1. "Passeggiate dello spirito" alla Quarta Comparsa
A. La vocazione di Maria
B. La Visitazione ad Elisabetta
C. La Donna dell'Apocalisse
2. Inflazione di apparizioni?
3. Accoglienza o rifiuto, secondo la Bibbia
(Noi cristiani e il fenomeno delle immigrazioni)
4. La Pasqua di Cristo e la nostra vita
* * *
A. La Vocazione di Maria
Riflessione tenuta alla 4° Comparsa il 16 Luglio, Festa della Madonna del Monte Carmelo
Dal Vangelo di Luca
L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.
(1, 26-38)
«Vangelo dell'Annunciazione» viene definito questo brano di Luca, da qui il «mistero dell'Annunciazione» (il 1° mistero gaudioso) e la «festa dell'Annunciazione del Signore» (25 marzo); la Liturgia preferisce chiamarla «Annunciazione del Signore» anziché «annunciazione di Maria», ma sempre di annunciazione si tratta.
Il che può far pensare a un modo di agire divino che consiste nell'informare gli uomini a cose fatte, o quanto meno, a cose già decise, già avviate. Gli attori allora entrano nel progetto come «comparse», come figure di secondaria importanza. Invece non è così.
Il titolo esatto di questo evento in realtà non è «annunciazione», ma “vocazione”, la vocazione di Maria. E' questa la parola adatta al ruolo attivo che ha Maria in tutto questo dialogo, e in tutto quello che seguirà.
E che si tratti proprio di vocazione, lo si vede dal confronto con esperienze simili riportate dalla storia sacra dell'A.T. (che a noi, forse, sfuggono ma che l’evangelista Luca conosceva bene). Queste esperienze di vocazione seguono tutte uno stesso stile.
Sembrano una rappresentazione in tre atti:
1° atto: apparizione dell'angelo che saluta il destinatario del suo messaggio, il quale si spaventa, si turba
2° atto: l’angelo comunica il messaggio — il destinatario fa obiezioni o fa presente le sue difficoltà
3° atto: l'angelo spiega, chiarisce meglio il messaggio e attende il consenso del destinatario.
NelIa vocazione di Maria ritroviamo la stessa sequenza di momenti, gli stessi tre atti. Questo ci deve mettere in guardia dal considerare come cronaca di giornale certi particolari del racconto. Più che considerarlo una storia esatta è importante comprendere il messaggio che ci sta dietro.
Non è un evento isolato: fa parte di un contesto. E il contesto è dato dall'azione di Dio che ha già coinvolto altri credenti: Zaccaria ed Elisabetta, per esempio. Infatti si parla del “sesto mese” della gravidanza di Elisabetta.
Se il vangelo lo si legge adagio invece che di corsa, allora è molto bella anche l'introduzione: sembra l'inizio di un film, che parte con una visuale molto ampia per poi concentrarsi su un particolare: prima la Galilea (la regione) — poi Nazaret (un villaggio di questa regione) — poi Maria (una ragazza di questo villaggio). Notate: per due volte si dice che è vergine: «a una vergine, sposa di un uomo... - il nome della vergine era Maria». L’evangelista Luca insiste su questo.
Perché turbarsi?
Parlavo di una specie di rappresentazione in tre atti.
Il saluto dell'angelo e il turbamento di Maria è il primo atto. Maria fu turbata a queste parole — profondamente turbata: perché? di che saluto si tratta?
«Ave, Maria, piena di grazia, il Signore è con te» dice l'antica versione che è diventata preghiera. «Ti saluto, Maria»: in tutte le lingue moderne l'Ave Maria comincia così. Ma se si tratta di un saluto, perché stupirsi? Perché spaventarsi? Luca scriveva in greco, e in greco la prima parola dell’Angelo è chaire! Che non vuol dire «buon giorno» o «salve» o «ave». Vuol dire esattamente rallegrati, gioisci. E perché allora Maria si turba invece che essere contenta?
Perché questo strano invito (“rallegrati – gioisci”) viene dalla Bibbia, erano i profeti a parlare così…
Sofonia per esempio – 5 secoli prima di Cristo – gridava alla popolazione di Gerusalemme: “Rallegrati, figlia di Sion! Gioisci, figlia di Gerusalemme!”. E perché? Perché “Il Signore è in mezzo a te!” (3,14). Parlava a un popolo povero, provato, scoraggiato… Dio tornava ad essere «Signore» in mezzo a quel popolo: iniziava il tempo della consolazione, della salvezza finalmente.
Stesso invito nel profeta Zaccaria (9,9): “Viene il tuo Re, umile, a cavallo di un'asina. Rallegrati, figlia di Sion!”. E chi è questa «figlia di Sion»?
E' quella parte del popolo, quel resto fatto di poveri che però contano solo sul Signore, conservano a ogni costo la fiducia in Lui e aspettano che realizzi le sue promesse…
«Figlia di Sion» quindi è una personalità simbolica e femminile, che comprende tutti i poveri che confidano unicamente nel Signore.
Ora, se l'angelo si rivolge a Maria dicendole “rallègrati”, vuol dire che per Luca è Maria di Nazaret la «figlia di Sion». Meglio ancora: Maria non è solo una ragazza di Nazaret (sconosciuto villaggio della Galilea); Maria è la personificazione di tutto quel popolo di Dio che crede e attende in umiltà. Maria insomma ha un ruolo rappresentativo, fin dall’inizio della sua avventura con Dio. E questo è un aspetto che ci impedisce di considerarla lontana e isolata da noi (come troppo spesso si è fatto in passato e anche oggi a volte): no, anche nella sua vocazione Maria ha a che vedere con noi e con tutti i credenti come noi perché ci rappresenta tutti.
E – pensate che bello! - è dalla gioia che inizia la Storia della nostra Salvezza, con un invito alla gioia. Gerusalemme — la figlia di Sion dei profeti — aveva solo un ruolo passivo (era «il Signore in mezzo a lei» il motivo della sua gioia); Maria, la «vergine figlia di Sion» invece ha un ruolo attivo: c'è bisogno della sua adesione, del suo “sì”, perché quella gioia si realizzi e diventi la gioia di tutti.
«Rallégrati, piena di grazia» si sente dire dall’Angelo. Piena di grazia sono tre parole, ma nel testo originale (greco) è una parola sola, che diventa quasi un nome, il nuovo nome di Maria: ora per il popolo della Bibbia, il nome esprime la tipicità della persona che lo porta. Maria è già stata colmata da quel dono di grazia eccezionale che Dio vuol fare a tutti gli uomini. Lei ne è già stata colmata perché dovrà diventare la madre del Messia Gesù.
La Chiesa userà altre parole per dire questo: parlerà di lei come dell’ “Immacolata concezione”.
Una missione possibile solo se “il Signore è con te”
«Il Signore è con te» è la conclusione di questo breve saluto che stupisce Maria, e che poi si chiarisce meglio nel dialogo che segue. Se piena di grazia è la sua identità già da sempre, già reale, il Signore è con te apre lo sguardo sul futuro: il Signore è con te perché c'è bisogno che Egli sia con te, perché ciò che ti viene richiesto non è possibile se non c'è Lui.
Per Maria, infatti, non si tratta solo di diventare madre — esperienza normale, di natura — ma di diventare madre rimanendo vergine: questo è possibile unicamente se «il Signore è con te».
Fin qui il saluto. «Maria ha trovato grazia» perché il figlio che concepirà e darà alla luce è destinato ad essere «grande»: non grande secondo la logica di questo mondo, ma grande in assoluto: Figlio dell'Altissimo. Al che Maria esprime la sua perplessità: Come avverrà questo, dato che non conosco uomo?
Questa affermazione ha bisogno di essere spiegata: non conosco uomo non vuol dire che Maria avesse fatto voto di verginità (era inconcepibile per gli Ebrei di quel tempo), esprime piuttosto uno stato d'animo, un orientamento, un desiderio di verginità come situazione di vita.
Come è possibile allora conservare questo orientamento e nello stesso tempo diventare madre del Messia?
«Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo». Ecco cosa comporta il fatto che il Signore è con te. ****
Anche Elisabetta, anche Zaccaria, e il vecchio Simeone e Anna, saranno coinvolti dallo Spirito Santo.
E quella «potenza dell'Altissimo che ti coprirà con la sua ombra», fa pensare alla nube che accompagnava gli ebrei nel deserto, li proteggeva dal sole, ma soprattutto era garanzia della presenza di Dio (Es 40,35). Maria con tutta la sua persona sarà dimora della nuova presenza di Dio tra gli uomini: «arca della nuova Alleanza», ce lo farà notare Luca in occasione della visita ad Elisabetta.
Vergine e Madre per la potenza di Dio quindi: due dati apparentemente e umanamente contraddittori, che però sono a fondamento di tutto il messaggio cristiano: quel messaggio che – come dirà san Paolo - è follia e stoltezza per i sapientoni di questo mondo.
Vergine e Madre: perché?
Questo dato di Maria come vergine e madre è sempre stato difficile da credere, fin dagli inizi del Cristianesimo. Gli Ebrei che rifiutarono Gesù, misero in giro la calunnia dell’adulterio: Gesù sarebbe nato dall'unione segreta di Maria con un legionario romano di nome «Panthera»; ma siccome il diavolo insegna a far le pentole ma non i coperchi, si scoprì ben presto che si trattava di una calunnia inventata: “Panthèra” è l’anagramma di “parthénos” che in greco vuol dire “vergine”.
Sempre ci fu chi ha trovato difficile o impossibile credere che Maria è vergine e madre insieme. Nella nostra epoca ancora di più, perché l’uomo d’oggi (spesso ateo o scettico) fa fatica ad accettare il miracolo, l'intervento straordinario di Dio; come fa fatica ad accettare la verginità come valore: no, spesso la considera un handicap, un limite.
Purtroppo, nel recente passato, si è insistito esclusivamente sull'aspetto corporeo, biologico della verginità di Maria; non ci si è preoccupati di far capire il suo senso, il suo perché.
No, la verginità di Maria non l’hanno inventata gli evangelisti: l'hanno trovata come un dato di fatto nella fede della prima Comunità cristiana, e si sono preoccupati di tramandarla per iscritto senza tradirne il mistero. Non stupitevi se sentirete dire da qualcuno (magari alla TV) che si tratta di un mito invece che di una realtà vera e che in tanti miti dell’antichità si parla di “nascita prodigiosa da una ragazza vergine” perché un dio si era unito con lei. Niente di tutto questo nel concepimento verginale di Gesù. Ciò che avviene in Maria non è una generazione, ma una nuova creazione. E la creazione è competenza di Dio, solo di Dio.
Però la domanda è legittima: perché Maria doveva rimanere «vergine» nel concepire e dare alla luce Gesù?
Perché Gesù è puro dono di Dio, iniziativa soltanto sua, inizio d'una nuova creazione. Gesù non è risultato di una decisione umana, cioè di un uomo e una donna che dicono: “facciamo un figlio”. Se così fosse, quel figlio sarebbe soltanto uno come tutti noi, con i suoi difetti e i suoi peccati: che salvezza potrebbe darci? Non potrebbe essere nostro Salvatore.
Proclamare che Maria è Vergine significa riconoscere che l'iniziativa della nostra salvezza è tutta di Dio, e Dio la realizza attraverso la povertà di strumenti umani. La verginità, ricordiamolo, è anche povertà.
Insomma, solo Dio ha l’esclusiva della nostra salvezza: ecco cosa vuol dire che Maria è Vergine e Madre nello stesso tempo.
Il che è confermato anche dal segno che viene dato a Maria: “Vedi, Elisabetta, tua parente, anch'essa ha concepito un figlio, pure nella sua vecchiaia, e questo è il sesto mese per lei che tutti dicevano sterile. Infatti, non c'è parola da parte di Dio che non si possa realizzare”.
A questo punto, l’Angelo (cioè Dio stesso in definitiva) attende la risposta di Maria, il suo sì.
«Stiamo aspettando anche noi, o Signora, — esclamava s. Bernardo in una sua splendida omelia — facci sentire dalla tua bocca, o figlia di Sion, la risposta della tua gioia: apri il tuo cuore alla fede, e le tua labbra alla parola, il tuo grembo al Creatore! Rispondi presto, o Vergine!».
E Maria acconsente con gioia, in perfetta corrispondenza con quel «gioisci», con cui l'angelo l'aveva salutata: «Eccomi sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto». E siccome Maria personifica in sé tutti quei poveri che si fidano del Signore, in quella parola “serva” possono ritrovarsi e riconoscersi tutti coloro che si affidano a Dio con disponibilità e con gioia: religiosi o laici non importa, Maria come “serva” del Signore ci rappresenta tutti.
Quale messaggio per noi?
Probabilmente sono più d’uno i messaggi che ci riguardano:
La missione di Maria allora è anche di richiamarci sempre, maternamente e dolcemente, a questo comportamento di totale appartenenza al Signore e al suo Vangelo.
B. La Visitazione di Maria ad Elisabetta
Riflessione tenuta alla 4° Comparsa il 5 Agosto, Festa della Madonna della Neve
Dal Vangelo di Luca
In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città della Giudea. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».
Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.
(Luca 1,39-45.56)
In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città della Giudea.
La tradizione cristiana afferma che Luca, oltre che evangelista, era anche medico e pittore (attribuisce a lui le antiche icone denominate le “Madonne di san Luca”). I dipinti che ornano il santuario della Visitazione ad Ain Karim in Terra Santa sono di un pittore moderno, il cui stile richiama il beato Angelico: uno stile leggero, le persone sono ritratte in atteggiamenti e in abbigliamenti estremamente semplici, figure aggraziate, quasi trasparenti. Anche i paesaggi che fanno da sfondo sono improntati a semplicità, con una luce che non è mai violenta.
E' la luce dell'alba — l'aurora del grande giorno della Salvezza (quell’ “OGGI” che risuonerà spesso sulle labbra di Gesù) e pochi ne sono consapevoli: Maria, Zaccaria, Elisabetta, Giuseppe forse.
La Visita di Maria ad Elisabetta è il Vangelo dell'aurora; un evento che si colloca bene sullo sfondo dell'aurora, quando tanti ancora dormono e solo alcuni hanno già cominciato la giornata; Maria è tra questi. E siccome sa che il giorno che viene è quello della Salvezza, Lei ne è tutta presa, tutta coinvolta. Si alzò e partì in fretta. Questo verbo iniziale - «si alzò» - richiama il bell'inizio del c. 60 di Isaia che dice: “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce!... La gloria del Signore brilla sopra di te”.
Che se poi Maria è la figlia di Sion (come vedevamo la volta scorsa parlando della sua Annunciazione o Vocazione), l'invito di Isaia le sta bene perché è alla Figlia di Sion che si rivolge il Profeta. Come le stanno bene le espressioni entusiaste del Cantico dei Cantici: “Il mio diletto viene saltando per i monti!
Alzati, amica mia, mia bella, e vieni! L'inverno è passato, è cessata la pioggia, se n'è andata, i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Alzati, amica mia, mia bella, e vieni!” (Cant 2,10)
Maria si alzò e si mise in viaggio per la montagna, in fretta, verso una città di Giuda. La fretta di Maria non è quella tensione stressante e un po' nevrotica che contrassegna certo nostro correre: il motivo della sua fretta è l'aurora della salvezza, da annunciare, da comunicare; la fretta di Maria è la stessa sollecitudine dei missionari del Regno inviati da Gesù, che non dovranno fermarsi molto a chiacchierare per strada, perché la notizia deve correre, non c'è tempo da perdere: il tempo è ormai arrivato = è il momento eccezionale della salvezza. E il modo con cui Luca presenta il viaggio di Maria, per la montagna, mette in evidenza, tacitamente, proprio questo aspetto missionario: Maria è messaggera del Vangelo, del Dio che si fa uomo, del Salvatore. Lei custodisce nel grembo la bella notizia (è questo il significato della parola “Evangelo”: bella notizia), e che è davvero bella notizia lo si vedrà allorché la sua sola presenza farà sussultare di gioia il bambino nel grembo di Elisabetta. Anche qui, a Maria, si addicono bene le parole di Isaia: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi, che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza!” (Is 52,7). E non solo i piedi… E' bella la figura di questa donna che cammina per la montagna, certamente in carovana con altra gente, e che porta nel grembo il Messia. E nessuno lo sa in quella carovana. Discrezione e incognito inaugurano fin d’ora la presenza di Dio in questo mondo.
ELISABETTA: SEGNO DI DIO
Perché Maria si è recata da Elisabetta?
Normalmente si dice: per servire, per aiutarla nei mesi della sua gravidanza. Anche se è probabile che effettivamente Maria si sia messa a servire l'anziana parente, non è questo però il primo motivo della visita.
Ricorderete che nel dialogo con l’Angelo, alla richiesta di spiegazioni (Come avverrà questo: che io concepisca il Figlio dell'Altissimo?), l'Angelo aveva risposto: Vedi, anche Elisabetta... ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei. Elisabetta quindi doveva essere un segno per Maria: un segno dato da Dio. E quando Dio dà dei segni, là dove li offre si deve correre, e prenderne atto. E' per questo che anche i pastori correranno nella notte di Betlemme: Questo per voi il segno: troverete un Bambino avvolto in fasce... Andiamo fino a Betlemme... Andarono, dunque, senza indugio... (Lc 2,12.15.16).
Quindi il viaggio di Maria non è motivato da un desiderio di verifica: «Vado a vedere se è vero». No. E' un andare ad accogliere nella fede — il segno offerto da Dio, e darne atto, con fede ed esultanza: Maria ne darà atto con il suo cantico, il «Magnificat».
L'INTERPRETAZIONE PRIMITIVA
Dicevo nella riflessione che abbiamo fatto qui la volta scorsa che questi fatti raccontati dall’evangelista Luca non furono costruiti da lui, magari in base a chissà quali notizie segrete; certo, da un lato affondano le loro radici nell'esperienza e nei ricordi di Maria, dall'altro furono riletti, interpretati in un ambito particolare: quello delle prime comunità cristiane, o meglio, ebreo o giudeo-cristiane (perché erano composte da ebrei o giudei che si erano convertiti al Vangelo, a Gesù, senza però rinunciare alle loro tradizioni religiose di prima: ecco perché li chiamiamo “ebreo o giudeo-cristiani”). In quanto ebrei conoscevano molto bene quello che noi chiamiamo l’AT e se ne servivano per capire i fatti e gli eventi di Gesù, cioè il Nuovo Testamento. Ed è naturale: ognuno cerca di capire il presente servendosi del bagaglio culturale che possiede. (Un esempio banale, se volete: se si vuol capire la Divina Commedia occorre sapere prima… cosa sono l’inferno, il purgatorio e il paradiso… altrimenti non si capisce di cosa parla Dante in quell’opera; ecco un piccolo esempio di bagaglio culturale). Per quei primi cristiani c’era da capire … Gesù, ciò che aveva fatto, insegnato, sperimentato… il bagaglio culturale con il quale capirlo erano gli scritti dell'A.T. Era necessario adoperare quegli scritti soprattutto per capire quella parte della vita di Gesù che era la più lontana nel tempo, la più imprecisa nei particolari, cioè i fatti della sua infanzia e, ancor prima, ciò che aveva preceduto la sua infanzia, anzi, la sua stessa nascita. Lì non c’erano ancora né apostoli né evangelisti che potevano raccontare e testimoniare.
Anche la visita di Maria ad Elisabetta fu interpretata alla luce dell'A.T., soprattutto con l’aiuto di un oggetto sacro, o meglio di un’immagine particolare: l'arca dell'Alleanza.
Cos’era l’Arca dell’Alleanza?
Era una cassa di legno di cedro, costruita durante gli anni in cui gli Ebrei, liberati dalla schiavitù dell’Egitto, attraversavano il deserto per arrivare alla terra promessa; quella cassa, portata su delle stanghe e sovrastata dalle sculture di due angeli, conteneva le tavole delle “10 Parole” (i comandamenti), un vaso di manna (il cibo del deserto) e il bastone di Mosè. Nel deserto era custodita sotto una tenda speciale e durante il viaggio precedeva la carovana.
Era la cosa più preziosa e più sacra per gli Ebrei. Non che la ritenessero la dimora di Dio (Dio non ci sta certo in una cassa), ma era il segno della sua presenza, segno che era con loro nel loro viaggio verso la Terra promessa. Giunti a quella terra tanto sospirata, in un primo tempo l’arca fu custodita in un piccolo santuario a Betel (a Nord di Gerusalemme). Quando gli Ebrei dovevano combattere (contro predatori o invasori) la portavano con loro sul campo di battaglia: la consideravano una magica garanzia di vittoria. Solo che Dio non ci stava a questo gioco e una volta, nel corso di una battaglia contro i Filistei, gli ebrei furono sopraffatti e l’arca cadde in mano ai loro nemici. I Filistei se la portarono nella loro città capitale come un trofeo prezioso, ma fu come se avessero portato la peste: la gente della città si ammalava e moriva… Allora la portavano in un’altra città, ma anche lì… stessa cosa; epidemie e morte.
Alla fine decisero di sbarazzarsene e la restituirono agli ebrei, ma lo fecero in un modo piuttosto stravagante: la misero su di un carro, vi attaccarono davanti due vacche che avevano partorito da poco, e quelle due vacche trainarono il carro verso il territorio degli Ebrei: procedevano imperterrite, senza badare ai vitellini che erano rimasti nella stalla e continuavano a muggire… A uno dei primi villaggi di Ebrei (si chiamava allora Kyriat-Yearim), il carro con l’arca si fermò e per un certo tempo quell’oggetto tanto sacro e prezioso fu custodito sulla sommità della collina che sovrasta il paese (cfr. 1Sam 4,1-7,1; oggi vi sorge un Santuario dedicato alla Madonna Foederis Arca). Qualche tempo dopo il re David, che voleva portarla a Gerusalemme e costruire un tempio per custodirla, si reca in quel villaggio per prelevarla con una grande processione, solo che lungo il percorso, un tale che presumeva di sorreggerla perché gli sembrava che si ribaltasse, cade a terra e muore improvvisamente. Questo fatto getta il panico in tutta la processione, e l'Arca, anziché a Gerusalemme, viene fatta sostare a pochi chilometri dalla città santa, nella fattoria di un contadino che si chiamava Obed-Edom. Ed è a questo punto che la storia presenta analogie sorprendenti con la visita di Maria ad Elisabetta e getta luce su questo che si chiama giustamente “mistero” nel linguaggio cristiano (il secondo mistero gaudioso).
Ecco le analogie: prestate attenzione.
2Samuele 6
David si alzò e partì per Baalà di Giudea per far salire l'Arca di Dio
Lc 1,39-45.56
Maria si alzò e partì per la montagna verso una città di Giudea
Libro di Samuele
Il popolo accompagna David con grida di gioia
Vangelo di Luca
Elisabetta gridò a gran voce: Benedetta tu…
Libro di Samuele
David, davanti all’arca, si sente peccatore, indegno, ed esclama: A che devo che l'Arca del Signore venga da me?
Vangelo di Luca
Elisabetta esclama: A che devo che la Madre del Signore venga da me?
Libro di Samuele
Davide danzava e ballava pieno di gioia…
Vangelo di Luca
Il bambino – Giovanni – sobbalza nel grembo di Elisabetta
Libro di Samuele
L’incidente (di quell’uomo, morto per aver toccato l’Arca) convince David a farla sostare presso la fattoria di Obed-Edom… per quanto tempo?
L'Arca del Signore restò presso Obed-Edom tre mesi
Vangelo di Luca
Maria restò in casa di Elisabetta tre mesi…
A questo punto, quale può essere la conclusione da questo confronto? Maria è la vera Arca dell’Alleanza, la vera dimora di Dio tra gli uomini. Infatti lo porta nel suo grembo. Ecco come quei primi cristiani interpretavano il 2° Mistero Gaudioso: la visita di Maria ad Elisabetta.
DIO VISITA IL SUO POPOLO
Poi David portò l’Arca a Gerusalemme e quando suo figlio Salomone costruì il tempio fu collocata nella parte più sacra del tempio: il Santo dei Santi.
5 secoli dopo, allorché Nabucodonosor conquistò Gerusalemme e saccheggiò il Tempio, l’Arca sparì; non se ne seppe più nulla. Il popolo trasse la conclusione: «Dio ci ha abbandonato»... Un giorno il profeta Ezechiele vide una nube alzarsi dal Tempio e partire verso Oriente: anche Dio se n'andava in esilio con i deportati del suo popolo... (Ez 11,23). Ma non era un abbandono per sempre: i profeti Sofonia, Zaccaria, annunciarono che Dio sarebbe ritornato tra i suoi un giorno. “Rallegrati, figlia di Sion: il Signore sarà di nuovo in mezzo a te! Ecco che viene il tuo Re: mite, mansueto! Alzati, Gerusalemme, rivestiti di luce: la gloria del Signore brilla su di te!” (Sof 3,14.15; Zacc 9,9; Is 60,1).
Ed ora le promesse iniziano a compiersi: Maria ha offerto a Dio una dimora vivente – cioè la sua stessa persona - ed Egli può tornare ad abitare in mezzo al suo popolo. Per sempre. Perciò: Foederis Arca! Arca dell’Alleanza. Anzi, della nuova Alleanza (sapete che Gesù la sera dell’ultima cena stabilirà una nuova alleanza, offrendo il calice del vino che è in realtà il suo sangue). Nuova alleanza vuol dire: nuova, eccezionale ma discreta presenza di Dio tra gli uomini. Dio è in questo mondo e non l’abbandonerà mai più.
Ed è per questo che l'entrata di Maria nella casa di Zaccaria e di Elisabetta diventa «Visitazione»: questa parola, nel linguaggio biblico, definisce bene ogni intervento di Dio tra gli uomini; intervento di grazia — sempre — perché Dio non viene mai a mani vuote. E Zaccaria potrà cantare che Dio ha davvero visitato il suo popolo: “Benedetto il Signore, Dio d'Israele!”. Il fatto, piccolo e semplice, di Maria che arriva da Elisabetta all'alba del giorno della salvezza, può chiamarsi «Visitazione» perché così Dio inizia effettivamente la visita del suo popolo.
BENEDETTA LA SERVA DEL SIGNORE
Elisabetta fu piena di Spirito Santo: l’evangelista Luca ormai rilegge queste antiche tradizioni nella luce della Pasqua e della Pentecoste, per cui tutti gli attori di questi inizi sono animati dallo Spirito Santo; ecco quindi che Maria è riconosciuta e salutata come Madre del Signore: Signore è il titolo che i primi cristiani daranno a Gesù Risorto!
Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo.
Non è anzitutto un complimento a Maria: questo viene dopo. E' un proclamare l’opera generosa di Dio: è Lui che ricolma di grazia, di vitalità divina Maria, e il frutto del suo grembo. Perché è questo benedire.
Certo: è anche una specie di documento d’identità per Maria: lei è la benedetta fra tutte le donne. Ma quest'identità è tutta opera di Dio, solo Dio è protagonista. Il che è rimarcato anche dall'espressione che segue: benedetto il frutto del tuo grembo: molto delicata e molto appropriata: per la Bibbia, gli alberi sono fatti per portare frutti, ma appunto solo per portarli: è Dio che fa crescere e fa maturare i frutti. Il Messia Gesù, anche se germoglia da una radice della terra, è pur sempre dono di Dio anzitutto.
