto o che ci viene incontro… E l’altro può essere una persona, ma può essere… Dio, Dio stesso. Non ce l’ha già detto la Liturgia di questo tempo di Avvento? L’ultimo giorno Dio verrà nella gloria, ma in attesa di quel giorno, ci viene incontro in ogni uomo e in ogni tempo, perché lo accogliamo nella fede e testimoniamo nell’amore la beata speranza del suo Regno. Maria, che l’attendeva, l’ha saputo riconoscere e accogliere così, come abbiamo sentito dal vangelo.
Bella è Maria anche in quella sua umanissima semplicità che le fa dire: Com’è possibile che io diventi madre del Messia, del Figlio di Dio? Semplicità e umiltà la fanno davvero bella. Ma bella soprattutto lo è quando consegna a Dio la sua risposta, il suo sì: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. Anche in quella stalla dove darà alla luce Gesù, Maria rimarrà bella: perché la sua bellezza ha radici nell’intimo, non è condizionata dagli ultimi prodotti della cosmetica o della moda.
Si è fidata di Dio Maria: si è fidata nel senso più vero e più decisivo che ci sia, e ha accolto la sua parola con tanto amore da trasformarla in carne della sua carne e darle volto: Gesù, “il più bello tra tutti i figli degli uomini” come dice la Bibbia.
Fratelli, fidarci di Dio e accogliere davvero e con amore la sua parola, sono anche per noi i criteri, le direttive per costruire quella storia di bellezza che Dio vuol realizzare con ciascuno di noi.
In questi giorni è stata riaperta la celebre Cattedrale di Notre Dame a Parigi, dopo il rogo che 5 anni fa’ l’aveva seriamente compromessa. E’ un simbolo per tutta la nostra Europa quella chiesa antica e stupenda. L’Arcivescovo di Parigi in questa occasione s’è espresso così: “Spero che l’incendio di Notre-Dame e soprattutto la sua ricostruzione possano cambiare qualcosa nel cuore dei nostri contemporanei. Un bel segno forte è la crescita dei catecumeni adulti che in Francia si preparano al Battesimo. Anche questo sta a dire che nel nostro mondo di oggi, ci sono uomini e donne ai quali non basta una vita di consumi, puramente materialista, fatta di soddisfazioni passeggere: non gli basta. Dicono «abbiamo bisogno di una profondità nella nostra esistenza, abbiamo bisogno di sperare nell’avvenire, abbiamo bisogno di pensare che il nostro mondo può non chiudersi sui propri conflitti, ma al contrario aprirsi verso Dio e verso gli altri, i nostri simili”. Queste le sue parole.
E mi pare che le immagini di quella cattedrale restaurata, giunte fini a noi, confermano che davvero è tornata luminosa e bella. Perché porta il nome di Notre Dame, nostra Signora, cioè Maria, l’immacolata luminosa e bella. Il Signore ce l’ha data a modello, a esempio, perché Egli vuol fare di noi tutti delle “belle persone”.
Per cui, sì fratelli: è ora di promuovere un’ecologia spirituale, a partire dall’intimo di noi stessi, perché quel Dio che ci ha creati è amante della bellezza, quella più vera che ci sia.
E’ con la bellezza infatti – come ha già detto e ripetuto qualcuno – <<è con la bellezza che Dio salverà il mondo>>.
Le Letture Bibliche: Gen 3,9-15.20; Efesini 1,3-6.11-12; Luca 1,26-38
Siamo davvero progrediti in certi campi, in certe sensibilità, non lo si può negare: la pulizia, ad esempio, sia nell’igiene personale, sia nelle nostre case come nelle piazze e per le vie, piace a tutti.
In passato, sporcizia e volgarità nei comportamenti e nelle parole, caratterizzavano spesso le persone ignoranti o povere da ogni punto di vista… Oggi, non più. Oggi capita di trovare persone pulitissime, eleganti, magari anche istruite, ma nello stesso tempo arroganti, sguaiate e volgari, con un parlare infarcito di bassezze e di banalità… La cosa fa ancora più impressione quando ci accorgiamo che, oltre alla volgarità, anche gli interessi di queste persone sono di basso profilo: egocentrici, piccini. E’ come se puzzassero in permanenza. Eppure sono pulitissime, magari anche di “bella presenza”, come si suol dire.
Ebbene, questo è il risultato di un progresso che è stato un po’ troppo parziale, superficiale: dentro nell’intimo, nella mentalità, nella coscienza – ma diciamo pure nell’anima – si è rimasti un po’ indietro, con una sensibilità piuttosto rattrappita e limitata.
Il fatto è, fratelli, che non c’è soltanto un’ecologia dell’ambiente (fatta di persone pulite, di case belle e decorose, di piazze senza immondizie), c’è – ci deve essere anche un’ecologia dello spirito. Papa Francesco lo diceva qualche anno fa’ in quella lettera enciclica che aveva per titolo le prime parole del Cantico di san Francesco: Laudato si’. Pulizia ed ecologia è ora grande di coltivarle a partire dall’intimo di noi stessi. L’unica bellezza che ci soddisfa veramente non può essere quella che ci riflette lo specchio (e che dura quel che dura, come sappiamo), o quella che ha in mente chi ci dice “Come stai bene vestito così!”… Solo chi è perennemente infantile può accontentarsi di queste valutazioni, ma non chi matura in età, equilibrio e saggezza… Del resto, quando diciamo di qualcuno: “Quella è una bella persona…”, non ci riferiamo affatto alle sue qualità estetiche, o al suo abbigliamento elegante: andiamo ben oltre questi parametri. L’unica bellezza che ci riguarda senza mai sparire è quella che parte dallo spirito, si riflette nello sguardo, trova espressione negli atteggiamenti e nel nostro modo di parlare.
Una bellezza che abita volti puliti, ma puliti perché accesi da uno sguardo limpido e buono… Una bellezza che traspare anche dal parlare, che non ha bisogno di mescolare volgarità, parolacce o bestemmie per far colpo. Una bellezza che rende belli anche gli atteggiamenti e i gesti, perché sono sinceri, non violenti o rozzi o arroganti.
Sto forse facendo una lezione di galateo o di buone maniere? No. Sto facendo la predica dell’Immacolata Concezione di Maria, madre di Dio. Sto cercando di ridestare in noi tutti la nostalgia per quella bellezza di cui ho parlato, e che Dio ha già cominciato a realizzare perché ne ha già posto il fondamento. Dio sapeva che noi da soli possiamo aspirare a certi ideali, ma realizzarli, costruirli… no, non è in nostro potere. E’ come se ci mancasse il fondamento su cui costruire. E allora Dio ci ha fornito lui il fondamento: Maria. E’ Maria, questo fondamento. “Piena di grazia”… vuol dire bella di quella bellezza che nessuno può costruire da solo: belli così si è solo per grazia di Dio.
“Tota pulchra es Maria” si canta in questa occasione: tutta bella sei, Maria… Tu sei il fondamento, l’inizio di quella bellezza che ora possiamo realizzare anche noi senza passare per ingenui. E tu – con la tua storia - ci dai le direttive per realizzarla, via via che procede il cantiere della nostra esistenza.
Direttive e criteri che alla fine si riducono a uno solo, ma molto, molto decisivo: uno stile di vita aperto, di ampio respiro… nel senso più semplice e immediato della parola. Vivere così vuol dire accorgersi, vedere, fare attenzione all’altro che ci cammina accanto o che ci viene incontro… E l’altro può essere una persona, ma può essere… Dio, Dio stesso. Non ce l’ha già detto la Liturgia di questo tempo di Avvento? L’ultimo giorno Dio verrà nella gloria, ma in attesa di quel giorno, ci viene incontro in ogni uomo e in ogni tempo, perché lo accogliamo nella fede e testimoniamo nell’amore la beata speranza del suo Regno. Maria, che l’attendeva, l’ha saputo riconoscere e accogliere così, come abbiamo sentito dal vangelo.
Bella è Maria anche in quella sua umanissima semplicità che le fa dire: Com’è possibile che io diventi madre del Messia, del Figlio di Dio? Semplicità e umiltà la fanno davvero bella. Ma bella soprattutto lo è quando consegna a Dio la sua risposta, il suo sì: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. Anche in quella stalla dove darà alla luce Gesù, Maria rimarrà bella: perché la sua bellezza ha radici nell’intimo, non è condizionata dagli ultimi prodotti della cosmetica o della moda.