A che debbo che la madre del mio Signore venga da me? Qui Elisabetta è portavoce di tutto quell'affetto, di tutta quella venerazione che la prima comunità giudeo-cristiana nutriva verso la persona di Maria; la vedevano e forse la chiamavano così: La Madre del mio Signore, cioè di Gesù risorto in cui solo c'è salvezza. Si percepiva che era un dono la sua presenza, un vero onore che la Madre del Signore fosse qui, tra noi.
Ecco che appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino mi è sobbalzato di gioia nel grembo! I primi due capitoli di Luca (chiamati Vangelo dell’infanzia di Gesù) sono tutti attraversati da questo filone della gioia… Il commento più bello a questa gioia è quello che faceva S.Ambrogio quando predicava: «Elisabetta udì per prima la voce di Maria, ma Giovanni per primo sentì la grazia; la donna ha udito secondo l'ordine della natura, Giovanni invece (nel suo grembo) ha trasalito per il mistero; lei ha percepito l'arrivo di Maria, lui l'arrivo del Signore; la donna l'arrivo della donna, il bambino l'arrivo del bambino».
Notate che Maria non dice niente: sì, ha salutato Elisabetta, ma non si riferiscono le sue parole; parla soltanto Elisabetta, piena di Spirito Santo. Ed è in perfetta sintonia con tutto l'evento questo silenzio di Maria: Lei è colei che porta Dio, solo Arca dell’Alleanza, ma è Dio il vero attore, è il bambino nel grembo di Maria che, senza parole, suscita gioia e comunica con Giovanni. E' perfettamente naturale che Maria non faccia e non dica granché: lei è sempre, anche qui, la serva del Signore.
MARIA: COLEI CHE HA CREDUTO
E beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore.
Quindi Maria ha creduto. Notate però come suona un po' staccata questa affermazione: sì, è senz'altro Maria colei che ha creduto, e quindi «beata». Ma non si dice «Beata te che hai creduto...», ma «Beata colei che ha creduto». Perché? Cosa si vuol insinuare qui?
Che Maria, ancora e sempre, rappresenta l’intera comunità cristiana. Anche questo – colei che ha creduto – diventa qui un nome: uno dei nuovi nomi di Maria. E siccome il nome per la Bibbia dice l'identità della persona che lo porta, ecco che anche questo nome dice qualcosa di lei, della sua persona: sulla sua carta d’identità si potrebbe scrivere “colei che ha creduto”.
All'inizio dell'antica Alleanza c'era stato un credente: Abramo, padre della fede. All'inizio della nuova Alleanza, una credente: Maria. Lo farà notare poco dopo nel suo Cantico, il «Magnificat», quando porrà se stessa — povera serva del Signore —, in rapporto con Abramo: come aveva promesso ad Abramo e alla sua discendenza per sempre.
Bello anche qui il commento di s. Ambrogio (peccato che quando si predica sulla Madonna non si dicano più queste cose!”); diceva il santo Vescovo di Milano: «Anche voi siete beati, perché avete udito e avete creduto: ogni anima che crede, concepisce e genera la Parola di Dio e riconosce le sue opere. Che in ciascuno ci sia l'anima di Maria per glorificare il Signore, che in ciascuno ci sia lo spirito di Maria per esultare in Dio. Se corporalmente c'è una sola Madre di Cristo, secondo la fede Cristo è generato da tutti coloro che credono». Questa è la vigorosa e autentica devozione alla Madonna che l’antica tradizione cristiana ci tramanda: purtroppo in seguito è subentrato il devozionismo, che in gran parte dòmina ancor oggi (il devozionismo permette ai cristiani di sentirsi devoti della Madonna senza mai fare nessuno sforzo, nessun impegno per diventare migliori… e la loro fede così non matura mai, anzi, dorme). Se io dico a un cristiano “tu, se credi davvero nel vangelo, generi Gesù Cristo” (come diceva S.Ambrogio), quel cristiano mi guarda con tanto d’occhi… Eppure lo diceva lo stesso Gesù: “Chi ascolta la mia Parola e la mette in pratica è per me fratello, sorella e madre”. Madre! Capite? Ognuno può dare corpo, volto a Gesù Cristo con la testimonianza della sua vita.
UNO STATUTO DEL SERVIZIO CRISTIANO?
«Maria rimase con Elisabetta circa tre mesi, poi tornò a casa sua».
Furono tre mesi di servizio, ovviamente: Maria non è andata lì per fare la dama di compagnia, ma la serva. Dio, quando visita il suo popolo, non viene a mani vuote, dicevo: e la ricchezza dei doni si esprime nei gesti di servizio di chi ha creduto.
Ed è attorno a questo evento della Visitazione pertanto che possiamo cercare di costruire un modello, o uno statuto, del servizio in senso cristiano: in tutte le sue forme di ministero o di volontariato in cui trova espressione. Non dimentichiamo che colui che Maria porta in grembo un giorno dirà: “Io sono tra voi come colui che serve” (Lc 22,27).
Quali sono i connotati tipici del servizio cristiano?
Ed è tanto essenziale questo aver creduto come Maria e ritrovarsi perciò portatori di Dio, che se manca questo non c'è gioia: ci potrà essere gratificazione, ma non gioia vera, gioia della presenza di Dio.
L'esperienza della gioia e della benedizione in coloro che serviamo, non dipendono dalle nostre doti di giullari (che probabilmente non abbiamo); dipendono solo da Dio, presente in noi perché gli abbiamo creduto.
* Consapevoli che il «contenuto» (Dio) vale infinitamente di più del «recipiente» che lo porta (cioè io o noi). E quindi senza meravigliarci se eventuali complimenti sono indirizzati a Dio piuttosto che a noi. Anzi, nel caso fossero rivolti a noi, è meglio indirizzarli a Dio: «L'anima mia magnifica il Signore — «è Lui che si deve lodare. Non me».
Questo, mi pare, almeno a grandi linee, lo statuto del servizio cristiano, così come ci è testimoniato da Maria nella sua Visita ad Elisabetta.
C. La Donna dell'Apocalisse
Riflessione tenuta alla 4° Comparsa il 22 Agosto, Festa di Maria Regina dell'universo
Oggi (22 agosto) è l’Ottava dell’Assunzione di Maria (15 agosto). Giunta in cielo, secondo la tradizione cristiana, Maria sarebbe stata incoronata Regina del cielo e della terra.
Il giorno dell’Assunzione, all’Eucaristia, si proclama una lettura che lì per lì non è facile da capire, anche perché non se ne dà spiegazione. E poi quella lettura è tratta dall’Apocalisse: noi cattolici, quando si tratta della Bibbia, siamo ancora abbastanza incompetenti, inesperti; se poi si tratta dell’Apocalisse, che è l’ultimo libro della Bibbia (e del NT), è proprio come addentrarsi in una foresta inestricabile. Ebbene, non è giusto, perché l’Apocalisse è un libro scritto per incoraggiare e dare speranza, e visto che oggi è l’Ottava dell’Assunta, io vorrei cercare di spiegare e riflettere con voi proprio su quella prima lettura che abbiamo ascoltato quel giorno. Se la si è proclamata in una Festa della Madonna, vuol dire che in quella lettura c’entra Maria. Però non era completa la lettura che abbiamo ascoltato quel giorno, era solo una parte del capitolo 12: credo che per capire meglio val la pena ascoltarlo tutto, e quindi lo leggo.
Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle. Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto. Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna, che stava per partorire, in modo da divorare il bambino appena lo avesse partorito. Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e suo figlio fu rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fuggì nel deserto, dove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni.
Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme ai suoi angeli, ma non prevalse e non vi fu più posto per loro in cielo. E il grande drago, il serpente antico, colui che è chiamato diavolo e il Satana e che seduce tutta la terra abitata, fu precipitato sulla terra e con lui anche i suoi angeli. Allora udii una voce potente nel cielo che diceva:
«Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo, perché è stato precipitato l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte. Ma essi lo hanno vinto grazie al sangue dell’Agnello e alla parola della loro testimonianza, e non hanno amato la loro vita a tal punto da non saperla donare. Esultate, dunque, o cieli e voi che abitate in essi. Ma guai a voi, terra e mare, perché il diavolo è disceso sopra di voi pieno di grande furore, sapendo che gli resta poco tempo».
Quando il drago si vide precipitato sulla terra, si mise a perseguitare la donna che aveva partorito il figlio maschio. Ma furono date alla donna le due ali della grande aquila, perché volasse nel deserto verso il proprio rifugio, dove viene nutrita per un tempo, due tempi e la metà di un tempo, lontano dal serpente. Allora il serpente vomitò dalla sua bocca come un fiume d’acqua dietro alla donna, per farla travolgere dalle sue acque. Ma la terra venne in soccorso alla donna: aprì la sua bocca e inghiottì il fiume che il drago aveva vomitato dalla propria bocca. Allora il drago si infuriò contro la donna e se ne andò a fare guerra contro il resto della sua discendenza, contro quelli che custodiscono i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù. E si appostò sulla spiaggia del mare.
Siamo alle prese con l'Apocalisse: è come muoversi su di un terreno sconosciuto e inesplorato con tutte quelle immagini stravaganti che si susseguono. Si tratta di simboli e i simboli si adoperano per dire quelle cose importanti, grandiose, per le quali le parole solite non bastano. La chiave di lettura per capire l’Apocalisse deve tener presente che qui si guarda la Chiesa, il Popolo di Dio, da due punti di osservazione diversi: il primo è quello di questo mondo, con la sua storia (anche quella dei nostri giorni) e l’altro è quello del Cielo, il Paradiso di Dio. Un conto è guardare ciò che accade da quaggiù, mentre si cammina in questo mondo, altro conto è guardarle da lassù, il Paradiso di Dio. Queste due prospettive si alternano continuamente nell’Apocalissse, si mescolano addirittura. A guardare la Chiesa, i cristiani, dalla prospettiva di questo mondo, spesso ci sarebbe da scoraggiarsi, da avvilirsi; a guardare dalla prospettiva del Cielo di Dio è sempre possibile riprendere speranza, fiducia e coraggio per convertirsi e diventare più fedeli al Signore. Sono 2000 anni che è così.
UNO SGUARDO ALL’APOCALISSE
E’ fatta di 22 capitoli l’Apocalisse (qui siamo al capitolo 12, cioè più o meno a metà). Nella prima metà ci sono sette lettere dettate da Gesù Risorto all’apostolo Giovanni e indirizzate a sette Comunità cristiane dell’Asia Minore (lettere molto belle, tra il resto). Poi, sempre nella prima metà del libro, si comincia a raccontare la grande lotta tra il bene e il male … e la si racconta più e più volte durante tutto il libro, con immagini, segni e simboli sempre nuovi e diversi, perché quella lotta durerà fin che dura il mondo, anche se – ed è questo uno dei bei messaggi dell’Apocalisse – in quella lotta ha già vinto il bene, cioè Gesù, crocifisso e risorto.
Non ho alcuna intenzione di spiegare tutta l’Apocalisse (anche perché dovremmo star qui una settimana!). Mi fermo solo alla pagina che ci interessa, quella con cui c’entra la Madonna. Vi dicevo che si descrive la lotta tra bene e male con il linguaggio delle immagini, dei segni. Eccoli qui i primi due: la donna e il drago.
Fermiamoci al primo: la donna vestita di sole. Chi è questa donna? La lettura di questa pagina nella Festa dell’Assunzione di Maria porta a pensare che sia senz’altro la Madonna, la Madre di Gesù. E anche il modo di raffigurarla come Immacolata (penso ai quadri che ci sono nel Santuario), con la corona di 12 stelle, la luna e il serpente sotto i piedi, porta a questa conclusione: sì è giusto dire che è Maria quella donna dell’Apocalisse, ma è ancora più giusto dire che prima che Maria, quella donna rappresenta qualcos’altro o meglio molti altri: chi? Cercate di seguirmi. Vi dicevo che bisogna procedere adagio e con pazienza. Per capire, occorre avere gli strumenti per capire, e allora qui occorre fare una premessa, che è questa.
E’ un libro strapieno di simboli, vi dicevo, e quando dico simboli intendo quegli strumenti (gesti, immagini, cose) che ci aiutano ad esprimere quello che con le sole parole non riusciamo ad esprimere. A una persona cara o amica che soffre voi fate un abbraccio, e quell’abbraccio magari stretto e prolungato, dice molto più che le parole: ecco il valore dei simboli.
Nell’Apocalisse i simboli sono di diversi tipi:
Ci sono i simboli biblici (presi dai libri dell'AT)
Ci sono i simboli cosmici (terremoti e sconvolgimenti cosmici)
Ci sono i simboli animali (cioè si mettono in scena animali come protagonisti, reali come i cavalli, oppure fantastici come i draghi)
Ci sono i simboli aritmetici (fatti con i numeri, e li vedremo tra poco)
E ci sono i simboli cromatici (cioè fatti di colori, qui per esempio si parla di un drago di colore rosso).
In questo capitolo che ho letto ci sono tutti questi simboli. Mi soffermo a chiarire alcuni particolari.
— Era incinta questa donna e gridava per le doglie e il travaglio del parto. Che parto sarà? Vedremo dopo. Per adesso la scena è messa da parte perché ne subentra un'altra: un enorme drago rosso, ecco l’altro segno che apparve nel cielo. Nell’antichità, nelle culture del Medio Oriente, si parlava spesso di draghi e di mostri. Un po’ più avanti lo si descrive meglio: Il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo, il satana, e che seduce tutta la terra abitata (v. 9). Perchè rosso? Il rosso è il colore che simboleggia il sangue: l’indole del diavolo, del satana, è un’indole sanguinaria e crudele: è un sanguinario il Maligno.
Le sette teste con i sette diademi significano pienezza di poteri e sovranità su tutto e su tutti (7 è il numero perfetto).
Le dieci corna indicano una grande forza, una possibilità di nuocere e fare del male che è sì spaventosa, però non illimitata: è contenuta («dieci» è inferiore a 12). La sua coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo: è un’immagine che troviamo anche nei profeti: le stelle che cadono indicano i credenti poco saldi nella fede, facili vittime del compromesso e dell'errore (8,10).
Il frutto del parto della donna, quel frutto che il drago si apposta per divorare, è un figlio maschio destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro.
E' il Messia questo frutto partorito dalla donna. Tuttavia, appena nato, fu subito rapito verso Dio. Con queste parole si allude all'ascensione di Gesù al cielo, dopo la sua Pasqua di risurrezione. Allora il parto di quella donna probabilmente non si riferisce al Natale, alla notte di Betlemme; si riferisce a un altro evento, subito dopo il quale quel figlio è rapito verso Dio e verso il suo trono. Che evento sarà? Un attimo di pazienza ancora, tra poco lo vedremo. Intanto seguiamo la vicenda di questa donna:
…lei fuggì nel deserto, sulle due ali della grande aquila si dirà poco dopo, verso un rifugio preparatole da Dio per esservi nutrita per milleduecentosessanta giorni, o, detto in altri termini, per un tempo, due tempi e la metà di un tempo. Non siamo a livello di settimana enigmistica o di cruciverba, non temete: la spiegazione sarà più semplice di quello che si pensa.
Il deserto è un altro simbolo molto ricorrente nella Bibbia: è il luogo della prova ma anche delle relazioni amorose tra Dio e il suo popolo; e inoltre è luogo di rifugio e protezione per gente perseguitata come Mosè, come il popolo fuggito dall’Egitto, come il profeta Elia (tra il resto, poco prioma del 70 dopo Cristo, in previsione che Gerusalemme sarebbe stata distrutta dai Romnani, la prima Comunità cristiana era fuggita e si era rifugiata nel deserto di quel che oggi si chiama la Giordania).
Le ali della grande aquila dalle quali è portata questa donna denotano l'intervento di Dio in questa avventura: Io vi ho portato fuori dalla schiavitù su ali di aquila dice il Signore al suo popolo liberato dall’Egitto (Es 19,4).
E il nutrimento che la donna trova nel deserto, non può essere che la manna. Ma siccome è l’evangelista Giovanni che scrive, la manna per lui è simbolo del Pane vivo disceso dal cielo, cioè l'Eucaristia: il nutrimento della donna nel deserto è l'Eucaristia.
Rimane nel deserto per un periodo di milleduecentosessanta giorni: se fate il calcolo, trovate che sono tre anni e mezzo. Si dice anche per un tempo, due tempi e la metà di un tempo: ancora tre anni e mezzo. Tre anni e mezzo sono la metà di sette (sette è il tempo che non finisce mai; tre e mezzo è un tempo limitato: è il tempo della prova, che può essere lunghissimo, estenuante, ma non è eterno, non dura sempre, a un certo punto finisce).
Intanto, in stretta sintonia con la nascita di quel figlio maschio subito rapito verso il cielo, è avvenuto qualcosa di assolutamente importante e decisivo: una guerra scoppiò nel cielo. Il drago fu precipitato sulla terra ad opera di Michele e dei suoi angeli. (Michele, già per gli ebrei ma poi anche per i cristiani, è il grande arcangelo che difende i cristiani, il popolo di Dio).
E allora si sprigiona un canto potente nel cielo: Ora si è compiuta la salvezza.... Notate: ORA, con l'ingresso di quel figlio nel cielo; ORA che satana è stato precipitato. E' stato vinto dai nostri fratelli, i martiri, ma è il sangue dell'Agnello che l'ha sconfitto. Il sacrificio di Gesù sulla Croce e la sua risurrezione la mattina di Pasqua hanno segnato la sconfitta definitiva del Maligno, del satana, del serpente antico.
E’ stato precipitato sulla terra, colpito a morte, ma proprio per questo pieno di grande furore: particolare interessante questo; perché il diavolo è pieno di grande furore? Perché il suo ambito di influenza è stato ridotto (alla terra, solo alla terra), e poi perché è sconfitto a morte e gli resta poco tempo: qui dietro c’è proprio l'immagine dell'uccisione di un serpente; vi è mai capitato di uccidere una vipera mentre andate in montagna? un serpente colpito alla testa poi muore, ma prima di morire si divincola in maniera furiosa e disperata. Quando ci capita di vedere a questo mondo i misfatti, i crimini del Maligno, sì… è lecito restarne turbati, ma poi richiamiamo questa convinzione di fede: anche se queste espressioni dovessero durare quanto dura la storia del mondo, sono manifestazioni furiose di uno sconfitto che sa di aver già perso in maniera definitiva.
Contro la donna non può far nulla perché è protetta da Dio nel deserto. Allora il drago, visto che alla donna non può più fare del male, se la prende contro il resto della sua discendenza, cioè contro quelli che osservano i comandamenti e la testimonianza di Gesù, cioè i cristiani.
Si fermò sulla spiaggia del mare: da lì emergerà con nuove configurazioni «bestiali» per tentare di sedurre il mondo.
PASQUA: L'ORA DEL PARTO
A questo punto, torniamo alle domande: Di chi si parla qui? Cosa si vuol insinuare? Chi è quella donna?
La sensazione è che qui ci sia come un concentrato della storia, delle vicissitudini, delle tribolazioni vissute dal popolo di Dio, la Chiesa, le Comunità cristiane.
Quella donna, infatti, rappresenta il popolo di Dio. Questo accostamento l’abbiamo già fatto parlando della vocazione di Maria, della sua visita ad Elisabetta (e se potremo leggere in futuro altre pagine evangeliche che parlano di Maria lo troveremmo anche in quelle): figlia di Sion, popolo di Dio, ve l’ho fatto notare più volte: i profeti della Bibbia parlano del popolo di Dio come di una donna, una sposa… E paragonano i giorni che precedono l’arrivo del Messia (giorni difficili, penosi) alle sofferenze, alle doglie del parto. Il profeta Michèa (7 secoli prima di Cristo) diceva: “Contòrciti, grida, gemi, Figlia di Sion, come una partoriente” e si riferiva al popolo di Dio (4,10).
Quando avverrà questo parto? L’evangelista san Giovanni, la sera dell’ultima Cena (quindi appena prima della Passione e della Croce) mette queste parole sulle labbra di Gesù: “Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia. La donna quando partorisce è afflitta perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino non si ricorda più dell'afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così sarà anche per voi... (Gv 16,20-22).
La Pasqua di Gesù, fatta di Passione — Morte — Risurrezione — Ascensione, è quest'ora del parto.
La comunità dei discepoli sarà come una donna nel dolore del parto; ma dopo la risurrezione si rallegrerà, come la donna felice per la nascita del bambino. Per Giovanni la prima comunità ebreo-cristiana è la madre di quell'uomo nuovo che è Gesù Cristo risorto.
«A Pasqua si è giocata la storia del mondo; ciò che segue dopo nel corso della storia è solo conseguenza di ciò che nella Pasqua è già accaduto». “Ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori” aveva detto Gesù prima della sua Passione (Gv 12,31). E' stato precipitato l'accusatore dei nostri fratelli — si canta nell'Apocalisse.
NELLA STORIA, CON FEDE E CON SPERANZA
Ecco perché l'Apocalisse è un grande messaggio di speranza, una liturgia del Cielo che celebra la vittoria di Dio sul Male, nonostante le apparenze contrarie che a volte sembrano voler dire che non è così. Sì, invece è proprio così.
La donna dell’Apocalisse è la Chiesa, e in quelle dodici stelle possiamo vedere ben rappresentate tutte le comunità cristiane che fanno la Chiesa: dodici, che non vuol dire dodici di numero, ma tutte, anche le nostre, già realizzate in pienezza: fanno corona infatti.
Dio vede la Chiesa già nella sua pienezza; sì, noi la vediamo piena di difetti, di peccati… ma Dio non smette mai di purificarla, di farla bella, e se questa Chiesa della quale facciamo parte anche noi può permettersi di non scoraggiarsi di fronte agli eventi, agli sconvolgimenti che accadono nella storia (anche la storia del nostro tempo) è perché Dio ha posto la luna (cioè il tempo) sotto i suoi piedi. Tutto passa. Quella donna rimane.
Il suo compito è sempre quello di partorire Cristo, con doglie e travaglio. E qui mi rifaccio alla predica del Vescovo la sera del 14 Agosto alla Messa della Comparsa: il bene che si fa a questo mondo, che si vede oppure che resta nascosto, il bene apprezzato come il bene incompreso, magari limitato e in apparenza poco consistente, questo bene appartiene davvero a Cristo: è frutto di quel parto che viene portato accanto a Dio... e nessuna forza umana o diabolica riuscirà ad intaccarlo e a rovinarlo. E se vivere, per la Chiesa, è come trovarsi nel deserto, non viene meno quel cibo che solo Dio nel deserto può offrire: la sua Parola e l'Eucarestia. E allora si può vivere anche nel deserto.
Nel frattempo l'ostilità del Maligno continua: se non è contro la Chiesa — difesa e protetta da Dio — è contro i suoi figli, il resto della sua discendenza. Noi preti siamo soliti valutare le difficoltà e le sofferenze della Chiesa, ma spesso ignoriamo la lotta che molti cristiani, anonimi e sconosciuti, devono affrontare nella loro storia personale. E a volte sono difficoltà e prove inimmaginabili.
Però tutto questo accade nel frattempo, appunto — quel frattempo che intercorre tra la Pasqua e il compimento finale: milleduecentosessanta giorni. Tutto ciò nel piano di Dio non è che un po' di tempo; per noi no, per noi il tempo della prova spesso sembra non finire più… E’ qui allora che, come cristiani, facciamo l’esperienza di una certa tensione che però non dobbiamo mai smorzare: se diamo peso solo alla vittoria di Dio sul Maligno, finiamo con l’evadere dalla realtà e col vivere nelle nuvole; se invece diamo importanza solo all’azione furiosa del Maligno colpito a morte e vediamo solo quella, allora cadiamo nella disperazione. No: la fede cristiana deve rimanere «tensione», deve radicarsi nella vittoria pasquale di Gesù e, nello stesso tempo, star dentro la storia di questo mondo, anche se è contorta e caotica.
MARIA AL CENTRO DELLA LOTTA
E cosa c'entra la Madonna con tutto questo?
Voi direte: “Questo qui oggi ha parlato di tutto tranne che della Madonna”. In parte forse avete ragione: se vogliamo restare fedeli a quello che l’Apocalisse afferma, la donna di cui parla è anzitutto la Chiesa. E la Madonna c’entra oppure no?
C’entra eccome! L’immagine della “Figlia di Sion” così familiare ai primi cristiani – e agli evangelisti Luca e Giovanni – per indicare Maria, fa da sfondo anche a questa scena così movimentata dell’Apocalisse. E’ impossibile che Giovanni nel parlare di quella donna vestita di sole e madre del Messia Gesù non abbia pensato anche a Maria: è a lui che Gesù l’aveva affidata mentre stava morendo sulla Croce. Maria era l’inizio di quella Chiesa che Gesù dà come Madre a ogni discepolo e che affida a ogni discepolo perché se la prenda a cuore.
Si ha qui insomma quell’esperienza che nell’ambito fotografico si chiama sovrimpressione e consiste nel mettere una sopra l’altra due immagini stampate su carta trasparente in modo che la prima – sotto – coincide con la seconda (sopra), e questa a sua volta completa e arricchisce la prima che sta sotto. E’ così anche per Maria e la Chiesa, o per la Chiesa e Maria. Al punto che una devozione alla Madonna senza amore per la Chiesa è una falsa devozione, poco o niente cristiana; e un amore per la Chiesa senza devozione alla Madonna è freddo e povero di vera sensibilità.
Il Beato Antonio Rosmini (l’avrete sentito nominare ancora) quand’era Parroco a Rovereto nel 1835, predicava così: «Madre amorosa, è per noi quella Chiesa cattolica, o fratelli miei, che con le acque del Battesimo ci ha partoriti alla vera vita, e ci nutre col latte e col pane della Parola di Dio; e Madre anch’essa pienissima d’amore è Maria, che dando alla luce il nostro fratello primogenito Gesù, nel quale siamo tutti figli di Dio, se stessa e noi generò e partorì con la potenza dello Spirito santo... Come la Chiesa è Madre di Gesù in noi, così Maria, la Madonna, è Madre nostra grazie a Gesù» che ce l’ha donata. Ecco la vera, cristiana devozione a Maria.
Cosa dà di nuovo questa pagina dell’Apocalisse alla nostra devozione alla Madonna?
La convinzione che Maria, la Madre di Gesù e dei fratelli di Gesù, non è una creatura in provetta o sotto una campana di vetro, non ha il suo habitat in un ambiente asettico, lontano dalle tribolazioni, dalle grane e dai problemi; è splendida di tutto lo splendore di Dio, ma ciononostante rimane umana, capace di soffrire e di gridare. Nella sua lettera enciclica dedicata alla Madonna, il Papa san Giovanni Paolo II afferma: «Maria sta al centro stesso di quella lotta che accompagna la storia dell'umanità sulla terra e la storia stessa della nostra salvezza» (Redemptoris Mater).
Al centro della lotta, notate bene: credo che dovremo imparare a sentirla così la Madonna: più addentro, più al centro di tante lotte che caratterizzano la vita della Chiesa e dei cristiani sulle frontiere della giustizia, della promozione umana, della difesa della vita, della cura delle malattie, della ricerca della pace: tutti ambiti nei quali è necessario portare verità, partorire ancora Gesù Cristo. E forse questo ci aiuterà anche ad essere Chiesa così,tutti quanti, al centro della storia, là dove si attende che diventi visibile quella vittoria che il Signore con la sua Pasqua ha già ottenuto una volta per sempre.
* * *
2. Inflazione di apparizioni?
E' un lettore del settimanale diocesano a porre questa questione:
...mi chiedo spesso in questi giorni a cosa sia dovuto questo rinnovato interesse rispetto al tema della apparizioni della Madonna (penso anche al successo della rivista dei Paolini “Maria con te”), nonostante la prudenza con cui il Papa affronta questi fenomeni come si è visto nel caso di Mediugorje. Anche in Pinè quest’anno si ricordano le apparizioni di 290 anni fa, ma a me sembra che alla sensibilità moderna e anche a quella dei nostri figli parlare di apparizioni sia piuttosto controproducente, nel senso che c’è molto scetticismo verso la verità storica e anche verso un certo devozionismo.
Il Rettore risponde:
Quello cui si riferisce il lettore è sintomo di un fenomeno che travalica l’ambito religioso; non facile da valutare del resto, anche perché non solo la teologia, ma anche altre scienze umane avrebbero qualcosa da dire al riguardo. La frequenza di “apparizioni” nel Cristianesimo, tuttavia, non dovrebbe meravigliare troppo: è una “fede storica”, non solo nel senso che ha visto la luce nel corso della storia e in una cultura ben precisa, ma anche perché ritiene che il Trascendente stesso ha scelto di abitare la storia, animandola di ideali e valori che la rendano via via più umana, o quantomeno le evitino il rischio di retrocedere a “giungla”.
Non spetta alla Chiesa peraltro rendere autentiche le apparizioni; essa si limita a dichiarare credibili quelle che – per le modalità e per i messaggi che trasmettono – sono in perfetta sintonia con il Vangelo di sempre. Ma il Vangelo, lo si sa, non di rado rischia di venire dimenticato o, se non altro, di passare in second’ordine: è allora che le apparizioni ritenute credibili sollecitano i cristiani a darsi una mossa, a ritrovare coerenza, a convertirsi al vangelo in una parola. La patente di credibilità data dalla Chiesa, tuttavia, non ha alcun valore dogmatico: a quelle apparizioni si può credere, se ne possono trarre vantaggi preziosi, ma non vi è alcun obbligo di ritenerle autentiche.
Il fenomeno è comunque complesso, al punto da non sfuggire al rischio d’ambiguità: che “anche Satana possa mascherarsi da angelo di luce” è un dato di fatto quantomeno fin dai tempi di san Paolo (sono parole sue: 2Cor 12,14). Gli astuti, abili a trarre profitto anche da fenomeni solo in apparenza religiosi, non sono mai mancati né mai mancheranno. In genere, tuttavia, non è necessario troppo tempo per smascherarli.
Ma perché tali fenomeni – veri o presunti che siano – abbondano proprio in quest’epoca? Si direbbe che certa religiosità, cacciata rumorosamente dalla porta alcuni decenni or sono, stia rientrando stranamente dalla finestra. Cos’è mai accaduto? Cause e motivazioni hanno radici che risalgono quantomeno nell’epoca dei “lumi” (illuminismo). Non è questo il luogo di disquisizioni troppo approfondite, basti dire che se la cultura biblica riteneva che la persona avesse quale unico centro il “cuore” (inteso come sede simbolica sia di pensiero e di ragionamento, sia di sentimento e di volontà), in Occidente quel centro è stato spezzato in due: cervello (sede di raziocinio, pensiero, progettualità) e cuore (simbolo di affettività, sentimenti ed emozioni). L’illuminismo ha privilegiato a tal punto la capacità razionale dell’uomo (il cervello, con le sue tipiche competenze e abilità) da misconoscere e ridicolizzare come retrogrado tutto ciò che riguarda il sentimento, l’affettività, l’emotività, la volontà stessa (il cuore in una parola). Le apparizioni, con quel comune denominatore di messaggi che parlano di vicinanza divina compassionevole, di condiscendenza e tenerezza materna o amica, di conversione come scelta di volontà, fanno pensare a “interventi divini d’emergenza” in soccorso di una dignità umana ridotta a puro raziocinio, e pertanto impoverita e in progressivo degrado. E’ nota l’affermazione di Pascal a tale riguardo: “Il cuore conosce delle ragioni che la ragione non conosce”. Le immani atrocità che hanno insanguinato il secolo scorso non sono che l’estremo risultato di una razionalità assoluta e tirannica (dov’era finito il cuore?); da qui il conseguente crollo delle ideologie e la diffidenza nei confronti di ogni dogmatismo astratto (anche in ambito religioso).
Ma val la pena - per reazione - affidarsi in maniera acritica a ogni fenomeno anormale? La presunzione che privilegia o assolutizza la dimensione razionale, che rifiuta o sorride quantomeno di fronte al fenomeno “apparizioni”, non s’è ancora esaurita, ma tuttavia già si va ridimensionando (la vera scienza, dal canto suo, non teme di riconoscere i suoi limiti); nella cultura e nell’esperienza umana invece tale presunzione va …zoppicando: prova ne siano le espressioni di plagio (in ambito esoterico, oltre che religioso, e perfino politico) di cui cadono facilmente vittime individui che pure si gloriano di eccellere per razionalità e atteggiamento critico.
Papa Francesco, doverosamente prudente e personalmente critico, com’è noto, verso il fenomeno Medjugorie, non poteva esimersi dal prendere provvedimenti “pastorali” in un ambito che vede comunque autentiche manifestazioni di fede, né dal consentire un degno svolgimento di pellegrinaggi, a prescindere da qualsiasi riconoscimento sui veri o presunti fatti che sarebbero all’origine del fenomeno. Tutto ciò è interessante: conferma, se non altro, che – se spetta al Magistero ecclesiale il compito di discernere il vero dal falso nelle apparizioni – tutto il popolo di Dio dal canto suo possiede un “senso di fede” che può trasformare un luogo in "serbatoio" privilegiato di spiritualità cui dare un proprio apporto e da cui attingere a propria volta. E questo a prescindere dal credere o meno a ciò che può esservi accaduto alle origini. (Il che, se pure in misura minore, vale anche per Pinè: nonostante deposizioni credibili e verbalizzate in processi canonici, il fenomeno apparizioni non ha mai avuto un riconoscimento ufficiale da parte del Magistero della Chiesa; la sua credibilità è legata da un lato all’assidua partecipazione di Vescovi diocesani e della regione Triveneta a particolari eventi del santuario, e dall’altro all’ininterrotto affluire di pellegrini. Tutto ciò, in ogni caso, non consente di relegare a dato archeologico o a pura suggestione quanto accadutovi 290 anni fa’. Se l’autenticità di Pinè non ha avuto alcun riconoscimento “cartaceo”, l’ha certamente avuto di fatto!).
Al lettore, che si chiede se non sia controproducente parlare di apparizioni ai figli, posso rispondere così: se ho occasione di parlare di fede con un adolescente o un giovane, non comincerò dall’argomento “apparizioni”: vi è una gradualità d'importanza anche nell’annuncio, oltre che nell'esperienza cristiana. Ma soprattutto lo solleciterò ad armonizzare cervello e cuore, sia nell’esperienza di fede che nella vita, per non ritrovarsi domani una personalità ridotta in dignità e alquanto impoverita.
* * *
Riflessione tenuta alla 4° Comparsa il 16 Luglio, Festa della Madonna del Monte Carmelo
Dal Vangelo di Luca
L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.
(1, 26-38)
«Vangelo dell'Annunciazione» viene definito questo brano di Luca, da qui il «mistero dell'Annunciazione» (il 1° mistero gaudioso) e la «festa dell'Annunciazione del Signore» (25 marzo); la Liturgia preferisce chiamarla «Annunciazione del Signore» anziché «annunciazione di Maria», ma sempre di annunciazione si tratta.
Il che può far pensare a un modo di agire divino che consiste nell'informare gli uomini a cose fatte, o quanto meno, a cose già decise, già avviate. Gli attori allora entrano nel progetto come «comparse», come figure di secondaria importanza. Invece non è così.
Il titolo esatto di questo evento in realtà non è «annunciazione», ma “vocazione”, la vocazione di Maria. E' questa la parola adatta al ruolo attivo che ha Maria in tutto questo dialogo, e in tutto quello che seguirà.
E che si tratti proprio di vocazione, lo si vede dal confronto con esperienze simili riportate dalla storia sacra dell'A.T. (che a noi, forse, sfuggono ma che l’evangelista Luca conosceva bene). Queste esperienze di vocazione seguono tutte uno stesso stile.
Sembrano una rappresentazione in tre atti:
1° atto: apparizione dell'angelo che saluta il destinatario del suo messaggio, il quale si spaventa, si turba
2° atto: l’angelo comunica il messaggio — il destinatario fa obiezioni o fa presente le sue difficoltà
3° atto: l'angelo spiega, chiarisce meglio il messaggio e attende il consenso del destinatario.
NelIa vocazione di Maria ritroviamo la stessa sequenza di momenti, gli stessi tre atti. Questo ci deve mettere in guardia dal considerare come cronaca di giornale certi particolari del racconto. Più che considerarlo una storia esatta è importante comprendere il messaggio che ci sta dietro.
Non è un evento isolato: fa parte di un contesto. E il contesto è dato dall'azione di Dio che ha già coinvolto altri credenti: Zaccaria ed Elisabetta, per esempio. Infatti si parla del “sesto mese” della gravidanza di Elisabetta.
Se il vangelo lo si legge adagio invece che di corsa, allora è molto bella anche l'introduzione: sembra l'inizio di un film, che parte con una visuale molto ampia per poi concentrarsi su un particolare: prima la Galilea (la regione) — poi Nazaret (un villaggio di questa regione) — poi Maria (una ragazza di questo villaggio). Notate: per due volte si dice che è vergine: «a una vergine, sposa di un uomo... - il nome della vergine era Maria». L’evangelista Luca insiste su questo.
Perché turbarsi?
Parlavo di una specie di rappresentazione in tre atti.
Il saluto dell'angelo e il turbamento di Maria è il primo atto. Maria fu turbata a queste parole — profondamente turbata: perché? di che saluto si tratta?
«Ave, Maria, piena di grazia, il Signore è con te» dice l'antica versione che è diventata preghiera. «Ti saluto, Maria»: in tutte le lingue moderne l'Ave Maria comincia così. Ma se si tratta di un saluto, perché stupirsi? Perché spaventarsi? Luca scriveva in greco, e in greco la prima parola dell’Angelo è chaire! Che non vuol dire «buon giorno» o «salve» o «ave». Vuol dire esattamente rallegrati, gioisci. E perché allora Maria si turba invece che essere contenta?
Perché questo strano invito (“rallegrati – gioisci”) viene dalla Bibbia, erano i profeti a parlare così…
Sofonia per esempio – 5 secoli prima di Cristo – gridava alla popolazione di Gerusalemme: “Rallegrati, figlia di Sion! Gioisci, figlia di Gerusalemme!”. E perché? Perché “Il Signore è in mezzo a te!” (3,14). Parlava a un popolo povero, provato, scoraggiato… Dio tornava ad essere «Signore» in mezzo a quel popolo: iniziava il tempo della consolazione, della salvezza finalmente.
Stesso invito nel profeta Zaccaria (9,9): “Viene il tuo Re, umile, a cavallo di un'asina. Rallegrati, figlia di Sion!”. E chi è questa «figlia di Sion»?
E' quella parte del popolo, quel resto fatto di poveri che però contano solo sul Signore, conservano a ogni costo la fiducia in Lui e aspettano che realizzi le sue promesse…
«Figlia di Sion» quindi è una personalità simbolica e femminile, che comprende tutti i poveri che confidano unicamente nel Signore.
Ora, se l'angelo si rivolge a Maria dicendole “rallègrati”, vuol dire che per Luca è Maria di Nazaret la «figlia di Sion». Meglio ancora: Maria non è solo una ragazza di Nazaret (sconosciuto villaggio della Galilea); Maria è la personificazione di tutto quel popolo di Dio che crede e attende in umiltà. Maria insomma ha un ruolo rappresentativo, fin dall’inizio della sua avventura con Dio. E questo è un aspetto che ci impedisce di considerarla lontana e isolata da noi (come troppo spesso si è fatto in passato e anche oggi a volte): no, anche nella sua vocazione Maria ha a che vedere con noi e con tutti i credenti come noi perché ci rappresenta tutti.
E – pensate che bello! - è dalla gioia che inizia la Storia della nostra Salvezza, con un invito alla gioia. Gerusalemme — la figlia di Sion dei profeti — aveva solo un ruolo passivo (era «il Signore in mezzo a lei» il motivo della sua gioia); Maria, la «vergine figlia di Sion» invece ha un ruolo attivo: c'è bisogno della sua adesione, del suo “sì”, perché quella gioia si realizzi e diventi la gioia di tutti.
«Rallégrati, piena di grazia» si sente dire dall’Angelo. Piena di grazia sono tre parole, ma nel testo originale (greco) è una parola sola, che diventa quasi un nome, il nuovo nome di Maria: ora per il popolo della Bibbia, il nome esprime la tipicità della persona che lo porta. Maria è già stata colmata da quel dono di grazia eccezionale che Dio vuol fare a tutti gli uomini. Lei ne è già stata colmata perché dovrà diventare la madre del Messia Gesù.
La Chiesa userà altre parole per dire questo: parlerà di lei come dell’ “Immacolata concezione”.
Una missione possibile solo se “il Signore è con te”
«Il Signore è con te» è la conclusione di questo breve saluto che stupisce Maria, e che poi si chiarisce meglio nel dialogo che segue. Se piena di grazia è la sua identità già da sempre, già reale, il Signore è con te apre lo sguardo sul futuro: il Signore è con te perché c'è bisogno che Egli sia con te, perché ciò che ti viene richiesto non è possibile se non c'è Lui.
Per Maria, infatti, non si tratta solo di diventare madre — esperienza normale, di natura — ma di diventare madre rimanendo vergine: questo è possibile unicamente se «il Signore è con te».
Fin qui il saluto. «Maria ha trovato grazia» perché il figlio che concepirà e darà alla luce è destinato ad essere «grande»: non grande secondo la logica di questo mondo, ma grande in assoluto: Figlio dell'Altissimo. Al che Maria esprime la sua perplessità: Come avverrà questo, dato che non conosco uomo?
Questa affermazione ha bisogno di essere spiegata: non conosco uomo non vuol dire che Maria avesse fatto voto di verginità (era inconcepibile per gli Ebrei di quel tempo), esprime piuttosto uno stato d'animo, un orientamento, un desiderio di verginità come situazione di vita.
Come è possibile allora conservare questo orientamento e nello stesso tempo diventare madre del Messia?
«Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo». Ecco cosa comporta il fatto che il Signore è con te. ****
Anche Elisabetta, anche Zaccaria, e il vecchio Simeone e Anna, saranno coinvolti dallo Spirito Santo.
E quella «potenza dell'Altissimo che ti coprirà con la sua ombra», fa pensare alla nube che accompagnava gli ebrei nel deserto, li proteggeva dal sole, ma soprattutto era garanzia della presenza di Dio (Es 40,35). Maria con tutta la sua persona sarà dimora della nuova presenza di Dio tra gli uomini: «arca della nuova Alleanza», ce lo farà notare Luca in occasione della visita ad Elisabetta.
Vergine e Madre per la potenza di Dio quindi: due dati apparentemente e umanamente contraddittori, che però sono a fondamento di tutto il messaggio cristiano: quel messaggio che – come dirà san Paolo - è follia e stoltezza per i sapientoni di questo mondo.
Vergine e Madre: perché?
Questo dato di Maria come vergine e madre è sempre stato difficile da credere, fin dagli inizi del Cristianesimo. Gli Ebrei che rifiutarono Gesù, misero in giro la calunnia dell’adulterio: Gesù sarebbe nato dall'unione segreta di Maria con un legionario romano di nome «Panthera»; ma siccome il diavolo insegna a far le pentole ma non i coperchi, si scoprì ben presto che si trattava di una calunnia inventata: “Panthèra” è l’anagramma di “parthénos” che in greco vuol dire “vergine”.
Sempre ci fu chi ha trovato difficile o impossibile credere che Maria è vergine e madre insieme. Nella nostra epoca ancora di più, perché l’uomo d’oggi (spesso ateo o scettico) fa fatica ad accettare il miracolo, l'intervento straordinario di Dio; come fa fatica ad accettare la verginità come valore: no, spesso la considera un handicap, un limite.
Purtroppo, nel recente passato, si è insistito esclusivamente sull'aspetto corporeo, biologico della verginità di Maria; non ci si è preoccupati di far capire il suo senso, il suo perché.
No, la verginità di Maria non l’hanno inventata gli evangelisti: l'hanno trovata come un dato di fatto nella fede della prima Comunità cristiana, e si sono preoccupati di tramandarla per iscritto senza tradirne il mistero. Non stupitevi se sentirete dire da qualcuno (magari alla TV) che si tratta di un mito invece che di una realtà vera e che in tanti miti dell’antichità si parla di “nascita prodigiosa da una ragazza vergine” perché un dio si era unito con lei. Niente di tutto questo nel concepimento verginale di Gesù. Ciò che avviene in Maria non è una generazione, ma una nuova creazione. E la creazione è competenza di Dio, solo di Dio.
Però la domanda è legittima: perché Maria doveva rimanere «vergine» nel concepire e dare alla luce Gesù?
Perché Gesù è puro dono di Dio, iniziativa soltanto sua, inizio d'una nuova creazione. Gesù non è risultato di una decisione umana, cioè di un uomo e una donna che dicono: “facciamo un figlio”. Se così fosse, quel figlio sarebbe soltanto uno come tutti noi, con i suoi difetti e i suoi peccati: che salvezza potrebbe darci? Non potrebbe essere nostro Salvatore.
Proclamare che Maria è Vergine significa riconoscere che l'iniziativa della nostra salvezza è tutta di Dio, e Dio la realizza attraverso la povertà di strumenti umani. La verginità, ricordiamolo, è anche povertà.
Insomma, solo Dio ha l’esclusiva della nostra salvezza: ecco cosa vuol dire che Maria è Vergine e Madre nello stesso tempo.
Il che è confermato anche dal segno che viene dato a Maria: “Vedi, Elisabetta, tua parente, anch'essa ha concepito un figlio, pure nella sua vecchiaia, e questo è il sesto mese per lei che tutti dicevano sterile. Infatti, non c'è parola da parte di Dio che non si possa realizzare”.
A questo punto, l’Angelo (cioè Dio stesso in definitiva) attende la risposta di Maria, il suo sì.
«Stiamo aspettando anche noi, o Signora, — esclamava s. Bernardo in una sua splendida omelia — facci sentire dalla tua bocca, o figlia di Sion, la risposta della tua gioia: apri il tuo cuore alla fede, e le tua labbra alla parola, il tuo grembo al Creatore! Rispondi presto, o Vergine!».
E Maria acconsente con gioia, in perfetta corrispondenza con quel «gioisci», con cui l'angelo l'aveva salutata: «Eccomi sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto». E siccome Maria personifica in sé tutti quei poveri che si fidano del Signore, in quella parola “serva” possono ritrovarsi e riconoscersi tutti coloro che si affidano a Dio con disponibilità e con gioia: religiosi o laici non importa, Maria come “serva” del Signore ci rappresenta tutti.
Quale messaggio per noi?
Probabilmente sono più d’uno i messaggi che ci riguardano:
- Nessuno di noi è pieno di grazia come Maria, ma anche noi siamo stati scelti, amati, arricchiti di doni da parte del Signore (a cominciare dal dono della Fede): ebbene, come per Maria, è per una missione che abbiamo ricevuto tutto questo; non è solo per noi, o perché siamo più belli degli altri, ma perché la nostra vita è una missione…
- Ho detto che Maria, come «figlia di Sion», rappresenta tutti coloro che contano davvero su Dio invece che sugli uomini o sulle loro risorse. Allora, quando parliamo di vocazione, di chiamata al servizio, alla disponibilità, noi possiamo guardare a Maria come a Colei che anche in questo ci rappresenta. Lei, figlia di Sion, incarna e riassume in sé tutta la disponibilità e la fede che c’è in ciascuno di noi e nelle nostre Comunità. Anche se siamo limitati nelle qualità e nelle risorse che abbiamo: Maria, nonostante sia piena di grazia, non cessa di essere donna, con tutta la limitatezza e la povertà di ogni creatura umana. E' forte il contrasto tra il messaggio dell'angelo - solenne, ampio, ricco di titoli e di parole (hai trovato grazia — concepirai un figlio — lo chiamerai Gesù — sarà grande — figlio dell'Altissimo — il Signore gli darà il trono di Davide — regnerà per sempre) e la semplicità, terra terra, di Maria che obietta: “Ma come è possibile? non conosco uomo…”. Poche parole — semplici e povere — che stanno bene sulle sue labbra di piccola e povera ragazza di Nazaret. Quante volte i progetti di Dio ci sembrano alti, grandiosi, e noi ci sentiamo invece poveri e inadeguati: anche qui Maria ci rappresenta, ci precede e cammina davanti a noi.
- Pensate poi a questo Signore e Dio onnipotente, capace di fare grandi cose, che tuttavia non fa violenza, non costringe Maria a dirgli di sì, ma rispetta la sua libertà e attende il suo consenso per entrare nella sua vita. Non è forse straordinariamente interessante anche questo per noi? Quel Dio in cui crediamo non fa violenza a nessuno, non costringe, ma rispetta in sommo grado la libertà di ogni persona.
- Un ultimo messaggio (ma non ultimo per importanza) è la verginità di Maria. Sì, anche questa ci riguarda (come comunità e come singoli credenti); anche in questo Maria ci rappresenta: in che senso? S. Agostino — che parlava di queste cose anche per esperienza umana personale - fa notare che c'è una «verginità del corpo» che non è di tutti, e una «verginità dello spirito» che invece deve essere di tutti i cristiani. Maria – diceva Agostino – è più grande per aver creduto a Dio con tutto il cuore, che per aver dato i natali al Figlio di Dio. «In cosa consiste — si chiedeva Agostino — questa verginità dello spirito che tutti possiamo e dobbiamo avere?» Ed ecco la sua risposta: «Fede integra, speranza solida, carità autentica»: questa è la verginità dello spirito. E noi possiamo constatare in tutta la storia del Cristianesimo che, quando l'adesione delle persone al Signore è totale e incondizionata, allora la potenza di Dio agisce, opera per mezzo di quelle persone, anche se nella loro vita hanno più problemi che risorse, anzi, meno risorse hanno e più il Signore fa cose grandi per mezzo di loro. Proprio come nella vita di Maria: «vergine» e «madre». Ciò che conta più di tutto, allora, sembra essere proprio questo: conservare integra la fede, solida la speranza, autentica la carità.
La missione di Maria allora è anche di richiamarci sempre, maternamente e dolcemente, a questo comportamento di totale appartenenza al Signore e al suo Vangelo.
B. La Visitazione di Maria ad Elisabetta
Riflessione tenuta alla 4° Comparsa il 5 Agosto, Festa della Madonna della Neve
Dal Vangelo di Luca
In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città della Giudea. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».
Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.
(Luca 1,39-45.56)
In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città della Giudea.
La tradizione cristiana afferma che Luca, oltre che evangelista, era anche medico e pittore (attribuisce a lui le antiche icone denominate le “Madonne di san Luca”). I dipinti che ornano il santuario della Visitazione ad Ain Karim in Terra Santa sono di un pittore moderno, il cui stile richiama il beato Angelico: uno stile leggero, le persone sono ritratte in atteggiamenti e in abbigliamenti estremamente semplici, figure aggraziate, quasi trasparenti. Anche i paesaggi che fanno da sfondo sono improntati a semplicità, con una luce che non è mai violenta.
E' la luce dell'alba — l'aurora del grande giorno della Salvezza (quell’ “OGGI” che risuonerà spesso sulle labbra di Gesù) e pochi ne sono consapevoli: Maria, Zaccaria, Elisabetta, Giuseppe forse.
La Visita di Maria ad Elisabetta è il Vangelo dell'aurora; un evento che si colloca bene sullo sfondo dell'aurora, quando tanti ancora dormono e solo alcuni hanno già cominciato la giornata; Maria è tra questi. E siccome sa che il giorno che viene è quello della Salvezza, Lei ne è tutta presa, tutta coinvolta. Si alzò e partì in fretta. Questo verbo iniziale - «si alzò» - richiama il bell'inizio del c. 60 di Isaia che dice: “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce!... La gloria del Signore brilla sopra di te”.
Che se poi Maria è la figlia di Sion (come vedevamo la volta scorsa parlando della sua Annunciazione o Vocazione), l'invito di Isaia le sta bene perché è alla Figlia di Sion che si rivolge il Profeta. Come le stanno bene le espressioni entusiaste del Cantico dei Cantici: “Il mio diletto viene saltando per i monti!
Alzati, amica mia, mia bella, e vieni! L'inverno è passato, è cessata la pioggia, se n'è andata, i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Alzati, amica mia, mia bella, e vieni!” (Cant 2,10)
Maria si alzò e si mise in viaggio per la montagna, in fretta, verso una città di Giuda. La fretta di Maria non è quella tensione stressante e un po' nevrotica che contrassegna certo nostro correre: il motivo della sua fretta è l'aurora della salvezza, da annunciare, da comunicare; la fretta di Maria è la stessa sollecitudine dei missionari del Regno inviati da Gesù, che non dovranno fermarsi molto a chiacchierare per strada, perché la notizia deve correre, non c'è tempo da perdere: il tempo è ormai arrivato = è il momento eccezionale della salvezza. E il modo con cui Luca presenta il viaggio di Maria, per la montagna, mette in evidenza, tacitamente, proprio questo aspetto missionario: Maria è messaggera del Vangelo, del Dio che si fa uomo, del Salvatore. Lei custodisce nel grembo la bella notizia (è questo il significato della parola “Evangelo”: bella notizia), e che è davvero bella notizia lo si vedrà allorché la sua sola presenza farà sussultare di gioia il bambino nel grembo di Elisabetta. Anche qui, a Maria, si addicono bene le parole di Isaia: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi, che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza!” (Is 52,7). E non solo i piedi… E' bella la figura di questa donna che cammina per la montagna, certamente in carovana con altra gente, e che porta nel grembo il Messia. E nessuno lo sa in quella carovana. Discrezione e incognito inaugurano fin d’ora la presenza di Dio in questo mondo.
ELISABETTA: SEGNO DI DIO
Perché Maria si è recata da Elisabetta?
Normalmente si dice: per servire, per aiutarla nei mesi della sua gravidanza. Anche se è probabile che effettivamente Maria si sia messa a servire l'anziana parente, non è questo però il primo motivo della visita.