Si è fidata di Dio Maria: si è fidata nel senso più vero e più decisivo che ci sia, e ha accolto la sua parola con tanto amore da trasformarla in carne della sua carne e darle volto: Gesù, “il più bello tra tutti i figli degli uomini” come dice la Bibbia.
Fratelli, fidarci di Dio e accogliere davvero e con amore la sua parola, sono anche per noi i criteri, le direttive per costruire quella storia di bellezza che Dio vuol realizzare con ciascuno di noi.
In questi giorni è stata riaperta la celebre Cattedrale di Notre Dame a Parigi, dopo il rogo che 5 anni fa’ l’aveva seriamente compromessa. E’ un simbolo per tutta la nostra Europa quella chiesa antica e stupenda. L’Arcivescovo di Parigi in questa occasione s’è espresso così: “Spero che l’incendio di Notre-Dame e soprattutto la sua ricostruzione possano cambiare qualcosa nel cuore dei nostri contemporanei. Un bel segno forte è la crescita dei catecumeni adulti che in Francia si preparano al Battesimo. Anche questo sta a dire che nel nostro mondo di oggi, ci sono uomini e donne ai quali non basta una vita di consumi, puramente materialista, fatta di soddisfazioni passeggere: non gli basta. Dicono «abbiamo bisogno di una profondità nella nostra esistenza, abbiamo bisogno di sperare nell’avvenire, abbiamo bisogno di pensare che il nostro mondo può non chiudersi sui propri conflitti, ma al contrario aprirsi verso Dio e verso gli altri, i nostri simili”. Queste le sue parole.
E mi pare che le immagini di quella cattedrale restaurata, giunte fini a noi, confermano che davvero è tornata luminosa e bella. Perché porta il nome di Notre Dame, nostra Signora, cioè Maria, l’immacolata luminosa e bella. Il Signore ce l’ha data a modello, a esempio, perché Egli vuol fare di noi tutti delle “belle persone”.
Per cui, sì fratelli: è ora di promuovere un’ecologia spirituale, a partire dall’intimo di noi stessi, perché quel Dio che ci ha creati è amante della bellezza, quella più vera che ci sia.
E’ con la bellezza infatti – come ha già detto e ripetuto qualcuno – <<è con la bellezza che Dio salverà il mondo>>.
1 Dicembre - Prima Domenica
Le Letture Bibliche: Geremia 33,14-16; 1Tessalonicesi 3,12-4,2; Luca 21,25-28.34-36
Una piccola storia. Voglio cominciare con una piccola storia questo nuovo anno cristiano che stiamo iniziando. Pare che sia realmente accaduta.
Una vecchietta serena, sul letto d'ospedale, parlava con il parroco che era venuto a visitarla: «Il Signore mi ha donato una vita bellissima. Sono pronta a partire». «Lo so» mormorò il parroco. «C'è una cosa però che desidero. Quando mi seppelliranno voglio avere un cucchiaino in mano». «Un cucchiaino?». Il parroco rimase sorpreso. «Perché vuoi essere sepolta con un cucchiaino in mano?». «Mi è sempre piaciuto partecipare ai pranzi e alla cene delle feste… Quando arrivavo al mio posto guardavo subito se c'era il cucchiaino vicino al piatto. Sa che cosa voleva dire? Che alla fine sarebbero arrivati il dolce o il gelato». «E allora?». «Eh, voleva dire che il meglio arrivava alla fine! E’ proprio questo che voglio dire al mio funerale. Quando passeranno vicino alla mia bara le persone si chiederanno: "Ma perché ha quel cucchiaino in mano?". Voglio che lei risponda che io ho il cucchiaino perché per me sta arrivando il meglio».
Oggi il Signore ci ha preavvisati che a questo mondo succederanno cosa da far paura: segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia e panico di popoli per terremoti e maremoti: gli uomini moriranno per la paura di ciò che dovrà accadere…
Ma voi no, dice Gesù: voi non morirete affatto dalla paura. Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo: la vostra liberazione è vicina!
E’ come dire: per voi sta arrivando il meglio, come diceva quella vecchietta che voleva partire da questo mondo con il cucchiaino in mano… “Per voi sta arrivando il meglio, ci assicura Gesù: sono io che vi vengo incontro, vengo a liberarvi. Voi non dovete avere paura!”.