Ricorderete che nel dialogo con l’Angelo, alla richiesta di spiegazioni (Come avverrà questo: che io concepisca il Figlio dell'Altissimo?), l'Angelo aveva risposto: Vedi, anche Elisabetta... ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei. Elisabetta quindi doveva essere un segno per Maria: un segno dato da Dio. E quando Dio dà dei segni, là dove li offre si deve correre, e prenderne atto. E' per questo che anche i pastori correranno nella notte di Betlemme: Questo per voi il segno: troverete un Bambino avvolto in fasce... Andiamo fino a Betlemme... Andarono, dunque, senza indugio... (Lc 2,12.15.16).
Quindi il viaggio di Maria non è motivato da un desiderio di verifica: «Vado a vedere se è vero». No. E' un andare ad accogliere nella fede — il segno offerto da Dio, e darne atto, con fede ed esultanza: Maria ne darà atto con il suo cantico, il «Magnificat».
L'INTERPRETAZIONE PRIMITIVA
Dicevo nella riflessione che abbiamo fatto qui la volta scorsa che questi fatti raccontati dall’evangelista Luca non furono costruiti da lui, magari in base a chissà quali notizie segrete; certo, da un lato affondano le loro radici nell'esperienza e nei ricordi di Maria, dall'altro furono riletti, interpretati in un ambito particolare: quello delle prime comunità cristiane, o meglio, ebreo o giudeo-cristiane (perché erano composte da ebrei o giudei che si erano convertiti al Vangelo, a Gesù, senza però rinunciare alle loro tradizioni religiose di prima: ecco perché li chiamiamo “ebreo o giudeo-cristiani”). In quanto ebrei conoscevano molto bene quello che noi chiamiamo l’AT e se ne servivano per capire i fatti e gli eventi di Gesù, cioè il Nuovo Testamento. Ed è naturale: ognuno cerca di capire il presente servendosi del bagaglio culturale che possiede. (Un esempio banale, se volete: se si vuol capire la Divina Commedia occorre sapere prima… cosa sono l’inferno, il purgatorio e il paradiso… altrimenti non si capisce di cosa parla Dante in quell’opera; ecco un piccolo esempio di bagaglio culturale). Per quei primi cristiani c’era da capire … Gesù, ciò che aveva fatto, insegnato, sperimentato… il bagaglio culturale con il quale capirlo erano gli scritti dell'A.T. Era necessario adoperare quegli scritti soprattutto per capire quella parte della vita di Gesù che era la più lontana nel tempo, la più imprecisa nei particolari, cioè i fatti della sua infanzia e, ancor prima, ciò che aveva preceduto la sua infanzia, anzi, la sua stessa nascita. Lì non c’erano ancora né apostoli né evangelisti che potevano raccontare e testimoniare.
Anche la visita di Maria ad Elisabetta fu interpretata alla luce dell'A.T., soprattutto con l’aiuto di un oggetto sacro, o meglio di un’immagine particolare: l'arca dell'Alleanza.
Cos’era l’Arca dell’Alleanza?
Era una cassa di legno di cedro, costruita durante gli anni in cui gli Ebrei, liberati dalla schiavitù dell’Egitto, attraversavano il deserto per arrivare alla terra promessa; quella cassa, portata su delle stanghe e sovrastata dalle sculture di due angeli, conteneva le tavole delle “10 Parole” (i comandamenti), un vaso di manna (il cibo del deserto) e il bastone di Mosè. Nel deserto era custodita sotto una tenda speciale e durante il viaggio precedeva la carovana.
Era la cosa più preziosa e più sacra per gli Ebrei. Non che la ritenessero la dimora di Dio (Dio non ci sta certo in una cassa), ma era il segno della sua presenza, segno che era con loro nel loro viaggio verso la Terra promessa. Giunti a quella terra tanto sospirata, in un primo tempo l’arca fu custodita in un piccolo santuario a Betel (a Nord di Gerusalemme). Quando gli Ebrei dovevano combattere (contro predatori o invasori) la portavano con loro sul campo di battaglia: la consideravano una magica garanzia di vittoria. Solo che Dio non ci stava a questo gioco e una volta, nel corso di una battaglia contro i Filistei, gli ebrei furono sopraffatti e l’arca cadde in mano ai loro nemici. I Filistei se la portarono nella loro città capitale come un trofeo prezioso, ma fu come se avessero portato la peste: la gente della città si ammalava e moriva… Allora la portavano in un’altra città, ma anche lì… stessa cosa; epidemie e morte.
Alla fine decisero di sbarazzarsene e la restituirono agli ebrei, ma lo fecero in un modo piuttosto stravagante: la misero su di un carro, vi attaccarono davanti due vacche che avevano partorito da poco, e quelle due vacche trainarono il carro verso il territorio degli Ebrei: procedevano imperterrite, senza badare ai vitellini che erano rimasti nella stalla e continuavano a muggire… A uno dei primi villaggi di Ebrei (si chiamava allora Kyriat-Yearim), il carro con l’arca si fermò e per un certo tempo quell’oggetto tanto sacro e prezioso fu custodito sulla sommità della collina che sovrasta il paese (cfr. 1Sam 4,1-7,1; oggi vi sorge un Santuario dedicato alla Madonna Foederis Arca). Qualche tempo dopo il re David, che voleva portarla a Gerusalemme e costruire un tempio per custodirla, si reca in quel villaggio per prelevarla con una grande processione, solo che lungo il percorso, un tale che presumeva di sorreggerla perché gli sembrava che si ribaltasse, cade a terra e muore improvvisamente. Questo fatto getta il panico in tutta la processione, e l'Arca, anziché a Gerusalemme, viene fatta sostare a pochi chilometri dalla città santa, nella fattoria di un contadino che si chiamava Obed-Edom. Ed è a questo punto che la storia presenta analogie sorprendenti con la visita di Maria ad Elisabetta e getta luce su questo che si chiama giustamente “mistero” nel linguaggio cristiano (il secondo mistero gaudioso).
Ecco le analogie: prestate attenzione.
2Samuele 6
David si alzò e partì per Baalà di Giudea per far salire l'Arca di Dio
Lc 1,39-45.56
Maria si alzò e partì per la montagna verso una città di Giudea
Libro di Samuele
Il popolo accompagna David con grida di gioia
Vangelo di Luca
Elisabetta gridò a gran voce: Benedetta tu…
Libro di Samuele
David, davanti all’arca, si sente peccatore, indegno, ed esclama: A che devo che l'Arca del Signore venga da me?
Vangelo di Luca
Elisabetta esclama: A che devo che la Madre del Signore venga da me?
Libro di Samuele
Davide danzava e ballava pieno di gioia…
Vangelo di Luca
Il bambino – Giovanni – sobbalza nel grembo di Elisabetta
Libro di Samuele
L’incidente (di quell’uomo, morto per aver toccato l’Arca) convince David a farla sostare presso la fattoria di Obed-Edom… per quanto tempo?
L'Arca del Signore restò presso Obed-Edom tre mesi
Vangelo di Luca
Maria restò in casa di Elisabetta tre mesi…
A questo punto, quale può essere la conclusione da questo confronto? Maria è la vera Arca dell’Alleanza, la vera dimora di Dio tra gli uomini. Infatti lo porta nel suo grembo. Ecco come quei primi cristiani interpretavano il 2° Mistero Gaudioso: la visita di Maria ad Elisabetta.
DIO VISITA IL SUO POPOLO
Poi David portò l’Arca a Gerusalemme e quando suo figlio Salomone costruì il tempio fu collocata nella parte più sacra del tempio: il Santo dei Santi.
5 secoli dopo, allorché Nabucodonosor conquistò Gerusalemme e saccheggiò il Tempio, l’Arca sparì; non se ne seppe più nulla. Il popolo trasse la conclusione: «Dio ci ha abbandonato»... Un giorno il profeta Ezechiele vide una nube alzarsi dal Tempio e partire verso Oriente: anche Dio se n'andava in esilio con i deportati del suo popolo... (Ez 11,23). Ma non era un abbandono per sempre: i profeti Sofonia, Zaccaria, annunciarono che Dio sarebbe ritornato tra i suoi un giorno. “Rallegrati, figlia di Sion: il Signore sarà di nuovo in mezzo a te! Ecco che viene il tuo Re: mite, mansueto! Alzati, Gerusalemme, rivestiti di luce: la gloria del Signore brilla su di te!” (Sof 3,14.15; Zacc 9,9; Is 60,1).
Ed ora le promesse iniziano a compiersi: Maria ha offerto a Dio una dimora vivente – cioè la sua stessa persona - ed Egli può tornare ad abitare in mezzo al suo popolo. Per sempre. Perciò: Foederis Arca! Arca dell’Alleanza. Anzi, della nuova Alleanza (sapete che Gesù la sera dell’ultima cena stabilirà una nuova alleanza, offrendo il calice del vino che è in realtà il suo sangue). Nuova alleanza vuol dire: nuova, eccezionale ma discreta presenza di Dio tra gli uomini. Dio è in questo mondo e non l’abbandonerà mai più.
Ed è per questo che l'entrata di Maria nella casa di Zaccaria e di Elisabetta diventa «Visitazione»: questa parola, nel linguaggio biblico, definisce bene ogni intervento di Dio tra gli uomini; intervento di grazia — sempre — perché Dio non viene mai a mani vuote. E Zaccaria potrà cantare che Dio ha davvero visitato il suo popolo: “Benedetto il Signore, Dio d'Israele!”. Il fatto, piccolo e semplice, di Maria che arriva da Elisabetta all'alba del giorno della salvezza, può chiamarsi «Visitazione» perché così Dio inizia effettivamente la visita del suo popolo.
BENEDETTA LA SERVA DEL SIGNORE
Elisabetta fu piena di Spirito Santo: l’evangelista Luca ormai rilegge queste antiche tradizioni nella luce della Pasqua e della Pentecoste, per cui tutti gli attori di questi inizi sono animati dallo Spirito Santo; ecco quindi che Maria è riconosciuta e salutata come Madre del Signore: Signore è il titolo che i primi cristiani daranno a Gesù Risorto!
Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo.
Non è anzitutto un complimento a Maria: questo viene dopo. E' un proclamare l’opera generosa di Dio: è Lui che ricolma di grazia, di vitalità divina Maria, e il frutto del suo grembo. Perché è questo benedire.
Certo: è anche una specie di documento d’identità per Maria: lei è la benedetta fra tutte le donne. Ma quest'identità è tutta opera di Dio, solo Dio è protagonista. Il che è rimarcato anche dall'espressione che segue: benedetto il frutto del tuo grembo: molto delicata e molto appropriata: per la Bibbia, gli alberi sono fatti per portare frutti, ma appunto solo per portarli: è Dio che fa crescere e fa maturare i frutti. Il Messia Gesù, anche se germoglia da una radice della terra, è pur sempre dono di Dio anzitutto.
A che debbo che la madre del mio Signore venga da me? Qui Elisabetta è portavoce di tutto quell'affetto, di tutta quella venerazione che la prima comunità giudeo-cristiana nutriva verso la persona di Maria; la vedevano e forse la chiamavano così: La Madre del mio Signore, cioè di Gesù risorto in cui solo c'è salvezza. Si percepiva che era un dono la sua presenza, un vero onore che la Madre del Signore fosse qui, tra noi.
Ecco che appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino mi è sobbalzato di gioia nel grembo! I primi due capitoli di Luca (chiamati Vangelo dell’infanzia di Gesù) sono tutti attraversati da questo filone della gioia… Il commento più bello a questa gioia è quello che faceva S.Ambrogio quando predicava: «Elisabetta udì per prima la voce di Maria, ma Giovanni per primo sentì la grazia; la donna ha udito secondo l'ordine della natura, Giovanni invece (nel suo grembo) ha trasalito per il mistero; lei ha percepito l'arrivo di Maria, lui l'arrivo del Signore; la donna l'arrivo della donna, il bambino l'arrivo del bambino».
Notate che Maria non dice niente: sì, ha salutato Elisabetta, ma non si riferiscono le sue parole; parla soltanto Elisabetta, piena di Spirito Santo. Ed è in perfetta sintonia con tutto l'evento questo silenzio di Maria: Lei è colei che porta Dio, solo Arca dell’Alleanza, ma è Dio il vero attore, è il bambino nel grembo di Maria che, senza parole, suscita gioia e comunica con Giovanni. E' perfettamente naturale che Maria non faccia e non dica granché: lei è sempre, anche qui, la serva del Signore.
MARIA: COLEI CHE HA CREDUTO
E beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore.
Quindi Maria ha creduto. Notate però come suona un po' staccata questa affermazione: sì, è senz'altro Maria colei che ha creduto, e quindi «beata». Ma non si dice «Beata te che hai creduto...», ma «Beata colei che ha creduto». Perché? Cosa si vuol insinuare qui?
Che Maria, ancora e sempre, rappresenta l’intera comunità cristiana. Anche questo – colei che ha creduto – diventa qui un nome: uno dei nuovi nomi di Maria. E siccome il nome per la Bibbia dice l'identità della persona che lo porta, ecco che anche questo nome dice qualcosa di lei, della sua persona: sulla sua carta d’identità si potrebbe scrivere “colei che ha creduto”.
All'inizio dell'antica Alleanza c'era stato un credente: Abramo, padre della fede. All'inizio della nuova Alleanza, una credente: Maria. Lo farà notare poco dopo nel suo Cantico, il «Magnificat», quando porrà se stessa — povera serva del Signore —, in rapporto con Abramo: come aveva promesso ad Abramo e alla sua discendenza per sempre.
Bello anche qui il commento di s. Ambrogio (peccato che quando si predica sulla Madonna non si dicano più queste cose!”); diceva il santo Vescovo di Milano: «Anche voi siete beati, perché avete udito e avete creduto: ogni anima che crede, concepisce e genera la Parola di Dio e riconosce le sue opere. Che in ciascuno ci sia l'anima di Maria per glorificare il Signore, che in ciascuno ci sia lo spirito di Maria per esultare in Dio. Se corporalmente c'è una sola Madre di Cristo, secondo la fede Cristo è generato da tutti coloro che credono». Questa è la vigorosa e autentica devozione alla Madonna che l’antica tradizione cristiana ci tramanda: purtroppo in seguito è subentrato il devozionismo, che in gran parte dòmina ancor oggi (il devozionismo permette ai cristiani di sentirsi devoti della Madonna senza mai fare nessuno sforzo, nessun impegno per diventare migliori… e la loro fede così non matura mai, anzi, dorme). Se io dico a un cristiano “tu, se credi davvero nel vangelo, generi Gesù Cristo” (come diceva S.Ambrogio), quel cristiano mi guarda con tanto d’occhi… Eppure lo diceva lo stesso Gesù: “Chi ascolta la mia Parola e la mette in pratica è per me fratello, sorella e madre”. Madre! Capite? Ognuno può dare corpo, volto a Gesù Cristo con la testimonianza della sua vita.
UNO STATUTO DEL SERVIZIO CRISTIANO?
«Maria rimase con Elisabetta circa tre mesi, poi tornò a casa sua».
Furono tre mesi di servizio, ovviamente: Maria non è andata lì per fare la dama di compagnia, ma la serva. Dio, quando visita il suo popolo, non viene a mani vuote, dicevo: e la ricchezza dei doni si esprime nei gesti di servizio di chi ha creduto.
Ed è attorno a questo evento della Visitazione pertanto che possiamo cercare di costruire un modello, o uno statuto, del servizio in senso cristiano: in tutte le sue forme di ministero o di volontariato in cui trova espressione. Non dimentichiamo che colui che Maria porta in grembo un giorno dirà: “Io sono tra voi come colui che serve” (Lc 22,27).
Quali sono i connotati tipici del servizio cristiano?
- Vi è l'obbedienza anzitutto. Obbedienza alla volontà di Dio. E obbedire è alzarsi e partire per andare là dove c’è bisogno di servire.
- Vi è la sollecitudine: si lavora per il Regno di Dio, e questo viene prima di tutto il resto. Maria raggiunge in fretta quella città di Giudea dove abita Elisabetta.
- Vi è la presenza di Dio: cioè la consapevolezza di portare Dio, di essere sua dimora, «Arca dell'Alleanza», con tutta la propria persona: e non perché lo si sente dentro con particolari entusiasmi, ma perché gli si è data fiducia, si è creduto alla sua Parola. Ricordate l'espressione di s. Ambrogio: «ogni anima che crede, concepisce e genera Gesù Cristo».
Ed è tanto essenziale questo aver creduto come Maria e ritrovarsi perciò portatori di Dio, che se manca questo non c'è gioia: ci potrà essere gratificazione, ma non gioia vera, gioia della presenza di Dio.
L'esperienza della gioia e della benedizione in coloro che serviamo, non dipendono dalle nostre doti di giullari (che probabilmente non abbiamo); dipendono solo da Dio, presente in noi perché gli abbiamo creduto.
* Consapevoli che il «contenuto» (Dio) vale infinitamente di più del «recipiente» che lo porta (cioè io o noi). E quindi senza meravigliarci se eventuali complimenti sono indirizzati a Dio piuttosto che a noi. Anzi, nel caso fossero rivolti a noi, è meglio indirizzarli a Dio: «L'anima mia magnifica il Signore — «è Lui che si deve lodare. Non me».
Questo, mi pare, almeno a grandi linee, lo statuto del servizio cristiano, così come ci è testimoniato da Maria nella sua Visita ad Elisabetta.
C. La Donna dell'Apocalisse
Riflessione tenuta alla 4° Comparsa il 22 Agosto, Festa di Maria Regina dell'universo
Oggi (22 agosto) è l’Ottava dell’Assunzione di Maria (15 agosto). Giunta in cielo, secondo la tradizione cristiana, Maria sarebbe stata incoronata Regina del cielo e della terra.
Il giorno dell’Assunzione, all’Eucaristia, si proclama una lettura che lì per lì non è facile da capire, anche perché non se ne dà spiegazione. E poi quella lettura è tratta dall’Apocalisse: noi cattolici, quando si tratta della Bibbia, siamo ancora abbastanza incompetenti, inesperti; se poi si tratta dell’Apocalisse, che è l’ultimo libro della Bibbia (e del NT), è proprio come addentrarsi in una foresta inestricabile. Ebbene, non è giusto, perché l’Apocalisse è un libro scritto per incoraggiare e dare speranza, e visto che oggi è l’Ottava dell’Assunta, io vorrei cercare di spiegare e riflettere con voi proprio su quella prima lettura che abbiamo ascoltato quel giorno. Se la si è proclamata in una Festa della Madonna, vuol dire che in quella lettura c’entra Maria. Però non era completa la lettura che abbiamo ascoltato quel giorno, era solo una parte del capitolo 12: credo che per capire meglio val la pena ascoltarlo tutto, e quindi lo leggo.
Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle. Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto. Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna, che stava per partorire, in modo da divorare il bambino appena lo avesse partorito. Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e suo figlio fu rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fuggì nel deserto, dove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni.
Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme ai suoi angeli, ma non prevalse e non vi fu più posto per loro in cielo. E il grande drago, il serpente antico, colui che è chiamato diavolo e il Satana e che seduce tutta la terra abitata, fu precipitato sulla terra e con lui anche i suoi angeli. Allora udii una voce potente nel cielo che diceva:
«Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo, perché è stato precipitato l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte. Ma essi lo hanno vinto grazie al sangue dell’Agnello e alla parola della loro testimonianza, e non hanno amato la loro vita a tal punto da non saperla donare. Esultate, dunque, o cieli e voi che abitate in essi. Ma guai a voi, terra e mare, perché il diavolo è disceso sopra di voi pieno di grande furore, sapendo che gli resta poco tempo».
Quando il drago si vide precipitato sulla terra, si mise a perseguitare la donna che aveva partorito il figlio maschio. Ma furono date alla donna le due ali della grande aquila, perché volasse nel deserto verso il proprio rifugio, dove viene nutrita per un tempo, due tempi e la metà di un tempo, lontano dal serpente. Allora il serpente vomitò dalla sua bocca come un fiume d’acqua dietro alla donna, per farla travolgere dalle sue acque. Ma la terra venne in soccorso alla donna: aprì la sua bocca e inghiottì il fiume che il drago aveva vomitato dalla propria bocca. Allora il drago si infuriò contro la donna e se ne andò a fare guerra contro il resto della sua discendenza, contro quelli che custodiscono i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù. E si appostò sulla spiaggia del mare.
Siamo alle prese con l'Apocalisse: è come muoversi su di un terreno sconosciuto e inesplorato con tutte quelle immagini stravaganti che si susseguono. Si tratta di simboli e i simboli si adoperano per dire quelle cose importanti, grandiose, per le quali le parole solite non bastano. La chiave di lettura per capire l’Apocalisse deve tener presente che qui si guarda la Chiesa, il Popolo di Dio, da due punti di osservazione diversi: il primo è quello di questo mondo, con la sua storia (anche quella dei nostri giorni) e l’altro è quello del Cielo, il Paradiso di Dio. Un conto è guardare ciò che accade da quaggiù, mentre si cammina in questo mondo, altro conto è guardarle da lassù, il Paradiso di Dio. Queste due prospettive si alternano continuamente nell’Apocalissse, si mescolano addirittura. A guardare la Chiesa, i cristiani, dalla prospettiva di questo mondo, spesso ci sarebbe da scoraggiarsi, da avvilirsi; a guardare dalla prospettiva del Cielo di Dio è sempre possibile riprendere speranza, fiducia e coraggio per convertirsi e diventare più fedeli al Signore. Sono 2000 anni che è così.
UNO SGUARDO ALL’APOCALISSE
E’ fatta di 22 capitoli l’Apocalisse (qui siamo al capitolo 12, cioè più o meno a metà). Nella prima metà ci sono sette lettere dettate da Gesù Risorto all’apostolo Giovanni e indirizzate a sette Comunità cristiane dell’Asia Minore (lettere molto belle, tra il resto). Poi, sempre nella prima metà del libro, si comincia a raccontare la grande lotta tra il bene e il male … e la si racconta più e più volte durante tutto il libro, con immagini, segni e simboli sempre nuovi e diversi, perché quella lotta durerà fin che dura il mondo, anche se – ed è questo uno dei bei messaggi dell’Apocalisse – in quella lotta ha già vinto il bene, cioè Gesù, crocifisso e risorto.
Non ho alcuna intenzione di spiegare tutta l’Apocalisse (anche perché dovremmo star qui una settimana!). Mi fermo solo alla pagina che ci interessa, quella con cui c’entra la Madonna. Vi dicevo che si descrive la lotta tra bene e male con il linguaggio delle immagini, dei segni. Eccoli qui i primi due: la donna e il drago.
Fermiamoci al primo: la donna vestita di sole. Chi è questa donna? La lettura di questa pagina nella Festa dell’Assunzione di Maria porta a pensare che sia senz’altro la Madonna, la Madre di Gesù. E anche il modo di raffigurarla come Immacolata (penso ai quadri che ci sono nel Santuario), con la corona di 12 stelle, la luna e il serpente sotto i piedi, porta a questa conclusione: sì è giusto dire che è Maria quella donna dell’Apocalisse, ma è ancora più giusto dire che prima che Maria, quella donna rappresenta qualcos’altro o meglio molti altri: chi? Cercate di seguirmi. Vi dicevo che bisogna procedere adagio e con pazienza. Per capire, occorre avere gli strumenti per capire, e allora qui occorre fare una premessa, che è questa.
E’ un libro strapieno di simboli, vi dicevo, e quando dico simboli intendo quegli strumenti (gesti, immagini, cose) che ci aiutano ad esprimere quello che con le sole parole non riusciamo ad esprimere. A una persona cara o amica che soffre voi fate un abbraccio, e quell’abbraccio magari stretto e prolungato, dice molto più che le parole: ecco il valore dei simboli.
Nell’Apocalisse i simboli sono di diversi tipi:
Ci sono i simboli biblici (presi dai libri dell'AT)
Ci sono i simboli cosmici (terremoti e sconvolgimenti cosmici)
Ci sono i simboli animali (cioè si mettono in scena animali come protagonisti, reali come i cavalli, oppure fantastici come i draghi)
Ci sono i simboli aritmetici (fatti con i numeri, e li vedremo tra poco)
E ci sono i simboli cromatici (cioè fatti di colori, qui per esempio si parla di un drago di colore rosso).
In questo capitolo che ho letto ci sono tutti questi simboli. Mi soffermo a chiarire alcuni particolari.
- Si inizia col presentare un segno grandioso: una donna ... che deve partorire: questa immagine è un simbolo che troviamo di frequente nella Bibbia – nel profeta Isaia – si dice: Il Signore vi darà un segno... la vergine concepirà e partorirà un figlio...(7,14).
- La luna invece (che poco o tanto cambia ogni notte) indica lo scorrere del tempo, la provvisorietà dei giorni, degli anni, dei secoli... Questa donna è superiore a tutto ciò; nel continuo evolversi della storia lei rimane intoccabile, immutabile: noi diventiamo vecchi, grinzosi, pieni di rughe, lei no: ecco cosa significa la luna sotto i suoi piedi.
— Era incinta questa donna e gridava per le doglie e il travaglio del parto. Che parto sarà? Vedremo dopo. Per adesso la scena è messa da parte perché ne subentra un'altra: un enorme drago rosso, ecco l’altro segno che apparve nel cielo. Nell’antichità, nelle culture del Medio Oriente, si parlava spesso di draghi e di mostri. Un po’ più avanti lo si descrive meglio: Il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo, il satana, e che seduce tutta la terra abitata (v. 9). Perchè rosso? Il rosso è il colore che simboleggia il sangue: l’indole del diavolo, del satana, è un’indole sanguinaria e crudele: è un sanguinario il Maligno.
Le sette teste con i sette diademi significano pienezza di poteri e sovranità su tutto e su tutti (7 è il numero perfetto).
Le dieci corna indicano una grande forza, una possibilità di nuocere e fare del male che è sì spaventosa, però non illimitata: è contenuta («dieci» è inferiore a 12). La sua coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo: è un’immagine che troviamo anche nei profeti: le stelle che cadono indicano i credenti poco saldi nella fede, facili vittime del compromesso e dell'errore (8,10).
Il frutto del parto della donna, quel frutto che il drago si apposta per divorare, è un figlio maschio destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro.
E' il Messia questo frutto partorito dalla donna. Tuttavia, appena nato, fu subito rapito verso Dio. Con queste parole si allude all'ascensione di Gesù al cielo, dopo la sua Pasqua di risurrezione. Allora il parto di quella donna probabilmente non si riferisce al Natale, alla notte di Betlemme; si riferisce a un altro evento, subito dopo il quale quel figlio è rapito verso Dio e verso il suo trono. Che evento sarà? Un attimo di pazienza ancora, tra poco lo vedremo. Intanto seguiamo la vicenda di questa donna:
…lei fuggì nel deserto, sulle due ali della grande aquila si dirà poco dopo, verso un rifugio preparatole da Dio per esservi nutrita per milleduecentosessanta giorni, o, detto in altri termini, per un tempo, due tempi e la metà di un tempo. Non siamo a livello di settimana enigmistica o di cruciverba, non temete: la spiegazione sarà più semplice di quello che si pensa.
Il deserto è un altro simbolo molto ricorrente nella Bibbia: è il luogo della prova ma anche delle relazioni amorose tra Dio e il suo popolo; e inoltre è luogo di rifugio e protezione per gente perseguitata come Mosè, come il popolo fuggito dall’Egitto, come il profeta Elia (tra il resto, poco prioma del 70 dopo Cristo, in previsione che Gerusalemme sarebbe stata distrutta dai Romnani, la prima Comunità cristiana era fuggita e si era rifugiata nel deserto di quel che oggi si chiama la Giordania).
Le ali della grande aquila dalle quali è portata questa donna denotano l'intervento di Dio in questa avventura: Io vi ho portato fuori dalla schiavitù su ali di aquila dice il Signore al suo popolo liberato dall’Egitto (Es 19,4).
E il nutrimento che la donna trova nel deserto, non può essere che la manna. Ma siccome è l’evangelista Giovanni che scrive, la manna per lui è simbolo del Pane vivo disceso dal cielo, cioè l'Eucaristia: il nutrimento della donna nel deserto è l'Eucaristia.
Rimane nel deserto per un periodo di milleduecentosessanta giorni: se fate il calcolo, trovate che sono tre anni e mezzo. Si dice anche per un tempo, due tempi e la metà di un tempo: ancora tre anni e mezzo. Tre anni e mezzo sono la metà di sette (sette è il tempo che non finisce mai; tre e mezzo è un tempo limitato: è il tempo della prova, che può essere lunghissimo, estenuante, ma non è eterno, non dura sempre, a un certo punto finisce).
Intanto, in stretta sintonia con la nascita di quel figlio maschio subito rapito verso il cielo, è avvenuto qualcosa di assolutamente importante e decisivo: una guerra scoppiò nel cielo. Il drago fu precipitato sulla terra ad opera di Michele e dei suoi angeli. (Michele, già per gli ebrei ma poi anche per i cristiani, è il grande arcangelo che difende i cristiani, il popolo di Dio).
E allora si sprigiona un canto potente nel cielo: Ora si è compiuta la salvezza.... Notate: ORA, con l'ingresso di quel figlio nel cielo; ORA che satana è stato precipitato. E' stato vinto dai nostri fratelli, i martiri, ma è il sangue dell'Agnello che l'ha sconfitto. Il sacrificio di Gesù sulla Croce e la sua risurrezione la mattina di Pasqua hanno segnato la sconfitta definitiva del Maligno, del satana, del serpente antico.
E’ stato precipitato sulla terra, colpito a morte, ma proprio per questo pieno di grande furore: particolare interessante questo; perché il diavolo è pieno di grande furore? Perché il suo ambito di influenza è stato ridotto (alla terra, solo alla terra), e poi perché è sconfitto a morte e gli resta poco tempo: qui dietro c’è proprio l'immagine dell'uccisione di un serpente; vi è mai capitato di uccidere una vipera mentre andate in montagna? un serpente colpito alla testa poi muore, ma prima di morire si divincola in maniera furiosa e disperata. Quando ci capita di vedere a questo mondo i misfatti, i crimini del Maligno, sì… è lecito restarne turbati, ma poi richiamiamo questa convinzione di fede: anche se queste espressioni dovessero durare quanto dura la storia del mondo, sono manifestazioni furiose di uno sconfitto che sa di aver già perso in maniera definitiva.
Contro la donna non può far nulla perché è protetta da Dio nel deserto. Allora il drago, visto che alla donna non può più fare del male, se la prende contro il resto della sua discendenza, cioè contro quelli che osservano i comandamenti e la testimonianza di Gesù, cioè i cristiani.
Si fermò sulla spiaggia del mare: da lì emergerà con nuove configurazioni «bestiali» per tentare di sedurre il mondo.
PASQUA: L'ORA DEL PARTO
A questo punto, torniamo alle domande: Di chi si parla qui? Cosa si vuol insinuare? Chi è quella donna?
La sensazione è che qui ci sia come un concentrato della storia, delle vicissitudini, delle tribolazioni vissute dal popolo di Dio, la Chiesa, le Comunità cristiane.
Quella donna, infatti, rappresenta il popolo di Dio. Questo accostamento l’abbiamo già fatto parlando della vocazione di Maria, della sua visita ad Elisabetta (e se potremo leggere in futuro altre pagine evangeliche che parlano di Maria lo troveremmo anche in quelle): figlia di Sion, popolo di Dio, ve l’ho fatto notare più volte: i profeti della Bibbia parlano del popolo di Dio come di una donna, una sposa… E paragonano i giorni che precedono l’arrivo del Messia (giorni difficili, penosi) alle sofferenze, alle doglie del parto. Il profeta Michèa (7 secoli prima di Cristo) diceva: “Contòrciti, grida, gemi, Figlia di Sion, come una partoriente” e si riferiva al popolo di Dio (4,10).
Quando avverrà questo parto? L’evangelista san Giovanni, la sera dell’ultima Cena (quindi appena prima della Passione e della Croce) mette queste parole sulle labbra di Gesù: “Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia. La donna quando partorisce è afflitta perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino non si ricorda più dell'afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così sarà anche per voi... (Gv 16,20-22).
La Pasqua di Gesù, fatta di Passione — Morte — Risurrezione — Ascensione, è quest'ora del parto.
La comunità dei discepoli sarà come una donna nel dolore del parto; ma dopo la risurrezione si rallegrerà, come la donna felice per la nascita del bambino. Per Giovanni la prima comunità ebreo-cristiana è la madre di quell'uomo nuovo che è Gesù Cristo risorto.
«A Pasqua si è giocata la storia del mondo; ciò che segue dopo nel corso della storia è solo conseguenza di ciò che nella Pasqua è già accaduto». “Ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori” aveva detto Gesù prima della sua Passione (Gv 12,31). E' stato precipitato l'accusatore dei nostri fratelli — si canta nell'Apocalisse.
NELLA STORIA, CON FEDE E CON SPERANZA
Ecco perché l'Apocalisse è un grande messaggio di speranza, una liturgia del Cielo che celebra la vittoria di Dio sul Male, nonostante le apparenze contrarie che a volte sembrano voler dire che non è così. Sì, invece è proprio così.
La donna dell’Apocalisse è la Chiesa, e in quelle dodici stelle possiamo vedere ben rappresentate tutte le comunità cristiane che fanno la Chiesa: dodici, che non vuol dire dodici di numero, ma tutte, anche le nostre, già realizzate in pienezza: fanno corona infatti.
Dio vede la Chiesa già nella sua pienezza; sì, noi la vediamo piena di difetti, di peccati… ma Dio non smette mai di purificarla, di farla bella, e se questa Chiesa della quale facciamo parte anche noi può permettersi di non scoraggiarsi di fronte agli eventi, agli sconvolgimenti che accadono nella storia (anche la storia del nostro tempo) è perché Dio ha posto la luna (cioè il tempo) sotto i suoi piedi. Tutto passa. Quella donna rimane.
Il suo compito è sempre quello di partorire Cristo, con doglie e travaglio. E qui mi rifaccio alla predica del Vescovo la sera del 14 Agosto alla Messa della Comparsa: il bene che si fa a questo mondo, che si vede oppure che resta nascosto, il bene apprezzato come il bene incompreso, magari limitato e in apparenza poco consistente, questo bene appartiene davvero a Cristo: è frutto di quel parto che viene portato accanto a Dio... e nessuna forza umana o diabolica riuscirà ad intaccarlo e a rovinarlo. E se vivere, per la Chiesa, è come trovarsi nel deserto, non viene meno quel cibo che solo Dio nel deserto può offrire: la sua Parola e l'Eucarestia. E allora si può vivere anche nel deserto.
Nel frattempo l'ostilità del Maligno continua: se non è contro la Chiesa — difesa e protetta da Dio — è contro i suoi figli, il resto della sua discendenza. Noi preti siamo soliti valutare le difficoltà e le sofferenze della Chiesa, ma spesso ignoriamo la lotta che molti cristiani, anonimi e sconosciuti, devono affrontare nella loro storia personale. E a volte sono difficoltà e prove inimmaginabili.
Però tutto questo accade nel frattempo, appunto — quel frattempo che intercorre tra la Pasqua e il compimento finale: milleduecentosessanta giorni. Tutto ciò nel piano di Dio non è che un po' di tempo; per noi no, per noi il tempo della prova spesso sembra non finire più… E’ qui allora che, come cristiani, facciamo l’esperienza di una certa tensione che però non dobbiamo mai smorzare: se diamo peso solo alla vittoria di Dio sul Maligno, finiamo con l’evadere dalla realtà e col vivere nelle nuvole; se invece diamo importanza solo all’azione furiosa del Maligno colpito a morte e vediamo solo quella, allora cadiamo nella disperazione. No: la fede cristiana deve rimanere «tensione», deve radicarsi nella vittoria pasquale di Gesù e, nello stesso tempo, star dentro la storia di questo mondo, anche se è contorta e caotica.
MARIA AL CENTRO DELLA LOTTA
E cosa c'entra la Madonna con tutto questo?
Voi direte: “Questo qui oggi ha parlato di tutto tranne che della Madonna”. In parte forse avete ragione: se vogliamo restare fedeli a quello che l’Apocalisse afferma, la donna di cui parla è anzitutto la Chiesa. E la Madonna c’entra oppure no?
C’entra eccome! L’immagine della “Figlia di Sion” così familiare ai primi cristiani – e agli evangelisti Luca e Giovanni – per indicare Maria, fa da sfondo anche a questa scena così movimentata dell’Apocalisse. E’ impossibile che Giovanni nel parlare di quella donna vestita di sole e madre del Messia Gesù non abbia pensato anche a Maria: è a lui che Gesù l’aveva affidata mentre stava morendo sulla Croce. Maria era l’inizio di quella Chiesa che Gesù dà come Madre a ogni discepolo e che affida a ogni discepolo perché se la prenda a cuore.
Si ha qui insomma quell’esperienza che nell’ambito fotografico si chiama sovrimpressione e consiste nel mettere una sopra l’altra due immagini stampate su carta trasparente in modo che la prima – sotto – coincide con la seconda (sopra), e questa a sua volta completa e arricchisce la prima che sta sotto. E’ così anche per Maria e la Chiesa, o per la Chiesa e Maria. Al punto che una devozione alla Madonna senza amore per la Chiesa è una falsa devozione, poco o niente cristiana; e un amore per la Chiesa senza devozione alla Madonna è freddo e povero di vera sensibilità.
Il Beato Antonio Rosmini (l’avrete sentito nominare ancora) quand’era Parroco a Rovereto nel 1835, predicava così: «Madre amorosa, è per noi quella Chiesa cattolica, o fratelli miei, che con le acque del Battesimo ci ha partoriti alla vera vita, e ci nutre col latte e col pane della Parola di Dio; e Madre anch’essa pienissima d’amore è Maria, che dando alla luce il nostro fratello primogenito Gesù, nel quale siamo tutti figli di Dio, se stessa e noi generò e partorì con la potenza dello Spirito santo... Come la Chiesa è Madre di Gesù in noi, così Maria, la Madonna, è Madre nostra grazie a Gesù» che ce l’ha donata. Ecco la vera, cristiana devozione a Maria.
Cosa dà di nuovo questa pagina dell’Apocalisse alla nostra devozione alla Madonna?
La convinzione che Maria, la Madre di Gesù e dei fratelli di Gesù, non è una creatura in provetta o sotto una campana di vetro, non ha il suo habitat in un ambiente asettico, lontano dalle tribolazioni, dalle grane e dai problemi; è splendida di tutto lo splendore di Dio, ma ciononostante rimane umana, capace di soffrire e di gridare. Nella sua lettera enciclica dedicata alla Madonna, il Papa san Giovanni Paolo II afferma: «Maria sta al centro stesso di quella lotta che accompagna la storia dell'umanità sulla terra e la storia stessa della nostra salvezza» (Redemptoris Mater).
Al centro della lotta, notate bene: credo che dovremo imparare a sentirla così la Madonna: più addentro, più al centro di tante lotte che caratterizzano la vita della Chiesa e dei cristiani sulle frontiere della giustizia, della promozione umana, della difesa della vita, della cura delle malattie, della ricerca della pace: tutti ambiti nei quali è necessario portare verità, partorire ancora Gesù Cristo. E forse questo ci aiuterà anche ad essere Chiesa così,tutti quanti, al centro della storia, là dove si attende che diventi visibile quella vittoria che il Signore con la sua Pasqua ha già ottenuto una volta per sempre.
* * *
2. Inflazione di apparizioni?
E' un lettore del settimanale diocesano a porre questa questione:
...mi chiedo spesso in questi giorni a cosa sia dovuto questo rinnovato interesse rispetto al tema della apparizioni della Madonna (penso anche al successo della rivista dei Paolini “Maria con te”), nonostante la prudenza con cui il Papa affronta questi fenomeni come si è visto nel caso di Mediugorje. Anche in Pinè quest’anno si ricordano le apparizioni di 290 anni fa, ma a me sembra che alla sensibilità moderna e anche a quella dei nostri figli parlare di apparizioni sia piuttosto controproducente, nel senso che c’è molto scetticismo verso la verità storica e anche verso un certo devozionismo.
Il Rettore risponde:
Quello cui si riferisce il lettore è sintomo di un fenomeno che travalica l’ambito religioso; non facile da valutare del resto, anche perché non solo la teologia, ma anche altre scienze umane avrebbero qualcosa da dire al riguardo. La frequenza di “apparizioni” nel Cristianesimo, tuttavia, non dovrebbe meravigliare troppo: è una “fede storica”, non solo nel senso che ha visto la luce nel corso della storia e in una cultura ben precisa, ma anche perché ritiene che il Trascendente stesso ha scelto di abitare la storia, animandola di ideali e valori che la rendano via via più umana, o quantomeno le evitino il rischio di retrocedere a “giungla”.
Non spetta alla Chiesa peraltro rendere autentiche le apparizioni; essa si limita a dichiarare credibili quelle che – per le modalità e per i messaggi che trasmettono – sono in perfetta sintonia con il Vangelo di sempre. Ma il Vangelo, lo si sa, non di rado rischia di venire dimenticato o, se non altro, di passare in second’ordine: è allora che le apparizioni ritenute credibili sollecitano i cristiani a darsi una mossa, a ritrovare coerenza, a convertirsi al vangelo in una parola. La patente di credibilità data dalla Chiesa, tuttavia, non ha alcun valore dogmatico: a quelle apparizioni si può credere, se ne possono trarre vantaggi preziosi, ma non vi è alcun obbligo di ritenerle autentiche.
Il fenomeno è comunque complesso, al punto da non sfuggire al rischio d’ambiguità: che “anche Satana possa mascherarsi da angelo di luce” è un dato di fatto quantomeno fin dai tempi di san Paolo (sono parole sue: 2Cor 12,14). Gli astuti, abili a trarre profitto anche da fenomeni solo in apparenza religiosi, non sono mai mancati né mai mancheranno. In genere, tuttavia, non è necessario troppo tempo per smascherarli.
Ma perché tali fenomeni – veri o presunti che siano – abbondano proprio in quest’epoca? Si direbbe che certa religiosità, cacciata rumorosamente dalla porta alcuni decenni or sono, stia rientrando stranamente dalla finestra. Cos’è mai accaduto? Cause e motivazioni hanno radici che risalgono quantomeno nell’epoca dei “lumi” (illuminismo). Non è questo il luogo di disquisizioni troppo approfondite, basti dire che se la cultura biblica riteneva che la persona avesse quale unico centro il “cuore” (inteso come sede simbolica sia di pensiero e di ragionamento, sia di sentimento e di volontà), in Occidente quel centro è stato spezzato in due: cervello (sede di raziocinio, pensiero, progettualità) e cuore (simbolo di affettività, sentimenti ed emozioni). L’illuminismo ha privilegiato a tal punto la capacità razionale dell’uomo (il cervello, con le sue tipiche competenze e abilità) da misconoscere e ridicolizzare come retrogrado tutto ciò che riguarda il sentimento, l’affettività, l’emotività, la volontà stessa (il cuore in una parola). Le apparizioni, con quel comune denominatore di messaggi che parlano di vicinanza divina compassionevole, di condiscendenza e tenerezza materna o amica, di conversione come scelta di volontà, fanno pensare a “interventi divini d’emergenza” in soccorso di una dignità umana ridotta a puro raziocinio, e pertanto impoverita e in progressivo degrado. E’ nota l’affermazione di Pascal a tale riguardo: “Il cuore conosce delle ragioni che la ragione non conosce”. Le immani atrocità che hanno insanguinato il secolo scorso non sono che l’estremo risultato di una razionalità assoluta e tirannica (dov’era finito il cuore?); da qui il conseguente crollo delle ideologie e la diffidenza nei confronti di ogni dogmatismo astratto (anche in ambito religioso).
Ma val la pena - per reazione - affidarsi in maniera acritica a ogni fenomeno anormale? La presunzione che privilegia o assolutizza la dimensione razionale, che rifiuta o sorride quantomeno di fronte al fenomeno “apparizioni”, non s’è ancora esaurita, ma tuttavia già si va ridimensionando (la vera scienza, dal canto suo, non teme di riconoscere i suoi limiti); nella cultura e nell’esperienza umana invece tale presunzione va …zoppicando: prova ne siano le espressioni di plagio (in ambito esoterico, oltre che religioso, e perfino politico) di cui cadono facilmente vittime individui che pure si gloriano di eccellere per razionalità e atteggiamento critico.
Papa Francesco, doverosamente prudente e personalmente critico, com’è noto, verso il fenomeno Medjugorie, non poteva esimersi dal prendere provvedimenti “pastorali” in un ambito che vede comunque autentiche manifestazioni di fede, né dal consentire un degno svolgimento di pellegrinaggi, a prescindere da qualsiasi riconoscimento sui veri o presunti fatti che sarebbero all’origine del fenomeno. Tutto ciò è interessante: conferma, se non altro, che – se spetta al Magistero ecclesiale il compito di discernere il vero dal falso nelle apparizioni – tutto il popolo di Dio dal canto suo possiede un “senso di fede” che può trasformare un luogo in "serbatoio" privilegiato di spiritualità cui dare un proprio apporto e da cui attingere a propria volta. E questo a prescindere dal credere o meno a ciò che può esservi accaduto alle origini. (Il che, se pure in misura minore, vale anche per Pinè: nonostante deposizioni credibili e verbalizzate in processi canonici, il fenomeno apparizioni non ha mai avuto un riconoscimento ufficiale da parte del Magistero della Chiesa; la sua credibilità è legata da un lato all’assidua partecipazione di Vescovi diocesani e della regione Triveneta a particolari eventi del santuario, e dall’altro all’ininterrotto affluire di pellegrini. Tutto ciò, in ogni caso, non consente di relegare a dato archeologico o a pura suggestione quanto accadutovi 290 anni fa’. Se l’autenticità di Pinè non ha avuto alcun riconoscimento “cartaceo”, l’ha certamente avuto di fatto!).
Al lettore, che si chiede se non sia controproducente parlare di apparizioni ai figli, posso rispondere così: se ho occasione di parlare di fede con un adolescente o un giovane, non comincerò dall’argomento “apparizioni”: vi è una gradualità d'importanza anche nell’annuncio, oltre che nell'esperienza cristiana. Ma soprattutto lo solleciterò ad armonizzare cervello e cuore, sia nell’esperienza di fede che nella vita, per non ritrovarsi domani una personalità ridotta in dignità e alquanto impoverita.
* * *
3. Accoglienza o rifiuto, secondo la Bibbia
(Premessa: chi trovasse fuori luogo un argomento come questo sul Sito d'un Santuario dedicato alla Madonna, apra il Vangelo di Luca al capitolo 1 e legga con attenzione il Cantico di Maria dal verso 46 al 55, in particolare le espressioni dei versetti 51.52.53: dicono chiaramente a chi vanno le attenzioni e premure della Madonna...).
Riflessione Quaresimale tenuta a Comunità della Valsugana nell'aprile 2019
- “Non possiamo accogliere tutti!”
- “Ma allora perché li facciamo venire?!”
Questa è l'ultima di una serie di riflessioni già fatte e offre l'opportunità di portare uno sguardo riassuntivo su ciò che la Bibbia dice riguardo al fenomeno ben noto e ormai inarrestabile qual è quello delle immigrazioni. Accoglienza o Rifiuto è la grande alternativa, carica di conseguenze per il futuro di tutti. Quando si dice Bibbia o Vangelo, tuttavia, c’è il rischio che alcuni ci vedano un bel bagaglio di teorie e di ideali… (o un libro da sventolare in occasione di comizi elettorali, senza averlo mai aperto e tantomeno letto probabilmente), ma che i dati di fatto, la cosiddetta realtà, sia tutt’altro. E allora mi si permetta di iniziare – anziché dalla Bibbia – da alcuni dati di fatto che però non sono molto noti, perché i mass media abitualmente non ne parlano…
Dati di fatto
Alla fine della Seconda guerra mondiale i muri che separavano una nazione da quella accanto erano appena sette. Dal 1989 ai nostri giorni i muri ufficiali che impediscono l’ingresso nell’una nazione o nell’altra nazione pare siano almeno 77. Se non sono muri di pietra o di cemento (come quello che divide la Terra Santa da Nord a Sud) sono comunque barriere: fatte di filo spinato o di reti di recinzione (come quella di 175 Km che separa l’Ungheria dalla Serbia). I muri sono ostacoli reali ma anche simboli: dicono chiaramente che tipo di mondo si intende costruire per il domani. Papa Francesco, nell’intervista concessa ai giornalisti durante il viaggio di rientro dal Marocco, si è espresso così: “Chi alza muri… alla fine ne resta prigioniero”.
Altro dato di fatto: viste le difficoltà di entrare nei Paesi Europei per via mare, l’anno scorso (2018) 25 mila fuggitivi dalla Siria, dall’Iraq, dall’Afghanistan e dal Pakistan (giovani uomini, donne e famiglie con bambini, che fuggono da guerre, persecuzioni politiche e fame) hanno scelto la via dei Balcani, attraversando la Bosnia e poi l’Ungheria. Chiusi i passaggi per l’Ungheria, è rimasto solo un lembo di Bosnia che si incunea nell’Unione europea passando per la Croazia. A quel confine con la Croazia stazionano da mesi in condizioni miserabili miglia di questi fuggitivi. Spesso fanno il «Game» (il gioco, è la parola con cui i profughi ironicamente chiamano il tentativo di entrare nell’Unione europea). Partono in genere di notte, in piccoli gruppi, cercando di attraversare la Croazia (paese Europeo, cattolico). Spesso la polizia croata li intercetta con droni, cani e rilevatori di calore, e li respinge in Bosnia. Vengono picchiati, umiliati e derubati dei pochi soldi che hanno, mentre i loro telefonini, indispensabili per orientarsi col Gps nella fitta foresta, sono distrutti a manganellate. Quasi sempre sono ricacciati in Bosnia in condizioni pietose. La popolazione Bosniaca, in maggioranza musulmana, li aiuta come può.
L’accoglienza per la Bibbia non è un optional
La Bibbia non si perde a trattare di cose secondarie; tratta sempre di esperienze essenziali per la vita: l’accoglienza è tra queste. C’è tutta una serie di parole diverse che la illuminano e aiutano a capirla in tutta la sua ampiezza: prima fra tutte la parola “ospitalità”, con tutta la sua carica tipicamente orientale che possiede.
L’esperienza dell’essere accolto e quindi il dovere di accogliere è essenziale ad ogni individuo umano, ma per il popolo della Bibbia lo è in modo del tutto particolare: nessuna cultura, nessun popolo può esimersi dal praticare l’accoglienza, tento meno quel popolo. I motivi sono presto detti: il primo fra tutti è di ordine storico-culturale. Cioè, alle sue origini, quel popolo (gli Ebrei) ha delle radici nomadi, o semi-nomadi: era un popolo di pastori. Questo implicava la necessità di vivere in clan, in tribù, con forti legami di solidarietà; tra i nomadi, nel deserto soprattutto, da soli si muore, non si può sopravvivere. Ed è talmente forte questa consapevolezza che ogni clan, ogni tribù, si fa in quattro per non lasciare nessuno da solo: accogliere è sottrarre al pericolo certo di morire; è dare la possibilità di sopravvivere. Da qui l’antichissimo e sacro dovere dell’ospitalità nei confronti di chiunque. L’accoglienza, in una cultura così, non è un hobby, un optional: è una reale necessità. Ora, se ci si riflette, non può che essere molto significativo per noi il fatto che Dio abbia scelto come strumento di salvezza per tutta l’umanità un popolo per il quale l’apertura all’altro e la solidarietà non sono valori di contorno, ma la spina dorsale del suo stesso esistere…un popolo per il quale accogliere o non accogliere è questione di vita o di morte.
Questo, quindi, il motivo storico-culturale per cui nella Bibbia l’accoglienza è un argomento molto ricorrente.
L’altro motivo lo possiamo definire “storico-religioso”. E’ legato alla storia di quel popolo; storia fatta sovente di oppressione, di schiavitù, di esilio, di dispersione. L’esperienza di fede che quel popolo fa, avviene soprattutto in situazioni come queste: Dio si manifesta come colui che interviene a liberare, a ricuperare un’identità perduta, a riportare uomini e donne alla loro dignità originaria. Significativo e fondamentale per tutta l’esperienza riferita dalla Bibbia è l’intervento di Dio per liberare gli Ebrei dall’oppressione dell’Egitto: “Ho udito il grido del mio popolo, ho visto le sue sofferenze, sono sceso per liberarlo”: è così che Dio si presenta a Mosè. E non è solo libertà dall’oppressione quella che attua; una volta tolta l’oppressione avviene un’accoglienza reciproca tra Dio e quella gente: “Io sarò il vostro Dio – dice - e voi sarete il mio popolo”. Questa vicenda, questa avventura di liberazione dalla schiavitù e di accoglienza nell’amicizia di Dio, dovrà avere conseguenze reali anche sui comportamenti: quel popolo dovrà praticare verso tutti quella sollecitudine, quella stessa accoglienza che Dio ha usato nei suoi confronti. Le leggi sui rapporti sociali saranno animate proprio da questa motivazione: erano schiavi, alla mercè di chiunque; Dio li ha liberati e li ha fatti suo popolo. Quindi dovranno avere un’attenzione, una cura privilegiata per chiunque abbia bisogno di libertà, di dignità, di calore umano: in particolare il forestiero, l’orfano, l’oppresso di qualsiasi razza o cultura.
Tutti i codici legislativi contenuti nella Bibbia, dal più antico (contenuto nel libro dell’Esodo) al più recente di 700 anni dopo (Levitico) sono contrassegnati dal perenne riferimento a questa esperienza originaria che diventa una sensibilità permanente. Eccone qualche esempio: "Non molesterai lo straniero né lo opprimerai, perché anche voi siete stati stranieri nel paese d'Egitto” (Es. 22,20). “Lo straniero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l'amerai come te stesso perché anche voi siete stati stranieri nel paese d'Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio” (Lv 19,33). “Amate dunque lo straniero, poiché anche voi foste stranieri nel paese d'Egitto” (Dt 10,19).