Eh, ma come si fa a non avere paura?! Succedono tante di quelle brutte cose a questo mondo! Non si è più sicuri di niente! Ci sono uomini e donne che hanno lavorato fino a ieri e oggi si trovano sul lastrico perché la fabbrica chiude e loro non sanno più come fare per mandare avanti la baracca…
Ci sono papà e mamme che vedono i loro bambini crescere, e ne sono contenti, ma da una parte sono anche preoccupati perché si chiedono: cosa succederà quando saranno adolescenti, giovani? Che compagnie troveranno? E se per caso incappano nella droga? Come si fa a non avere paura?
E poi si sentono certe notizie… “hai sentito di quel tale, o di quella tale? (e magari è un conoscente, un amico, o un parente) …pare gli abbiano trovato una brutta malattia!”. Oh Dio mio! Ma come si fa a non avere paura?
Eppure oggi parla chiaro Gesù: sì, voi potete permettervi di non avere paura. Ah ma questo non vuol mica dire che dovrete fare come gli struzzi, che quando vedono il pericolo mettono la testa sotto la sabbia per non vederlo! Eh, no eh! Voi potete non avere paura solo se i vostri cuori non si appesantiscono. E come si fa’? Quand’è che i cuori delle persone si appesantiscono?
Sono passati diversi anni ormai da quando un grande pastore, il Card. Martini, dava a questa domanda una risposta che sembra fresca di ‘stamattina: “Viviamo in tempi di crisi e di smarrimento: non vediamo chiaro davanti a noi… Una certa abbondanza di beni materiali rischia di addormentare le nostre coscienze, chiudendoci in un guscio egoistico in cui godere da soli, o con i nostri amici, quello che abbiamo…dimenticando la gravità dell’ora e il bisogno di scelte coraggiose e austere”.
Ecco, fratelli, cosa significa avere un cuore pesante! Quando l’abbondanza di beni materiali rischia di addormentare le nostre coscienze, chiudendoci in un guscio egoistico…allora il cuore delle persone si appesantisce… allora è inevitabile avere paura quando ci si trova davanti a qualche problema, a qualche ostacolo, a qualche seria difficoltà… Se il cuore è appesantito da tante, troppe cose, è inevitabile la paura.
Ma il cuore deve essere leggero invece, e lo può essere: solo allora si può affrontare la vita, soprattutto quando ci riserva qualche grossa difficoltà… Come si fa a mantenere il cuore leggero?
“Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere e di comparire davanti a Gesù, il Figlio dell’uomo”. Parole di Gesù, oggi: a noi.
Quando Egli ci dice “vegliate” ha in mente i pastori che dormono all’aperto e fanno la guardia al gregge: dormono sì, ma il loro sonno è leggero; al minimo segnale di pericolo si svegliano subito…Forse Gesù aveva in mente anche i papà e le mamme che quando i loro figli sono fuori di notte a divertirsi, dormono sì, ma di un sonno leggero…perché non vedono l’ora che tornino a casa. Anche voi, intende dirci il Signore, anche voi siate così: non ingozzatevi di cose, di interessi, di hobby, che vi fanno dormire alla grossa, e vi rendono distratti e menefreghisti a tutto ciò che accade.
Vegliate: per saper distinguere ciò che è più importante da ciò che lo è meno, per saper scegliere con saggezza, con equilibrio, quando dovete scegliere e prendere decisioni.
Vegliate, per esser pronti a prestare attenzione e a prendervi cura di chi sta attorno a voi (“Il Signore vi faccia crescere e abbondare nell’amore tra di voi e verso tutti” ci augura oggi san Paolo).
Vegliate - e pregate, aggiunge il Signore. Eh, quest’anno – Anno Santo, come sapete - con il vangelo di Luca ce lo ripeterà spesso Gesù quest’invito: “Pregate!”. Facciamolo ogni giorno, fratelli, magari con l’aiuto di quel semplice Calendario dell’Avvento che anche quest’anno ci offre quella Parola buona che il Signore ogni giorno ci rivolge e rispondiamogli, perché è questo pregare da cristiani.
Altrimenti …ci addormentiamo: sì, con il cuore appesantito. E allora, chi ci sveglia più? Sì, di soprassalto magari ci si sveglia: ma allora è la paura, il panico che ci prende.
No, noi cristiani possiamo permetterci di non non lasciarci prendere dal panico, di non sprofondare nella paura.