Insomma, l’esperienza della salvezza vissuta in un frangente molto concreto, finisce col contrassegnare tutti i rapporti interpersonali, specie verso coloro che di quella salvezza hanno bisogno in termini altrettanto concreti. E’ Dio stesso che si fa garante di un tale comportamento: come lui s’è comportato con te, allorché eri in situazioni disperate, allo stesso modo dovrai comportarti tu verso chiunque si trovi in situazioni analoghe alle tue. Il dovere dell’accoglienza ha qui la sua motivazione storico-religiosa: è un dovere che scaturisce da una storia in cui Dio è stato sentito e sperimentato come operosamente accogliente; la salvezza, per il popolo della Bibbia, non è che un altro nome per dire accoglienza: un’accoglienza in cui Dio stesso è all’opera.
E noi cosa c’entriamo?
Qualcuno potrebbe obiettare a questo punto: “Beh, noi non siamo ebrei… I nostri antenati non sono stati schiavi in Egitto… non hanno sperimentato alcuna liberazione…Quindi non siamo tenuti all’accoglienza degli stranieri… Perché mai dovremmo accoglierli?”. Qui la risposta è presto data: E’ vero: noi non siamo Ebrei… non siamo mai stati schiavi in Egitto, né liberati e guidati a una Terra promessa… Ma è vero che siamo italiani… e non è passato neancora un secolo da quando - da tutto il Trentino (ma possiamo dire dall’Italia) -singoli individui e intere famiglie erano costrette dalle situazioni economiche miserevoli ad emigrare in altri Paesi del mondo… e non erano pochi a fare tale esperienza. A volte erano accolti, potevano vivere in maniera dignitosa, alcuni fecero fortuna nel pieno senso della parola; altri trovavano difficoltà, ostacoli…erano guardati con sospetto.
Oggi chi rifiuta accoglienza agli stranieri che premono alle frontiere, porta come motivo il fatto che tra loro ci sarebbero delinquenti e la loro delinquenza metterebbe a rischio la nostra sicurezza… E allora va anche detto che spesso la delinquenza è conseguenza del rifiuto e delle chiusure che incontrano: troppo sovente è la mancata accoglienza che trasforma gli immigrati (soprattutto se giovani) in manovalanza o preda di organizzazioni criminali. Il che – guarda caso – è accaduto anche tra gli italiani che emigrarono in altri paesi: negli Stati Uniti si parla inglese, ma c’è una parola italiana che tutti conoscono: “mafia”. Non l’hanno inventata i pellerossa o gli esquimesi: la mafia negli Stati Uniti l’hanno importata immigrati italiani.
A questo punto, se è vero che le Parole di Dio restano vive per sempre e non passano mai, come credenti (oltre che come semplici cittadini italiani) dovremo adattare a noi quelle frasi della Bibbia che citavo poco fa’: “Non molesterai lo straniero né lo opprimerai, perché anche voi siete stati stranieri in vari Paesi del mondo. “Lo straniero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l'amerai come te stesso perché anche voi siete stati stranieri… lontano dal vostro Paese d’origine”. “Amate dunque lo straniero, poiché anche voi avete sperimentato cosa vuol dire essere stranieri ”.
Offendere la persona è disonorare Dio
Nella vita accade che prima si fanno certe esperienze e poi, una volta fatte, ci si pensa su, si riflette. Anche il popolo della Bibbia, con l’andar del tempo, ripensò la sua storia di schiavitù e di liberazione e si domandò: “Noi abbiamo toccato con mano la sollecitudine di Dio, siamo stati accolti da lui in un rapporto di alleanza (che vuol dire: amicizia molto solida e seria); per noi è normale praticare l’accoglienza. Ma quelli che non hanno vissuto la nostra storia, che motivi hanno per essere accoglienti verso gli stranieri?". Che è come dire: cosa c’è nella persona umana bisognosa che possa far scattare la disponibilità ad accoglierla?
Qui la Bibbia dà quella motivazione che è la più fondamentale di tutte e la cui validità rimane intramontabile: la persona umana è fatta a immagine di Dio. Nel creare la stirpe umana Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza. E Dio – si legge in Genesi 1,26-27 – creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò”. Questo è il motivo più decisivo che fonda la dignità della persona e fa scattare l’atteggiamento di accoglienza nei suoi confronti.
Comunque la si intenda questa affermazione biblica, essa comporta un significato che è senz’altro chiaro: nella persona c’è qualcosa di Dio; trattare con qualsiasi persona significa aver a che fare in qualche modo con Dio stesso. Il che risulta ancora più vero da un altro dato di fatto: gli ebrei non potevano rappresentare Dio in immagini (statue, affreschi…): no, era vietato nel modo più assoluto. Appare allora ancor più chiara l’importanza rivoluzionaria di questa affermazione: dire che “l’uomo è immagine di Dio” equivale a dire: se vuoi onorare Dio, onora la persona umana; ciò che fai a lei (onore o offesa che sia) è fatto a Dio stesso. La persona umana vale più di tutte le statue e di tutti i dipinti delle nostre chiese: il vero culto, la giusta venerazione si deve tributare in termini d’intervento operoso alla persona bisognosa, ben più che alle statue di legno o ai quadri dei santi…
A questo punto è chiaro che le vere relazioni interpersonali – le prime in assoluto – non siano quelle che costruiscono gli uomini tra loro, ma quelle che Dio ha instaurato con il suo popolo, con noi in ultima analisi. E se parliamo di accoglienza, non siamo noi gli inventori dell’accoglienza: è Dio che ha cominciato; noi siamo suoi imitatori, persone e famiglie che camminano su una strada che Lui per primo ha già aperto.
Tutto questo lo deduco da quella parte molto consistente della Bibbia che si chiama Antico Testamento. Ma allora se ne conclude: se già nell’Antico Testamento si ragionava così (ed era più di 2000 anni fa’…), i credenti che oggi rifiutano accoglienza agli stranieri sono davvero più progrediti, più civili, più umani rispetto al popolo dell’Antico Testamento, o non sono invece più rozzi, più selvaggi e più disumani?
Chi è saggio, si prepari all’ultimo esame
Il Nuovo Testamento (cioè il Vangelo) ha ancora molto altro da aggiungere a ciò che dice l’Antico. Come la pensa Gesù Cristo, e di conseguenza il suo Vangelo, riguardo all’accoglienza?
Completa e arricchisce in modo del tutto eccezionale quanto era già stato preannunciato. Allorchè Dio inaugura il suo Regno tra gli uomini, accoglie tutti, ma – tra tutti – accoglie di preferenza i poveri, gli ultimi, gli “scarti” della società. Quando costoro si accostano a Gesù, in Gesù è Dio stesso che si fa accoglienza, e allora la vita e la persona di chi viene accolto è trasformata. Nelle persone bisognose ci sono delle prerogative, delle potenzialità nascoste che solo l’accoglienza può mettere in luce e in azione.
La presentazione più sorprendente del significato e del valore di tutto ciò ce la consegna l’evangelista Matteo al capitolo 25 del suo Vangelo. Dire “capitolo 25” è già dire qualcosa di molto particolare: subito dopo, al 26, comincia il racconto della Passione di Gesù. Quindi con il capitolo 25 Gesù finisce di insegnare (a parole), dopo non potrà più dire nulla (insegnerà con l’esempio). Ebbene, l’ultima lezione del capitolo 25 è una parabola, nella quale dice ciò che gli sta più a cuore: è come un testamento. In un testamento non si raccontano storielle, si dicono solo cose essenziali, vitali. Ecco infatti:
«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”.
E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna»(25,31-46).
Ecco l’ultima lezione di quel Maestro che è Gesù Cristo. Dire lezione forse è dire troppo poco: qui ci viene preannunciato in anticipo ciò su cui saremo interrogati il giorno del nostro ultimo esame, quando ci presenteremo davanti a Gesù Cristo (beh, per chi deve affrontare un esame è una fortuna conoscere in anticipo l’argomento su cui sarà interrogato: non vi pare?). E non è un esame da poco: ne va della nostra promozione o della nostra bocciatura: eterna, notate bene (non ci saranno esami di riparazione dopo quell’ultimo esame).
Quindi noi sappiamo che in ogni persona bisognosa di aiuto (affamato, assetato, nudo, malato, straniero, prigioniero…) è presente nientemeno che Gesù Cristo, e che ciò che facciamo o rifiutiamo a quella persona, è fatto o rifiutato nientemeno che a lui. “Ma (obietterà qualcuno) … io non riesco a vederci Gesù Cristo nel marocchino, o nel nigeriano, o nei volti dei disperati che attraversano il Mediterraneo sui gommoni (che non di rado affondano con le tragiche conseguenze che sappiamo)… Non riesco a vederci Gesù Cristo in loro…”. Ma chi pretende che tu lo veda? Avete sentito la parabola: nemmeno i giusti – cioè quelli che hanno fatto ciò che era necessario e urgente fare –ci vedevano Gesù Cristo… “Quando mai, Signore?”… chiedono. E lui: “Ero io… anche se non mi vedevate, l’avete fatto a me”.
Eh, ai nostri giorni, questa pagina di vangelo dovrebbe essere letta e proclamata più spesso nella nostre chiese, perché ci sono cristiani praticanti che non l’hanno imparata ancora bene. E allora a questi cristiani andrebbe rivolta questa domanda: “Voi siete praticanti… tutte le Domeniche a Messa… Ma siete anche credenti?”. (Di solito si distingue tra credenti praticanti e credenti non praticanti; eh no, ormai occorre distinguere anche tra praticanti credenti e praticanti affatto o poco credenti, perché chi ignora o rifiuta questa pagina di vangelo - che sarà materia dell’ultimo esame - non può dirsi credente in Gesù Cristo. Il nostro Vescovo l’ha ribadito a chiare lettere nei giorni scorsi (e proprio in base a questa pagina di vangelo): “Chi dimentica il malato e il povero, chi dimentica il migrante, dimentica Dio”.
Coraggiosi nella denuncia
oltre che generosi nell’accoglienza
La Bibbia però non si limita a raccomandare l’accoglienza, Gesù Cristo non si accontenta di dire che nei bisognosi è presente lui stesso. Sia i profeti dell’Antico Testamento, sia lo stesso Gesù Cristo, mettono a nudo la menzogna, la malvagità, lo sporco interesse di quei pochi o tanti che con le loro imprese producono folle e moltitudini di bisognosi…
“Guai a voi che opprimete i poveri, che li depredate di quel poco che hanno… Le vostre mani grondano sangue!” grida Isaia ai responsabili del suo tempo 7 secoli prima di Cristo.
Il messaggio biblico-cristiano denuncia a chiare lettere il male che è la vera causa di certi fenomeni problematici. Oggi la Chiesa rischia di insistere quasi esclusivamente sul dovere dell’accoglienza, dimenticando l’altro suo dovere, che è la denuncia delle cause che provocano le migrazioni: in tal modo si rischia di allargare sempre più il baratro tra chi accoglie e chi rifiuta, e molta gente continua a guardare col prosciutto sugli occhi a questo fenomeno. No, come cristiani (oltre che in quanto “umani”) abbiamo anche il dovere di far aprire gli occhi a chi continua a non vedere, o a non voler vedere. Cosa intendo dire parlando di denuncia delle cause? La maggioranza di quelli che noi chiamiamo migranti, fuggono da violenze, da guerre, da dittature sanguinarie. Una minoranza invece è alla ricerca di un tenore di vita più dignitoso: “migranti economici” vengono definiti.
Si dice e si ripete con apparente buon senso: “Ma non possiamo accogliere tutti!”. Il che è vero, ma è solo una mezza verità; perché? Perché all’affermazione “non possiamo accogliere tutti” si dovrebbe sempre ribattere con questa domanda: “Ma allora… perché li facciamo arrivare?”. Eh, sì…siamo noi (noi italiani, noi europei, noi Occidente) che li facciamo arrivare. I migranti economici, ad esempio, quelli che fuggono dalla povertà… Grazie ai canali televisivi satellitari, captabili ormai anche nei Paesi più poveri del Terzo mondo, gli spot pubblicitari che presentano l’Occidente (e l’Italia in ispecie) come il “paese dei balocchi”, funzionano come “specchietti per le allodole”: non si devono esporre specchietti per le allodole e poi lamentarsi perché le allodole abboccano. Ecco perché siamo noi che li facciamo arrivare.
La maggioranza però sono profughi o rifugiati che scappano da guerre e violenze e dittature sanguinarie. Ma le guerre non si combattono … con gli stuzzicadenti, ma con le armi; le violenze non sono a sassate, sono a suon di bombe che esplodono… E da dove arrivano le armi, gli ordigni modernissimi e micidiali? Dai nostri Paesi Occidentali, Italia compresa. Il commercio delle armi è l’unico che non conosce crisi. Il fatturato della vendita di armi da parte dell’Italia nell’anno 1914-1915 era di quasi tre miliardi di Euro; l’anno dopo era triplicato: più di 8 miliardi. Nel 1917 (già sotto il precedente governo) era di oltre 10 miliardi. Qualche mese fa’ ad Abu Dhabi (capitale degli Emirati Arabi in Medio Oriente) è stata fatta l’esposizione internazionale delle armi da guerra: l’italia era rappresentata da 30 aziende diverse. Il sottosegretario al Ministero della Difesa vi si recò e nell’intervista ai giornalisti disse che “Il mercato delle armi è un business da sfruttare al massimo. Anche questo vuol dire fare politica, quella buona, e gli interessi dell’Italia». Ciò vuol dire che il fatturato in armi (già alto con il precedente governo), con l’attuale è destinato a crescere ulteriormente. E con il fatturato cresceranno i profughi, i rifugiati, perché la gente del Medio Oriente non sta lì ad aspettare le bombe che cadono dal cielo: scappa, se può… Infatti i principali partner commerciali dell’Italia sono l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e i Paesi del Centr’Africa: paesi che ufficialmente non sono in guerra (la costituzione italiana non consentirebbe di vendere armi a paesi in guerra). L’Arabia Saudita e gli Emirati arabi distribuiscono poi le armi acquistate ai rivoltosi dello Yemen, ad AlQaida, al Daèsh o Isis che si dica. A questo punto, come meravigliarsi se le bombe nello Yemen (notizie di tempo fa’) cadono su bambini di un parco giochi facendo strage, o su una casa di sei persone dove c’è una donna incinta e 4 bambini… (tutti uccisi) e, guarda caso, sul luogo si rinvengono poi resti di bombe e un anello di sospensione con il marchio di fabbrica “Italia”? Il parlamento europeo ha emanato già tre risoluzioni per esortare gli stati membri a non vendere armi all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi, perché è provato che provocano crimini di guerra a danno di persone inermi. L’Italia ha completamente disatteso queste risoluzioni.
Papa Francesco non perde occasione di denunciare il drammatico legame che intercorre tra il mercato delle armi di cui si avvantaggia l'Occidente e il fenomeno dei profughi e rifugiati in cerca di sicurezza e troppo sovente rifiutati e respinti; nel suo Messaggio per la prossima Giornata del Migrante e del Rifugiato (29 settembre 2019) scrive così: «Le guerre interessano solo alcune regioni del mondo, ma le armi per farle vengono prodotte e vendute in altre regioni, le quali poi non vogliono farsi carico dei rifugiati prodotti da tali conflitti».
A questo punto, penso non ci sia bisogno di spiegare quella domanda: “Perché facciamo arrivare migranti, rifugiati e profughi?”. All’affermazione “Non possiamo accogliere tutti” sarà opportuno e doveroso ribattere: “Perché allora li facciamo arrivare?”.
Ho elencato alcuni motivi, ho riportato alcuni dati (presi non dalla grande stampa , bensì da fonti meno note ma più attendibili, perchè non di rado coloro che li hanno comunicati hanno pagato un alto prezzo per questo).
Sarà opportuno, se non umanamente doveroso, ricordare almeno alcuni di questi dati, perché noi cristiani non possiamo limitarci a predicare l’accoglienza; noi dobbiamo anche denunciare le menzogne e i commerci criminali che hanno grandi responsabilità nel creare folle di disperati che chiedono accoglienza e troppe volte incontrano solo rifiuto.
Ricordiamoci che questa comunque sarà la materia d’esame sulla quale tutti saremo giudicati da Gesù Cristo, quando avremo varcato l’ultima frontiera.
(Premessa: chi trovasse fuori luogo un argomento come questo sul Sito d'un Santuario dedicato alla Madonna, apra il Vangelo di Luca al capitolo 1 e legga con attenzione il Cantico di Maria dal verso 46 al 55, in particolare le espressioni dei versetti 51.52.53: dicono chiaramente a chi vanno le attenzioni e premure della Madonna...).
Riflessione Quaresimale tenuta a Comunità della Valsugana nell'aprile 2019
- “Non possiamo accogliere tutti!”
- “Ma allora perché li facciamo venire?!”
Questa è l'ultima di una serie di riflessioni già fatte e offre l'opportunità di portare uno sguardo riassuntivo su ciò che la Bibbia dice riguardo al fenomeno ben noto e ormai inarrestabile qual è quello delle immigrazioni. Accoglienza o Rifiuto è la grande alternativa, carica di conseguenze per il futuro di tutti. Quando si dice Bibbia o Vangelo, tuttavia, c’è il rischio che alcuni ci vedano un bel bagaglio di teorie e di ideali… (o un libro da sventolare in occasione di comizi elettorali, senza averlo mai aperto e tantomeno letto probabilmente), ma che i dati di fatto, la cosiddetta realtà, sia tutt’altro. E allora mi si permetta di iniziare – anziché dalla Bibbia – da alcuni dati di fatto che però non sono molto noti, perché i mass media abitualmente non ne parlano…
Dati di fatto
Alla fine della Seconda guerra mondiale i muri che separavano una nazione da quella accanto erano appena sette. Dal 1989 ai nostri giorni i muri ufficiali che impediscono l’ingresso nell’una nazione o nell’altra nazione pare siano almeno 77. Se non sono muri di pietra o di cemento (come quello che divide la Terra Santa da Nord a Sud) sono comunque barriere: fatte di filo spinato o di reti di recinzione (come quella di 175 Km che separa l’Ungheria dalla Serbia). I muri sono ostacoli reali ma anche simboli: dicono chiaramente che tipo di mondo si intende costruire per il domani. Papa Francesco, nell’intervista concessa ai giornalisti durante il viaggio di rientro dal Marocco, si è espresso così: “Chi alza muri… alla fine ne resta prigioniero”.
Altro dato di fatto: viste le difficoltà di entrare nei Paesi Europei per via mare, l’anno scorso (2018) 25 mila fuggitivi dalla Siria, dall’Iraq, dall’Afghanistan e dal Pakistan (giovani uomini, donne e famiglie con bambini, che fuggono da guerre, persecuzioni politiche e fame) hanno scelto la via dei Balcani, attraversando la Bosnia e poi l’Ungheria. Chiusi i passaggi per l’Ungheria, è rimasto solo un lembo di Bosnia che si incunea nell’Unione europea passando per la Croazia. A quel confine con la Croazia stazionano da mesi in condizioni miserabili miglia di questi fuggitivi. Spesso fanno il «Game» (il gioco, è la parola con cui i profughi ironicamente chiamano il tentativo di entrare nell’Unione europea). Partono in genere di notte, in piccoli gruppi, cercando di attraversare la Croazia (paese Europeo, cattolico). Spesso la polizia croata li intercetta con droni, cani e rilevatori di calore, e li respinge in Bosnia. Vengono picchiati, umiliati e derubati dei pochi soldi che hanno, mentre i loro telefonini, indispensabili per orientarsi col Gps nella fitta foresta, sono distrutti a manganellate. Quasi sempre sono ricacciati in Bosnia in condizioni pietose. La popolazione Bosniaca, in maggioranza musulmana, li aiuta come può.
L’accoglienza per la Bibbia non è un optional
La Bibbia non si perde a trattare di cose secondarie; tratta sempre di esperienze essenziali per la vita: l’accoglienza è tra queste. C’è tutta una serie di parole diverse che la illuminano e aiutano a capirla in tutta la sua ampiezza: prima fra tutte la parola “ospitalità”, con tutta la sua carica tipicamente orientale che possiede.
L’esperienza dell’essere accolto e quindi il dovere di accogliere è essenziale ad ogni individuo umano, ma per il popolo della Bibbia lo è in modo del tutto particolare: nessuna cultura, nessun popolo può esimersi dal praticare l’accoglienza, tento meno quel popolo. I motivi sono presto detti: il primo fra tutti è di ordine storico-culturale. Cioè, alle sue origini, quel popolo (gli Ebrei) ha delle radici nomadi, o semi-nomadi: era un popolo di pastori. Questo implicava la necessità di vivere in clan, in tribù, con forti legami di solidarietà; tra i nomadi, nel deserto soprattutto, da soli si muore, non si può sopravvivere. Ed è talmente forte questa consapevolezza che ogni clan, ogni tribù, si fa in quattro per non lasciare nessuno da solo: accogliere è sottrarre al pericolo certo di morire; è dare la possibilità di sopravvivere. Da qui l’antichissimo e sacro dovere dell’ospitalità nei confronti di chiunque. L’accoglienza, in una cultura così, non è un hobby, un optional: è una reale necessità. Ora, se ci si riflette, non può che essere molto significativo per noi il fatto che Dio abbia scelto come strumento di salvezza per tutta l’umanità un popolo per il quale l’apertura all’altro e la solidarietà non sono valori di contorno, ma la spina dorsale del suo stesso esistere…un popolo per il quale accogliere o non accogliere è questione di vita o di morte.
Questo, quindi, il motivo storico-culturale per cui nella Bibbia l’accoglienza è un argomento molto ricorrente.
L’altro motivo lo possiamo definire “storico-religioso”. E’ legato alla storia di quel popolo; storia fatta sovente di oppressione, di schiavitù, di esilio, di dispersione. L’esperienza di fede che quel popolo fa, avviene soprattutto in situazioni come queste: Dio si manifesta come colui che interviene a liberare, a ricuperare un’identità perduta, a riportare uomini e donne alla loro dignità originaria. Significativo e fondamentale per tutta l’esperienza riferita dalla Bibbia è l’intervento di Dio per liberare gli Ebrei dall’oppressione dell’Egitto: “Ho udito il grido del mio popolo, ho visto le sue sofferenze, sono sceso per liberarlo”: è così che Dio si presenta a Mosè. E non è solo libertà dall’oppressione quella che attua; una volta tolta l’oppressione avviene un’accoglienza reciproca tra Dio e quella gente: “Io sarò il vostro Dio – dice - e voi sarete il mio popolo”. Questa vicenda, questa avventura di liberazione dalla schiavitù e di accoglienza nell’amicizia di Dio, dovrà avere conseguenze reali anche sui comportamenti: quel popolo dovrà praticare verso tutti quella sollecitudine, quella stessa accoglienza che Dio ha usato nei suoi confronti. Le leggi sui rapporti sociali saranno animate proprio da questa motivazione: erano schiavi, alla mercè di chiunque; Dio li ha liberati e li ha fatti suo popolo. Quindi dovranno avere un’attenzione, una cura privilegiata per chiunque abbia bisogno di libertà, di dignità, di calore umano: in particolare il forestiero, l’orfano, l’oppresso di qualsiasi razza o cultura.
Tutti i codici legislativi contenuti nella Bibbia, dal più antico (contenuto nel libro dell’Esodo) al più recente di 700 anni dopo (Levitico) sono contrassegnati dal perenne riferimento a questa esperienza originaria che diventa una sensibilità permanente. Eccone qualche esempio: "Non molesterai lo straniero né lo opprimerai, perché anche voi siete stati stranieri nel paese d'Egitto” (Es. 22,20). “Lo straniero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l'amerai come te stesso perché anche voi siete stati stranieri nel paese d'Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio” (Lv 19,33). “Amate dunque lo straniero, poiché anche voi foste stranieri nel paese d'Egitto” (Dt 10,19).
Insomma, l’esperienza della salvezza vissuta in un frangente molto concreto, finisce col contrassegnare tutti i rapporti interpersonali, specie verso coloro che di quella salvezza hanno bisogno in termini altrettanto concreti. E’ Dio stesso che si fa garante di un tale comportamento: come lui s’è comportato con te, allorché eri in situazioni disperate, allo stesso modo dovrai comportarti tu verso chiunque si trovi in situazioni analoghe alle tue. Il dovere dell’accoglienza ha qui la sua motivazione storico-religiosa: è un dovere che scaturisce da una storia in cui Dio è stato sentito e sperimentato come operosamente accogliente; la salvezza, per il popolo della Bibbia, non è che un altro nome per dire accoglienza: un’accoglienza in cui Dio stesso è all’opera.
E noi cosa c’entriamo?
Qualcuno potrebbe obiettare a questo punto: “Beh, noi non siamo ebrei… I nostri antenati non sono stati schiavi in Egitto… non hanno sperimentato alcuna liberazione…Quindi non siamo tenuti all’accoglienza degli stranieri… Perché mai dovremmo accoglierli?”. Qui la risposta è presto data: E’ vero: noi non siamo Ebrei… non siamo mai stati schiavi in Egitto, né liberati e guidati a una Terra promessa… Ma è vero che siamo italiani… e non è passato neancora un secolo da quando - da tutto il Trentino (ma possiamo dire dall’Italia) -singoli individui e intere famiglie erano costrette dalle situazioni economiche miserevoli ad emigrare in altri Paesi del mondo… e non erano pochi a fare tale esperienza. A volte erano accolti, potevano vivere in maniera dignitosa, alcuni fecero fortuna nel pieno senso della parola; altri trovavano difficoltà, ostacoli…erano guardati con sospetto.
Oggi chi rifiuta accoglienza agli stranieri che premono alle frontiere, porta come motivo il fatto che tra loro ci sarebbero delinquenti e la loro delinquenza metterebbe a rischio la nostra sicurezza… E allora va anche detto che spesso la delinquenza è conseguenza del rifiuto e delle chiusure che incontrano: troppo sovente è la mancata accoglienza che trasforma gli immigrati (soprattutto se giovani) in manovalanza o preda di organizzazioni criminali. Il che – guarda caso – è accaduto anche tra gli italiani che emigrarono in altri paesi: negli Stati Uniti si parla inglese, ma c’è una parola italiana che tutti conoscono: “mafia”. Non l’hanno inventata i pellerossa o gli esquimesi: la mafia negli Stati Uniti l’hanno importata immigrati italiani.
A questo punto, se è vero che le Parole di Dio restano vive per sempre e non passano mai, come credenti (oltre che come semplici cittadini italiani) dovremo adattare a noi quelle frasi della Bibbia che citavo poco fa’: “Non molesterai lo straniero né lo opprimerai, perché anche voi siete stati stranieri in vari Paesi del mondo. “Lo straniero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l'amerai come te stesso perché anche voi siete stati stranieri… lontano dal vostro Paese d’origine”. “Amate dunque lo straniero, poiché anche voi avete sperimentato cosa vuol dire essere stranieri ”.
Offendere la persona è disonorare Dio
Nella vita accade che prima si fanno certe esperienze e poi, una volta fatte, ci si pensa su, si riflette. Anche il popolo della Bibbia, con l’andar del tempo, ripensò la sua storia di schiavitù e di liberazione e si domandò: “Noi abbiamo toccato con mano la sollecitudine di Dio, siamo stati accolti da lui in un rapporto di alleanza (che vuol dire: amicizia molto solida e seria); per noi è normale praticare l’accoglienza. Ma quelli che non hanno vissuto la nostra storia, che motivi hanno per essere accoglienti verso gli stranieri?". Che è come dire: cosa c’è nella persona umana bisognosa che possa far scattare la disponibilità ad accoglierla?
Qui la Bibbia dà quella motivazione che è la più fondamentale di tutte e la cui validità rimane intramontabile: la persona umana è fatta a immagine di Dio. Nel creare la stirpe umana Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza. E Dio – si legge in Genesi 1,26-27 – creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò”. Questo è il motivo più decisivo che fonda la dignità della persona e fa scattare l’atteggiamento di accoglienza nei suoi confronti.
Comunque la si intenda questa affermazione biblica, essa comporta un significato che è senz’altro chiaro: nella persona c’è qualcosa di Dio; trattare con qualsiasi persona significa aver a che fare in qualche modo con Dio stesso. Il che risulta ancora più vero da un altro dato di fatto: gli ebrei non potevano rappresentare Dio in immagini (statue, affreschi…): no, era vietato nel modo più assoluto. Appare allora ancor più chiara l’importanza rivoluzionaria di questa affermazione: dire che “l’uomo è immagine di Dio” equivale a dire: se vuoi onorare Dio, onora la persona umana; ciò che fai a lei (onore o offesa che sia) è fatto a Dio stesso. La persona umana vale più di tutte le statue e di tutti i dipinti delle nostre chiese: il vero culto, la giusta venerazione si deve tributare in termini d’intervento operoso alla persona bisognosa, ben più che alle statue di legno o ai quadri dei santi…
A questo punto è chiaro che le vere relazioni interpersonali – le prime in assoluto – non siano quelle che costruiscono gli uomini tra loro, ma quelle che Dio ha instaurato con il suo popolo, con noi in ultima analisi. E se parliamo di accoglienza, non siamo noi gli inventori dell’accoglienza: è Dio che ha cominciato; noi siamo suoi imitatori, persone e famiglie che camminano su una strada che Lui per primo ha già aperto.
Tutto questo lo deduco da quella parte molto consistente della Bibbia che si chiama Antico Testamento. Ma allora se ne conclude: se già nell’Antico Testamento si ragionava così (ed era più di 2000 anni fa’…), i credenti che oggi rifiutano accoglienza agli stranieri sono davvero più progrediti, più civili, più umani rispetto al popolo dell’Antico Testamento, o non sono invece più rozzi, più selvaggi e più disumani?
Chi è saggio, si prepari all’ultimo esame
Il Nuovo Testamento (cioè il Vangelo) ha ancora molto altro da aggiungere a ciò che dice l’Antico. Come la pensa Gesù Cristo, e di conseguenza il suo Vangelo, riguardo all’accoglienza?
Completa e arricchisce in modo del tutto eccezionale quanto era già stato preannunciato. Allorchè Dio inaugura il suo Regno tra gli uomini, accoglie tutti, ma – tra tutti – accoglie di preferenza i poveri, gli ultimi, gli “scarti” della società. Quando costoro si accostano a Gesù, in Gesù è Dio stesso che si fa accoglienza, e allora la vita e la persona di chi viene accolto è trasformata. Nelle persone bisognose ci sono delle prerogative, delle potenzialità nascoste che solo l’accoglienza può mettere in luce e in azione.
La presentazione più sorprendente del significato e del valore di tutto ciò ce la consegna l’evangelista Matteo al capitolo 25 del suo Vangelo. Dire “capitolo 25” è già dire qualcosa di molto particolare: subito dopo, al 26, comincia il racconto della Passione di Gesù. Quindi con il capitolo 25 Gesù finisce di insegnare (a parole), dopo non potrà più dire nulla (insegnerà con l’esempio). Ebbene, l’ultima lezione del capitolo 25 è una parabola, nella quale dice ciò che gli sta più a cuore: è come un testamento. In un testamento non si raccontano storielle, si dicono solo cose essenziali, vitali. Ecco infatti:
«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”.
E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna»(25,31-46).
Ecco l’ultima lezione di quel Maestro che è Gesù Cristo. Dire lezione forse è dire troppo poco: qui ci viene preannunciato in anticipo ciò su cui saremo interrogati il giorno del nostro ultimo esame, quando ci presenteremo davanti a Gesù Cristo (beh, per chi deve affrontare un esame è una fortuna conoscere in anticipo l’argomento su cui sarà interrogato: non vi pare?). E non è un esame da poco: ne va della nostra promozione o della nostra bocciatura: eterna, notate bene (non ci saranno esami di riparazione dopo quell’ultimo esame).
Quindi noi sappiamo che in ogni persona bisognosa di aiuto (affamato, assetato, nudo, malato, straniero, prigioniero…) è presente nientemeno che Gesù Cristo, e che ciò che facciamo o rifiutiamo a quella persona, è fatto o rifiutato nientemeno che a lui. “Ma (obietterà qualcuno) … io non riesco a vederci Gesù Cristo nel marocchino, o nel nigeriano, o nei volti dei disperati che attraversano il Mediterraneo sui gommoni (che non di rado affondano con le tragiche conseguenze che sappiamo)… Non riesco a vederci Gesù Cristo in loro…”. Ma chi pretende che tu lo veda? Avete sentito la parabola: nemmeno i giusti – cioè quelli che hanno fatto ciò che era necessario e urgente fare –ci vedevano Gesù Cristo… “Quando mai, Signore?”… chiedono. E lui: “Ero io… anche se non mi vedevate, l’avete fatto a me”.
Eh, ai nostri giorni, questa pagina di vangelo dovrebbe essere letta e proclamata più spesso nella nostre chiese, perché ci sono cristiani praticanti che non l’hanno imparata ancora bene. E allora a questi cristiani andrebbe rivolta questa domanda: “Voi siete praticanti… tutte le Domeniche a Messa… Ma siete anche credenti?”. (Di solito si distingue tra credenti praticanti e credenti non praticanti; eh no, ormai occorre distinguere anche tra praticanti credenti e praticanti affatto o poco credenti, perché chi ignora o rifiuta questa pagina di vangelo - che sarà materia dell’ultimo esame - non può dirsi credente in Gesù Cristo. Il nostro Vescovo l’ha ribadito a chiare lettere nei giorni scorsi (e proprio in base a questa pagina di vangelo): “Chi dimentica il malato e il povero, chi dimentica il migrante, dimentica Dio”.
Coraggiosi nella denuncia
oltre che generosi nell’accoglienza
La Bibbia però non si limita a raccomandare l’accoglienza, Gesù Cristo non si accontenta di dire che nei bisognosi è presente lui stesso. Sia i profeti dell’Antico Testamento, sia lo stesso Gesù Cristo, mettono a nudo la menzogna, la malvagità, lo sporco interesse di quei pochi o tanti che con le loro imprese producono folle e moltitudini di bisognosi…
“Guai a voi che opprimete i poveri, che li depredate di quel poco che hanno… Le vostre mani grondano sangue!” grida Isaia ai responsabili del suo tempo 7 secoli prima di Cristo.
Il messaggio biblico-cristiano denuncia a chiare lettere il male che è la vera causa di certi fenomeni problematici. Oggi la Chiesa rischia di insistere quasi esclusivamente sul dovere dell’accoglienza, dimenticando l’altro suo dovere, che è la denuncia delle cause che provocano le migrazioni: in tal modo si rischia di allargare sempre più il baratro tra chi accoglie e chi rifiuta, e molta gente continua a guardare col prosciutto sugli occhi a questo fenomeno. No, come cristiani (oltre che in quanto “umani”) abbiamo anche il dovere di far aprire gli occhi a chi continua a non vedere, o a non voler vedere. Cosa intendo dire parlando di denuncia delle cause? La maggioranza di quelli che noi chiamiamo migranti, fuggono da violenze, da guerre, da dittature sanguinarie. Una minoranza invece è alla ricerca di un tenore di vita più dignitoso: “migranti economici” vengono definiti.
Si dice e si ripete con apparente buon senso: “Ma non possiamo accogliere tutti!”. Il che è vero, ma è solo una mezza verità; perché? Perché all’affermazione “non possiamo accogliere tutti” si dovrebbe sempre ribattere con questa domanda: “Ma allora… perché li facciamo arrivare?”. Eh, sì…siamo noi (noi italiani, noi europei, noi Occidente) che li facciamo arrivare. I migranti economici, ad esempio, quelli che fuggono dalla povertà… Grazie ai canali televisivi satellitari, captabili ormai anche nei Paesi più poveri del Terzo mondo, gli spot pubblicitari che presentano l’Occidente (e l’Italia in ispecie) come il “paese dei balocchi”, funzionano come “specchietti per le allodole”: non si devono esporre specchietti per le allodole e poi lamentarsi perché le allodole abboccano. Ecco perché siamo noi che li facciamo arrivare.
La maggioranza però sono profughi o rifugiati che scappano da guerre e violenze e dittature sanguinarie. Ma le guerre non si combattono … con gli stuzzicadenti, ma con le armi; le violenze non sono a sassate, sono a suon di bombe che esplodono… E da dove arrivano le armi, gli ordigni modernissimi e micidiali? Dai nostri Paesi Occidentali, Italia compresa. Il commercio delle armi è l’unico che non conosce crisi. Il fatturato della vendita di armi da parte dell’Italia nell’anno 1914-1915 era di quasi tre miliardi di Euro; l’anno dopo era triplicato: più di 8 miliardi. Nel 1917 (già sotto il precedente governo) era di oltre 10 miliardi. Qualche mese fa’ ad Abu Dhabi (capitale degli Emirati Arabi in Medio Oriente) è stata fatta l’esposizione internazionale delle armi da guerra: l’italia era rappresentata da 30 aziende diverse. Il sottosegretario al Ministero della Difesa vi si recò e nell’intervista ai giornalisti disse che “Il mercato delle armi è un business da sfruttare al massimo. Anche questo vuol dire fare politica, quella buona, e gli interessi dell’Italia». Ciò vuol dire che il fatturato in armi (già alto con il precedente governo), con l’attuale è destinato a crescere ulteriormente. E con il fatturato cresceranno i profughi, i rifugiati, perché la gente del Medio Oriente non sta lì ad aspettare le bombe che cadono dal cielo: scappa, se può… Infatti i principali partner commerciali dell’Italia sono l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e i Paesi del Centr’Africa: paesi che ufficialmente non sono in guerra (la costituzione italiana non consentirebbe di vendere armi a paesi in guerra). L’Arabia Saudita e gli Emirati arabi distribuiscono poi le armi acquistate ai rivoltosi dello Yemen, ad AlQaida, al Daèsh o Isis che si dica. A questo punto, come meravigliarsi se le bombe nello Yemen (notizie di tempo fa’) cadono su bambini di un parco giochi facendo strage, o su una casa di sei persone dove c’è una donna incinta e 4 bambini… (tutti uccisi) e, guarda caso, sul luogo si rinvengono poi resti di bombe e un anello di sospensione con il marchio di fabbrica “Italia”? Il parlamento europeo ha emanato già tre risoluzioni per esortare gli stati membri a non vendere armi all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi, perché è provato che provocano crimini di guerra a danno di persone inermi. L’Italia ha completamente disatteso queste risoluzioni.
Papa Francesco non perde occasione di denunciare il drammatico legame che intercorre tra il mercato delle armi di cui si avvantaggia l'Occidente e il fenomeno dei profughi e rifugiati in cerca di sicurezza e troppo sovente rifiutati e respinti; nel suo Messaggio per la prossima Giornata del Migrante e del Rifugiato (29 settembre 2019) scrive così: «Le guerre interessano solo alcune regioni del mondo, ma le armi per farle vengono prodotte e vendute in altre regioni, le quali poi non vogliono farsi carico dei rifugiati prodotti da tali conflitti».
A questo punto, penso non ci sia bisogno di spiegare quella domanda: “Perché facciamo arrivare migranti, rifugiati e profughi?”. All’affermazione “Non possiamo accogliere tutti” sarà opportuno e doveroso ribattere: “Perché allora li facciamo arrivare?”.
Ho elencato alcuni motivi, ho riportato alcuni dati (presi non dalla grande stampa , bensì da fonti meno note ma più attendibili, perchè non di rado coloro che li hanno comunicati hanno pagato un alto prezzo per questo).
Sarà opportuno, se non umanamente doveroso, ricordare almeno alcuni di questi dati, perché noi cristiani non possiamo limitarci a predicare l’accoglienza; noi dobbiamo anche denunciare le menzogne e i commerci criminali che hanno grandi responsabilità nel creare folle di disperati che chiedono accoglienza e troppe volte incontrano solo rifiuto.
Ricordiamoci che questa comunque sarà la materia d’esame sulla quale tutti saremo giudicati da Gesù Cristo, quando avremo varcato l’ultima frontiera.
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4. LA PASQUA DI CRISTO E LA NOSTRA VITA
Incontro tenuto a Baselga per iniziativa dell'AVULSS di Pinè/Civezzano
PASQUA E’ MORTE E RISURREZIONE DI GESU’ CRISTO
Un unico avvenimento inscindibile: non sono due fatti senza alcun legame tra loro. Sono un unico evento: come le due facce di una stessa medaglia...
Sapere questo è importante per capire Lui – Gesù – ma è altrettanto importante per noi, per capire le conseguenze che ne derivano. Perciò, per chi vuol comprendere che cos’è la Pasqua, la prima condizione da osservare è questa: non separare mai la Morte di Gesù dalla sua Risurrezione – mai dividere il Venerdì santo dal giorno di Pasqua: mai...
Accostiamoci allora a questo avvenimento che è meglio chiamare “mistero”: è la parola giusta. Mistero non vuol dire che è inutile cercar di capire. Vuol dire piuttosto che qui Dio entra con tutto se stesso. E lo fa per noi. Più che di capire con la testa qui si tratta di contemplare, senza la pretesa di capire tutto fino in fondo. Più che una vicenda da spiegare, il Mistero è un evento in cui per grazia di Dio possiamo entrare. Anzi: partecipare. Con le cose di Dio è sempre così.
Non è stata un incidente la morte di Gesù. Non la si può liquidare come un increscioso incidente. Troppi motivi ci impediscono di considerarla così. Un primo motivo è la consapevolezza chiara da parte di Gesù stesso di dover arrivare lì, come al suo logico traguardo, alla sua mèta. Gesù sapeva delle manovre e macchinazioni che i capi del popolo stavano tramando contro di lui. L’evangelista Marco afferma ancora all’inizio del suo vangelo che avevano deciso di toglierlo di mezzo, di eliminarlo. Quando poi gli altri vangeli raccontano gli ultimi giorni dell’attività di Gesù a Gerusalemme, danno la chiara sensazione di un cappio, di un laccio, che si stringe sempre più attorno a lui. Il vangelo di Giovanni soprattutto descrive un’ostilità, un rifiuto che si esaspera via via che passano i giorni. Gesù era consapevole di tutto questo. Ma non era solo la coscienza dell’inevitabile la sua - non dice mai: sì lo so che mi vogliono morto...ma non posso farci niente. No. Potrebbe sfuggire a quel rischio, ma non lo fa. C’è una specie di necessità che lo spinge ad affrontarlo: una necessità dai molteplici aspetti. Vediamo di comprendere.
- Anzitutto si deve tener presente che portare un messaggio come il suo in un mondo come il nostro non può che provocare contrasti, ostilità, inimicizie: ne va della sua vita. Per cui, o rinuncia a predicare quel vangelo che è venuto a portare, oppure deve mettere in preventivo che gli costerà la vita.
E Gesù non rinuncia, non cambia bandiera, anche se è stato tentato di farlo... “Il Figlio dell’uomo sarà consegnato nelle mani degli uomini che lo uccideranno...”: è lui stesso a dire queste parole, parla di se stesso Gesù…E non sono poche queste allusioni o predizioni nei vangeli. Insomma, lui è consapevole che lì deve arrivare.
Ma la necessità più radicale, più determinante di tutte, sfugge alle nostre considerazioni umane, e trova la sua motivazione in Dio, nel cuore di Dio stesso...”Il Figlio dell’uomo se ne va SECONDO QUANTO E’ STABILITO” afferma ancora Gesù: dove è stabilito? “E’ necessario che il Figlio dell’uomo soffra molto...”: ma perchè necessario?
Dopo la sua risurrezione dirà: “Bisognava che il Figlio dell’uomo fosse crocifisso...”. Bisognava: perché bisognava? Non aggiunge altro Gesù, ma si capisce che quella necessità trova la sua ragione nel cuore di Dio: dall’angolatura in cui lui vede gli uomini - le loro situazioni - la loro storia, da lì si intuisce che bisognava, era necessario che le cose andassero così. Noi possiamo solo dire che questa necessità c’entra con il peccato: lo supera, va oltre il peccato, ma certamente c’entra con il peccato. E’ il peccato la ragione ultima della morte di Gesù.
I primi discepoli, i primi cristiani, l’hanno intuito e l’hanno detto con questa espressione molto concisa: Egli morì per i nostri peccati. Noi però ci azzardiamo a domandare ancora: ma cosa significa che morì per i nostri peccati? Forse dovremmo rispondere così: se noi conoscessimo le profondità del peccato, le conseguenze nefaste del peccato, forse capiremmo anche il perchè della morte di Gesù... Ma non le conosciamo: noi siamo come quel malato colpito da un male incurabile, che va dal medico ma non sa esattamente che cos’ha: sì, accusa un po’ di febbriciattola, ma niente di grave secondo lui. La diagnosi dei medici però non sbaglia: ha una malattia maledettamente seria, tanto che la sua vita è a rischio… E c’è uno stridente contrasto allora tra la coscienza chiara del medico e l’incoscienza irresponsabile di quel malato. Ma gli effetti devastanti di quel male incurabile non tarderanno a farsi sentire.
Ebbene, di fronte al peccato, Dio è il medico che sa, noi invece no, non sappiamo. Quello che vediamo e sperimentiamo ogni giorno sono gli effetti devastanti del peccato: li vediamo e li tocchiamo con mano: in noi e attorno a noi...
Ebbene: il prezzo della guarigione è la vita di Gesù, Figlio di Dio. Solo un’energia vitale come quella di Dio poteva guarirci dalla devastazione incurabile del peccato. Gesù doveva darci la sua vita per questo. Ecco il motivo ultimo della sua morte.
Una prima conclusione allora può essere questa: quando ci vien voglia di minimizzare il peccato, di dire che è roba da niente... cerchiamo di puntare lo sguardo sul Crocifisso. Se quel Crocifisso è il Figlio di Dio, allora il peccato dal quale Lui ci guarisce è di una profondità devastante, tremenda, tanto da richiedere come antidoto nientemeno che la vita del Figlio di Dio.
In quest’ottica la morte di Gesù la dobbiamo interpretare non nel senso negativo di una vita che finisce, ma nel senso positivo di una vita che viene donata: perché altri, la cui vita rischiava di finire in modo irreparabile, potessero riprendere vita e vivere davvero con dignità.
E’ quello che Gesù ha fatto capire con grande lucidità nelle parole di quell’ultima cena. Il giorno dopo - Venerdì santo - non ci sarebbe stato nè tempo nè modo per dare spiegazioni, ed ecco che la sera della Cena Gesù le anticipa le spiegazioni necessarie: “Cosa sarà la mia morte ? E’ il dono di tutto me stesso a voi: prendete, questo è il mio corpo”.... - Morte cruenta sarebbe stata la sua, da crocifisso che sanguina da tutte le sue lividure: “Ecco il mio sangue, versato per riportarvi tutti alla vita vera che è possibile nell’amicizia di Dio, in sintonia, in alleanza con lui: questo è il sangue della nuova ed eterna alleanza”...
Perché nessuno riducesse quell’evento a un incidente senza alcun significato, Gesù l’ha sottratto al tempo che passa e l’ha reso “Eucaristia”: “fate questo in memoria di me. Ogni volta che mangiate questo Pane e bevete questo calice”... è questo evento che irrompe nella vostra vita e la risana, la guarisce, la ricupera da ogni perdizione.
Sicchè, MISTERO D’AMORE E’ LA MORTE DI GESU’
“Tanto Dio ha amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” si legge nel vangelo di Giovanni. Il Crocifisso, in ultima analisi, è la proclamazione di quanto Dio, il Padre, ama questo mondo.
La comunità dei primi discepoli ha ripensato a tutto questo. E alla domanda: Che effetti ha prodotto la morte di Gesù ? risponde: La morte di Gesù è redenzione - con la sua Croce Gesù ci ha redenti... La redenzione era quell’intervento che gli ebrei nella loro esperienza conoscevano molto bene, era diventata una specie di istituzione sociale: quando uno si indebitava al punto da dover vendere se stesso come schiavo (e magari anche la sua famiglia), per evitargli una vita indegna (inconcepibile per la mentalità biblica) il parente più prossimo era obbligato a intervenire per redimerlo, riscattarlo, pagando di persona. Quel parente allora diventava il “goèl” (parola che in ebraico significa “redentore”), e l’atto che compiva si chiamava appunto così: redenzione. Ebbene, la morte del Figlio di Dio è stata un atto di questo genere. Eravamo decaduti, indebitati fino a vendere noi stessi come schiavi, privati della nostra dignità: lui è stato quel familiare che ci ha ricomprati, ha pagato il prezzo: ci ha resi liberi, ci ha ridato la nostra dignità.
I primi discepoli hanno intuito che la morte di Gesù ha effetto d’espiazione: espiare vuol dire: mettere energia e vita dove non ce n’è più...Per la Bibbia, quello che il peccato provoca è come una specie di lento dissanguamento; e perdere sangue è perdere vita....Gli ebrei si illudevano di rimediare offrendo in sacrificio sangue di animali... ma non rimedia niente quel sangue. Per ridare quella vita che il peccato ha compromesso c’è solo Dio: ecco perché Gesù, Figlio di Dio, accetta di “versare il suo sangue per espiare il peccato”.
Una considerazione ancora.
Gesù stesso aveva paragonato l’ora della sua morte al travaglio di una donna che partorisce... La croce, la Pasqua, è come il travaglio di un parto. “Quando arriva l’ora del parto, ogni donna soffre… ma dopo che ha partorito - dice Gesù - si rallegra perchè è venuto al mondo un uomo” (non dice un bambino...). Ricorderete che Pilato, presentando alla folla inferocita Gesù umiliato e piagato, disse: Ecco l’uomo! E Pilato, in quel momento, diceva una grande verità (anche se non ne era consapevole): il crocifisso è davvero l’uomo nuovo: il primo di una razza nuova di uomini per i quali la norma non è più la disobbedienza a Dio, ma la fiducia, l’adesione incondizionata; non è più il timore degli schiavi a regnare in loro ma la confidenza... Uomini che all’offesa e all’umiliazione che subiscono possono permettersi ormai di non rispondere più con le stesse armi: e non perchè sono più deboli, ma perchè sono più forti. Quello della croce è il primo di questi uomini nuovi che possono ormai perfino trasfigurare il dolore e la morte, dando a queste esperienze un altro volto: la sofferenza è una fatalità inevitabile che mi schiaccia? Ebbene, no, non più: ora io posso trasformare la mia esistenza sofferta in una vita offerta. Ed è molto, molto diverso. E la morte, dal canto suo, ha finito di essere la signora dalla falce che viene a portarmi via la vita: d’ora in poi la morte può diventare nientemeno che un’opportunità: l’ultima grande opportunità che mi è data di donare la mia vita. A chi? Per chi? A Dio, per i miei fratelli.
E’ lo stile di Gesù, l’uomo nuovo che anche in croce - anzi, proprio sulla croce – si comporta non da vittima, ma da protagonista, da vero Signore. Nessuno infatti è così “signore” come colui che anche nella sofferenza più atroce trova il coraggio di donare, di pensare agli altri. E’ per questo che noi consideriamo Signore e Re quel Gesù che è inchiodato alla croce. Come vedete, è di capitale importanza che anche il Venerdì santo (la Croce, la passione, la morte di Cristo) faccia parte della Pasqua: ne derivano conseguenze tutt’altro che secondarie per noi.
E LA RISURREZIONE ?
“Il terzo giorno è risuscitato” afferma la nostra fede. Che Gesù di Nazaret sia esistito, che sia morto crocifisso, nessuno lo nega più, neanche gli atei più incalliti. E’ un fatto storico: punto e basta. Ma che sia risorto dai morti, solo la Fede lo dice con certezza. E dicendo solo la Fede non si vuol insinuare che la risurrezione di Gesù sia un evento irreale o inconsistente, ma si vuole semplicemente dire che sfugge alle dimostrazioni, non si lascia analizzare da prove di laboratorio...D'altronde, se Gesù non fosse risorto, dovremmo concludere che sul Calvario ha trionfato definitivamente la potenza dell’odio e del male. E allora “vana sarebbe la nostra Fede” – come dice san Paolo – e illusorio sarebbe il nostro impegno di credenti nel fare il bene.
Ma da cosa sappiamo che Gesù è risorto?
Dalla testimonianza degli Apostoli. Che si esprime nella predicazione e nei racconti dei vangeli. Testimonianza però, notate bene: non sono interessati gli apostoli a dire come è avvenuta la risurrezione di Gesù (e chi può dirlo?), ma come loro l’hanno sperimentata, vissuta. Non fanno la cronaca della risurrezione – danno una testimonianza. La nostra Fede infatti si fonda sulla testimonianza degli apostoli...
E dato che è un evento di capitale importanza nell’annuncio cristiano, tutti e quattro i vangeli la riferiscono, e la loro testimonianza segue uno schema comune:
- c’è la constatazione della tomba vuota anzitutto
- poi le apparizioni di Gesù risorto a singole persone o a gruppi ristretti
- quindi quel suo farsi presente in mezzo agli Apostoli quando meno se l’aspettano e la missione di portare l’annuncio del vangelo in tutto il mondo.
La tomba vuota è un fatto indiscutibile. Nemmeno gli avversari (Giudei) si sognarono di metterlo in dubbio... Una tomba vuota però non è prova sufficiente del fatto che quel tale che c’era dentro – morto – sia uscito vivo...
Elemento in più è la testimonianza degli apostoli che l’hanno visto risorto: l’hanno toccato, ascoltato... e questo li ha trasformati profondamente: da paurosi e disorientati quali erano prima, a quel punto diventano testimoni coraggiosi, disposti addirittura a dare la vita...
Nessuno però ha assistito alla risurrezione di Gesù. Non solo: è un evento che riguarda questo nostro mondo, questa nostra storia, ma nello stesso tempo la supera; infatti: risorgere per Gesù non significa tornare alla stessa vita di prima (così come era tornato alla vita di prima Lazzaro...). E’ un esistenza nuova e diversa quella del Risorto: è quello di prima? Sì per un certo verso; infatti lo si può toccare (e lui stesso invita a farlo, per far notare che non è affatto un fantasma...); mangia come mangiava prima, parla con la stessa voce di prima, ma, nello stesso tempo, è diverso da prima... I limiti fisici, ad esempio, per lui non ci sono più: può essere nello stesso momento sulla strada di Emmaus e anche nel cenacolo con gli apostoli; e nel cenacolo, per farsi presente, non ha nemmeno bisogno di passare per le porte: infatti le porte sono chiuse. Insomma: è un nuovo tipo di vita, una nuova modalità di esistenza quella che Gesù inaugura da risorto: è quello di prima, ma è anche molto diverso da prima...
Per dire questa diversità, quei primi testimoni che erano i discepoli hanno adoperato una parola che a noi forse dice poco ma che per loro era molto significativa: esaltazione - Gesù non solo è risorto (cioè è tornato a vivere), ma è stato addirittura “esaltato”, cioè reso più grande, anzi, innalzato: dalla terra al cielo, da una condizione solo terrena a quella condizione divina che gli è propria perchè è Figlio di Dio: siede alla destra del Padre... proclama la Fede. L’ascensione di Gesù che descrive san Luca non va interpretata come un allontanamento o un’evasione di Gesù da questa terra, dalla nostra storia, dalla nostra condizione umana, ma come un superamento dei limiti della terra e della condizione umana… Gesù in realtà è dentro la nostra storia, è qui, ma non è affatto condizionato dai limiti che abbiamo noi qui. Del resto ce l’ha assicurato: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, e se l’ha detto, non è uno che poi si rimangia le parole Gesù.
E QUALI CONSEGUENZE DERIVANO A NOI?
Se non ci fossero conseguenze - e di capitale importanza - non occorrerebbe perdere tanto tempo a parlare di queste cose, sarebbe piuttosto irrilevante credere che Gesù è morto ed è risorto...
Per amore di chiarezza distinguo le conseguenze in due categorie:
- conseguenze di senso, di significato
- e conseguenze di dinamismo, di vitalità
Conseguenze di senso: cosa cambia in noi e attorno a noi in seguito alla Risurrezione di Gesù? O meglio, come possono cambiare le nostre esperienze di fede, le nostre situazioni, le nostre visuali sul mondo e sulla sua storia?
Cambia l’esperienza della Fede, anzitutto. Tutta la vita di Gesù rivela Dio, fa capire chi è Dio per noi... Anche la sua risurrezione rivela Dio: cioè, ci fa capire che Dio è Colui del quale ci si può fidare sempre, anche quando sembra lontano o sordo alle nostre richieste di aiuto; anche quando sembra che ci abbia abbandonati; anche quando tutto sembra irrimediabilmente finito: anche in quei momenti noi possiamo fidarci di Dio senza passare per illusi. Dio ha in serbo delle risorse sorprendenti ben aldilà di quello che noi possiamo immaginare. Questa mi pare una conseguenza tutt’altro che di poco conto per la nostra Fede: portate questa conseguenza sul piano di certe esperienze umane, come la malattia, il fallimento della vita, la solitudine, l’odio di cui si può essere vittime, le ingiustizie che si possono subire, le guerre... Chiedetevi cosa significa in queste situazioni credere in un Dio che può risuscitare anche dai morti...
Tutta la realtà corre irrimediabilmente verso la morte: non c’è niente che possa sottrarsi alla decadenza, è una legge di natura. Ebbene, con la risurrezione di Gesù, Dio introduce in questo degradare verso la morte, in questa generale decadenza, un antidoto – per così dire - una corrente nuova e contraria, che spezza e supera la logica della decadenza.
Questa corrente nuova, questo antidoto, coinvolge anzitutto l’esistenza umana. Tutti sappiamo che l’esistenza umana è fatta anche di prova, tormento, tribolazione, di grane. Non raramente anche di dolore, malattia, sofferenza fisica o morale (la croce! diciamo). Ebbene, è tutto questo che riceve senso, significato nuovo dalla risurrezione di Gesù. C’è infatti un particolare interessante nei racconti delle apparizioni di Gesù risorto: lui mostra intenzionalmente le piaghe aperte dai chiodi, come per dire: Guardate che questa è la strada per giungere alla Vita in pienezza: la Croce (con tutto quello che significa “croce”...).
Quello che sul piano umano era solo materiale di scarto (il soffrire è materiale di scarto nell’esperienza umana: lo si butterebbe via come le immondizie, se solo si potesse...), ebbene, tutto questo nella logica di Dio può impreziosire la vita a tal punto da darle un valore inestimabile. “Può”, dico, non è detto che lo faccia automaticamente: ci sono vite e persone abbrutite, svilite dalla sofferenza … e ci sono vite e persone nobilitate, affinate, impreziosite da quella stessa sofferenza… Da cosa dipende? Dal modo, dallo spirito con cui la si affronta: se la persona mantiene ostinatamente la sua fiducia in Dio e non cessa di amarlo, e di amare anche chi le sta attorno, allora sì: quella sofferenza la nobilita, la affina, la impreziosisce, davanti a Dio e anche davanti agli uomini. “Gesù si è fatto obbediente a Dio fino alla morte...- cantavano i primi cristiani - proprio per questo Dio lo ha innalzato oltre ogni immaginazione”. E’ una logica, questa, che farà sempre arricciare il naso a tanta gente, in qualsiasi epoca del mondo: è “lo scandalo della croce” questo, come lo chiama san Paolo... Ciò non vuol dire che i cristiani debbano cercare di proposito la sofferenza: non siamo affatto masochisti - come non lo era Gesù del resto - ma questo ci permette di guardarla con occhi diversi da prima allorchè si presenta sulla nostra strada.
Questa preziosità, questo valore inestimabile agli occhi di Dio, non lo capiremmo se Gesù non fosse risuscitato... E’ la risurrezione che accredita, che svela il misterioso valore della vita, della persona che soffre. E’ la 15° stazione (la risurrezione) quella che impreziosisce tutte le 14 della Via Crucis che vengono prima.
Allora può farsi strada una convinzione originale e irrinunciabile nell’animo dei cristiani, e cioè questa: che se c’è dolore, c’è anche vita nuova; se c’è sofferenza e morte, c’è anche risurrezione; se c’è Venerdì santo non è possibile che non ci sia anche la Pasqua. Ormai la croce non esiste più da sola: comporta necessariamente la risurrezione: sono come le due facce di un’unica medaglia.
Ah, certo: può darsi che lo spazio intermedio tra l’una e l’altra duri più di tre giorni... può darsi che nel corso della mia esperienza terrena io non arrivi a verificare la faccia “pasquale” della mia croce, ma è comunque certo: non c’è mai più l’una senza l’altra. Per il cristiano che “vive in Cristo” - come si esprime Paolo - un rapporto inscindibile lega ormai l’esperienza del soffrire e l’esperienza del risorgere.
Ma anche SUL PIANO DEL DINAMISMO, DELLA VITALITA’ ci sono conseguenze.
Infatti, la forza divina, la potenza che ha risuscitato Gesù, è anche affar nostro. Ci riguarda e ci coinvolge direttamente. Ce lo confermano gli Apostoli, qua e là nelle loro lettere, proprio quando parlano della risurrezione di Gesù: la mettono sempre in relazione, in combinazione, con la nostra esperienza di fede.
Qualche esempio:
Non solo la fede, però, anche la speranza è coinvolta dalla risurrezione di Gesù:
“Mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, Dio, il Padre, ci ha rigenerati a una speranza viva”...scrive Pietro ai cristiani dell’Asia Minore (1Pt 1,3). Sperare da credenti (è questa la speranza viva!), cioè sperare anche contro ogni speranza, è aprire le porte della propria vita alla potenza della Risurrezione.
Non è finita: la carità – cioè la carica d’amore che ci dona Dio – come potrà non essere potenziata dalla risurrezione di Gesù?
Infatti, scrive san Giovanni: “noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita (e questo è risurrezione) dal fatto che amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte”.
Quindi, amare con quell’amore forte che Dio rende possibile anche a noi, significa aprire le porte alla potenza della risurrezione.
In altre parole: Fede - Speranza – Carità sono i canali attraverso i quali arriva fino a noi la forza della Risurrezione. E’ per questo che si chiamano “virtù teologali”. Ebbene, chi tiene aperti questi canali, consente a Dio di entrare nella sua vita, nella vita della sua famiglia, nella comunità, nella società stessa, con la stessa forza che ha messo in atto per risuscitare Gesù.
Quando tu credi, nonostante tutte le smentite - quando tu speri, contro ogni speranza - quando tu ami, come ti ha insegnato ad amare Gesù, tu partecipi alla Risurrezione. Allora, la potenza della Risurrezione può entrare nel mondo attraverso di te.
Insomma, con la Fede, con la Speranza e con la Carità, noi abbiamo tra le mani un potenziale enorme: la forza divina della risurrezione. Auguriamoci di esserne consapevoli e di saperlo adoperare bene.
Un unico avvenimento inscindibile: non sono due fatti senza alcun legame tra loro. Sono un unico evento: come le due facce di una stessa medaglia...
Sapere questo è importante per capire Lui – Gesù – ma è altrettanto importante per noi, per capire le conseguenze che ne derivano. Perciò, per chi vuol comprendere che cos’è la Pasqua, la prima condizione da osservare è questa: non separare mai la Morte di Gesù dalla sua Risurrezione – mai dividere il Venerdì santo dal giorno di Pasqua: mai...
Accostiamoci allora a questo avvenimento che è meglio chiamare “mistero”: è la parola giusta. Mistero non vuol dire che è inutile cercar di capire. Vuol dire piuttosto che qui Dio entra con tutto se stesso. E lo fa per noi. Più che di capire con la testa qui si tratta di contemplare, senza la pretesa di capire tutto fino in fondo. Più che una vicenda da spiegare, il Mistero è un evento in cui per grazia di Dio possiamo entrare. Anzi: partecipare. Con le cose di Dio è sempre così.
Non è stata un incidente la morte di Gesù. Non la si può liquidare come un increscioso incidente. Troppi motivi ci impediscono di considerarla così. Un primo motivo è la consapevolezza chiara da parte di Gesù stesso di dover arrivare lì, come al suo logico traguardo, alla sua mèta. Gesù sapeva delle manovre e macchinazioni che i capi del popolo stavano tramando contro di lui. L’evangelista Marco afferma ancora all’inizio del suo vangelo che avevano deciso di toglierlo di mezzo, di eliminarlo. Quando poi gli altri vangeli raccontano gli ultimi giorni dell’attività di Gesù a Gerusalemme, danno la chiara sensazione di un cappio, di un laccio, che si stringe sempre più attorno a lui. Il vangelo di Giovanni soprattutto descrive un’ostilità, un rifiuto che si esaspera via via che passano i giorni. Gesù era consapevole di tutto questo. Ma non era solo la coscienza dell’inevitabile la sua - non dice mai: sì lo so che mi vogliono morto...ma non posso farci niente. No. Potrebbe sfuggire a quel rischio, ma non lo fa. C’è una specie di necessità che lo spinge ad affrontarlo: una necessità dai molteplici aspetti. Vediamo di comprendere.
- Anzitutto si deve tener presente che portare un messaggio come il suo in un mondo come il nostro non può che provocare contrasti, ostilità, inimicizie: ne va della sua vita. Per cui, o rinuncia a predicare quel vangelo che è venuto a portare, oppure deve mettere in preventivo che gli costerà la vita.
E Gesù non rinuncia, non cambia bandiera, anche se è stato tentato di farlo... “Il Figlio dell’uomo sarà consegnato nelle mani degli uomini che lo uccideranno...”: è lui stesso a dire queste parole, parla di se stesso Gesù…E non sono poche queste allusioni o predizioni nei vangeli. Insomma, lui è consapevole che lì deve arrivare.
Ma la necessità più radicale, più determinante di tutte, sfugge alle nostre considerazioni umane, e trova la sua motivazione in Dio, nel cuore di Dio stesso...”Il Figlio dell’uomo se ne va SECONDO QUANTO E’ STABILITO” afferma ancora Gesù: dove è stabilito? “E’ necessario che il Figlio dell’uomo soffra molto...”: ma perchè necessario?
Dopo la sua risurrezione dirà: “Bisognava che il Figlio dell’uomo fosse crocifisso...”. Bisognava: perché bisognava? Non aggiunge altro Gesù, ma si capisce che quella necessità trova la sua ragione nel cuore di Dio: dall’angolatura in cui lui vede gli uomini - le loro situazioni - la loro storia, da lì si intuisce che bisognava, era necessario che le cose andassero così. Noi possiamo solo dire che questa necessità c’entra con il peccato: lo supera, va oltre il peccato, ma certamente c’entra con il peccato. E’ il peccato la ragione ultima della morte di Gesù.
I primi discepoli, i primi cristiani, l’hanno intuito e l’hanno detto con questa espressione molto concisa: Egli morì per i nostri peccati. Noi però ci azzardiamo a domandare ancora: ma cosa significa che morì per i nostri peccati? Forse dovremmo rispondere così: se noi conoscessimo le profondità del peccato, le conseguenze nefaste del peccato, forse capiremmo anche il perchè della morte di Gesù... Ma non le conosciamo: noi siamo come quel malato colpito da un male incurabile, che va dal medico ma non sa esattamente che cos’ha: sì, accusa un po’ di febbriciattola, ma niente di grave secondo lui. La diagnosi dei medici però non sbaglia: ha una malattia maledettamente seria, tanto che la sua vita è a rischio… E c’è uno stridente contrasto allora tra la coscienza chiara del medico e l’incoscienza irresponsabile di quel malato. Ma gli effetti devastanti di quel male incurabile non tarderanno a farsi sentire.
Ebbene, di fronte al peccato, Dio è il medico che sa, noi invece no, non sappiamo. Quello che vediamo e sperimentiamo ogni giorno sono gli effetti devastanti del peccato: li vediamo e li tocchiamo con mano: in noi e attorno a noi...
Ebbene: il prezzo della guarigione è la vita di Gesù, Figlio di Dio. Solo un’energia vitale come quella di Dio poteva guarirci dalla devastazione incurabile del peccato. Gesù doveva darci la sua vita per questo. Ecco il motivo ultimo della sua morte.
Una prima conclusione allora può essere questa: quando ci vien voglia di minimizzare il peccato, di dire che è roba da niente... cerchiamo di puntare lo sguardo sul Crocifisso. Se quel Crocifisso è il Figlio di Dio, allora il peccato dal quale Lui ci guarisce è di una profondità devastante, tremenda, tanto da richiedere come antidoto nientemeno che la vita del Figlio di Dio.
In quest’ottica la morte di Gesù la dobbiamo interpretare non nel senso negativo di una vita che finisce, ma nel senso positivo di una vita che viene donata: perché altri, la cui vita rischiava di finire in modo irreparabile, potessero riprendere vita e vivere davvero con dignità.
E’ quello che Gesù ha fatto capire con grande lucidità nelle parole di quell’ultima cena. Il giorno dopo - Venerdì santo - non ci sarebbe stato nè tempo nè modo per dare spiegazioni, ed ecco che la sera della Cena Gesù le anticipa le spiegazioni necessarie: “Cosa sarà la mia morte ? E’ il dono di tutto me stesso a voi: prendete, questo è il mio corpo”.... - Morte cruenta sarebbe stata la sua, da crocifisso che sanguina da tutte le sue lividure: “Ecco il mio sangue, versato per riportarvi tutti alla vita vera che è possibile nell’amicizia di Dio, in sintonia, in alleanza con lui: questo è il sangue della nuova ed eterna alleanza”...
Perché nessuno riducesse quell’evento a un incidente senza alcun significato, Gesù l’ha sottratto al tempo che passa e l’ha reso “Eucaristia”: “fate questo in memoria di me. Ogni volta che mangiate questo Pane e bevete questo calice”... è questo evento che irrompe nella vostra vita e la risana, la guarisce, la ricupera da ogni perdizione.
Sicchè, MISTERO D’AMORE E’ LA MORTE DI GESU’
“Tanto Dio ha amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” si legge nel vangelo di Giovanni. Il Crocifisso, in ultima analisi, è la proclamazione di quanto Dio, il Padre, ama questo mondo.
La comunità dei primi discepoli ha ripensato a tutto questo. E alla domanda: Che effetti ha prodotto la morte di Gesù ? risponde: La morte di Gesù è redenzione - con la sua Croce Gesù ci ha redenti... La redenzione era quell’intervento che gli ebrei nella loro esperienza conoscevano molto bene, era diventata una specie di istituzione sociale: quando uno si indebitava al punto da dover vendere se stesso come schiavo (e magari anche la sua famiglia), per evitargli una vita indegna (inconcepibile per la mentalità biblica) il parente più prossimo era obbligato a intervenire per redimerlo, riscattarlo, pagando di persona. Quel parente allora diventava il “goèl” (parola che in ebraico significa “redentore”), e l’atto che compiva si chiamava appunto così: redenzione. Ebbene, la morte del Figlio di Dio è stata un atto di questo genere. Eravamo decaduti, indebitati fino a vendere noi stessi come schiavi, privati della nostra dignità: lui è stato quel familiare che ci ha ricomprati, ha pagato il prezzo: ci ha resi liberi, ci ha ridato la nostra dignità.
I primi discepoli hanno intuito che la morte di Gesù ha effetto d’espiazione: espiare vuol dire: mettere energia e vita dove non ce n’è più...Per la Bibbia, quello che il peccato provoca è come una specie di lento dissanguamento; e perdere sangue è perdere vita....Gli ebrei si illudevano di rimediare offrendo in sacrificio sangue di animali... ma non rimedia niente quel sangue. Per ridare quella vita che il peccato ha compromesso c’è solo Dio: ecco perché Gesù, Figlio di Dio, accetta di “versare il suo sangue per espiare il peccato”.
Una considerazione ancora.
Gesù stesso aveva paragonato l’ora della sua morte al travaglio di una donna che partorisce... La croce, la Pasqua, è come il travaglio di un parto. “Quando arriva l’ora del parto, ogni donna soffre… ma dopo che ha partorito - dice Gesù - si rallegra perchè è venuto al mondo un uomo” (non dice un bambino...). Ricorderete che Pilato, presentando alla folla inferocita Gesù umiliato e piagato, disse: Ecco l’uomo! E Pilato, in quel momento, diceva una grande verità (anche se non ne era consapevole): il crocifisso è davvero l’uomo nuovo: il primo di una razza nuova di uomini per i quali la norma non è più la disobbedienza a Dio, ma la fiducia, l’adesione incondizionata; non è più il timore degli schiavi a regnare in loro ma la confidenza... Uomini che all’offesa e all’umiliazione che subiscono possono permettersi ormai di non rispondere più con le stesse armi: e non perchè sono più deboli, ma perchè sono più forti. Quello della croce è il primo di questi uomini nuovi che possono ormai perfino trasfigurare il dolore e la morte, dando a queste esperienze un altro volto: la sofferenza è una fatalità inevitabile che mi schiaccia? Ebbene, no, non più: ora io posso trasformare la mia esistenza sofferta in una vita offerta. Ed è molto, molto diverso. E la morte, dal canto suo, ha finito di essere la signora dalla falce che viene a portarmi via la vita: d’ora in poi la morte può diventare nientemeno che un’opportunità: l’ultima grande opportunità che mi è data di donare la mia vita. A chi? Per chi? A Dio, per i miei fratelli.
E’ lo stile di Gesù, l’uomo nuovo che anche in croce - anzi, proprio sulla croce – si comporta non da vittima, ma da protagonista, da vero Signore. Nessuno infatti è così “signore” come colui che anche nella sofferenza più atroce trova il coraggio di donare, di pensare agli altri. E’ per questo che noi consideriamo Signore e Re quel Gesù che è inchiodato alla croce. Come vedete, è di capitale importanza che anche il Venerdì santo (la Croce, la passione, la morte di Cristo) faccia parte della Pasqua: ne derivano conseguenze tutt’altro che secondarie per noi.
E LA RISURREZIONE ?
“Il terzo giorno è risuscitato” afferma la nostra fede. Che Gesù di Nazaret sia esistito, che sia morto crocifisso, nessuno lo nega più, neanche gli atei più incalliti. E’ un fatto storico: punto e basta. Ma che sia risorto dai morti, solo la Fede lo dice con certezza. E dicendo solo la Fede non si vuol insinuare che la risurrezione di Gesù sia un evento irreale o inconsistente, ma si vuole semplicemente dire che sfugge alle dimostrazioni, non si lascia analizzare da prove di laboratorio...D'altronde, se Gesù non fosse risorto, dovremmo concludere che sul Calvario ha trionfato definitivamente la potenza dell’odio e del male. E allora “vana sarebbe la nostra Fede” – come dice san Paolo – e illusorio sarebbe il nostro impegno di credenti nel fare il bene.
Ma da cosa sappiamo che Gesù è risorto?
Dalla testimonianza degli Apostoli. Che si esprime nella predicazione e nei racconti dei vangeli. Testimonianza però, notate bene: non sono interessati gli apostoli a dire come è avvenuta la risurrezione di Gesù (e chi può dirlo?), ma come loro l’hanno sperimentata, vissuta. Non fanno la cronaca della risurrezione – danno una testimonianza. La nostra Fede infatti si fonda sulla testimonianza degli apostoli...
E dato che è un evento di capitale importanza nell’annuncio cristiano, tutti e quattro i vangeli la riferiscono, e la loro testimonianza segue uno schema comune:
- c’è la constatazione della tomba vuota anzitutto
- poi le apparizioni di Gesù risorto a singole persone o a gruppi ristretti
- quindi quel suo farsi presente in mezzo agli Apostoli quando meno se l’aspettano e la missione di portare l’annuncio del vangelo in tutto il mondo.
La tomba vuota è un fatto indiscutibile. Nemmeno gli avversari (Giudei) si sognarono di metterlo in dubbio... Una tomba vuota però non è prova sufficiente del fatto che quel tale che c’era dentro – morto – sia uscito vivo...
Elemento in più è la testimonianza degli apostoli che l’hanno visto risorto: l’hanno toccato, ascoltato... e questo li ha trasformati profondamente: da paurosi e disorientati quali erano prima, a quel punto diventano testimoni coraggiosi, disposti addirittura a dare la vita...
Nessuno però ha assistito alla risurrezione di Gesù. Non solo: è un evento che riguarda questo nostro mondo, questa nostra storia, ma nello stesso tempo la supera; infatti: risorgere per Gesù non significa tornare alla stessa vita di prima (così come era tornato alla vita di prima Lazzaro...). E’ un esistenza nuova e diversa quella del Risorto: è quello di prima? Sì per un certo verso; infatti lo si può toccare (e lui stesso invita a farlo, per far notare che non è affatto un fantasma...); mangia come mangiava prima, parla con la stessa voce di prima, ma, nello stesso tempo, è diverso da prima... I limiti fisici, ad esempio, per lui non ci sono più: può essere nello stesso momento sulla strada di Emmaus e anche nel cenacolo con gli apostoli; e nel cenacolo, per farsi presente, non ha nemmeno bisogno di passare per le porte: infatti le porte sono chiuse. Insomma: è un nuovo tipo di vita, una nuova modalità di esistenza quella che Gesù inaugura da risorto: è quello di prima, ma è anche molto diverso da prima...
Per dire questa diversità, quei primi testimoni che erano i discepoli hanno adoperato una parola che a noi forse dice poco ma che per loro era molto significativa: esaltazione - Gesù non solo è risorto (cioè è tornato a vivere), ma è stato addirittura “esaltato”, cioè reso più grande, anzi, innalzato: dalla terra al cielo, da una condizione solo terrena a quella condizione divina che gli è propria perchè è Figlio di Dio: siede alla destra del Padre... proclama la Fede. L’ascensione di Gesù che descrive san Luca non va interpretata come un allontanamento o un’evasione di Gesù da questa terra, dalla nostra storia, dalla nostra condizione umana, ma come un superamento dei limiti della terra e della condizione umana… Gesù in realtà è dentro la nostra storia, è qui, ma non è affatto condizionato dai limiti che abbiamo noi qui. Del resto ce l’ha assicurato: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, e se l’ha detto, non è uno che poi si rimangia le parole Gesù.
E QUALI CONSEGUENZE DERIVANO A NOI?
Se non ci fossero conseguenze - e di capitale importanza - non occorrerebbe perdere tanto tempo a parlare di queste cose, sarebbe piuttosto irrilevante credere che Gesù è morto ed è risorto...
Per amore di chiarezza distinguo le conseguenze in due categorie:
- conseguenze di senso, di significato
- e conseguenze di dinamismo, di vitalità
Conseguenze di senso: cosa cambia in noi e attorno a noi in seguito alla Risurrezione di Gesù? O meglio, come possono cambiare le nostre esperienze di fede, le nostre situazioni, le nostre visuali sul mondo e sulla sua storia?
Cambia l’esperienza della Fede, anzitutto. Tutta la vita di Gesù rivela Dio, fa capire chi è Dio per noi... Anche la sua risurrezione rivela Dio: cioè, ci fa capire che Dio è Colui del quale ci si può fidare sempre, anche quando sembra lontano o sordo alle nostre richieste di aiuto; anche quando sembra che ci abbia abbandonati; anche quando tutto sembra irrimediabilmente finito: anche in quei momenti noi possiamo fidarci di Dio senza passare per illusi. Dio ha in serbo delle risorse sorprendenti ben aldilà di quello che noi possiamo immaginare. Questa mi pare una conseguenza tutt’altro che di poco conto per la nostra Fede: portate questa conseguenza sul piano di certe esperienze umane, come la malattia, il fallimento della vita, la solitudine, l’odio di cui si può essere vittime, le ingiustizie che si possono subire, le guerre... Chiedetevi cosa significa in queste situazioni credere in un Dio che può risuscitare anche dai morti...
Tutta la realtà corre irrimediabilmente verso la morte: non c’è niente che possa sottrarsi alla decadenza, è una legge di natura. Ebbene, con la risurrezione di Gesù, Dio introduce in questo degradare verso la morte, in questa generale decadenza, un antidoto – per così dire - una corrente nuova e contraria, che spezza e supera la logica della decadenza.
Questa corrente nuova, questo antidoto, coinvolge anzitutto l’esistenza umana. Tutti sappiamo che l’esistenza umana è fatta anche di prova, tormento, tribolazione, di grane. Non raramente anche di dolore, malattia, sofferenza fisica o morale (la croce! diciamo). Ebbene, è tutto questo che riceve senso, significato nuovo dalla risurrezione di Gesù. C’è infatti un particolare interessante nei racconti delle apparizioni di Gesù risorto: lui mostra intenzionalmente le piaghe aperte dai chiodi, come per dire: Guardate che questa è la strada per giungere alla Vita in pienezza: la Croce (con tutto quello che significa “croce”...).
Quello che sul piano umano era solo materiale di scarto (il soffrire è materiale di scarto nell’esperienza umana: lo si butterebbe via come le immondizie, se solo si potesse...), ebbene, tutto questo nella logica di Dio può impreziosire la vita a tal punto da darle un valore inestimabile. “Può”, dico, non è detto che lo faccia automaticamente: ci sono vite e persone abbrutite, svilite dalla sofferenza … e ci sono vite e persone nobilitate, affinate, impreziosite da quella stessa sofferenza… Da cosa dipende? Dal modo, dallo spirito con cui la si affronta: se la persona mantiene ostinatamente la sua fiducia in Dio e non cessa di amarlo, e di amare anche chi le sta attorno, allora sì: quella sofferenza la nobilita, la affina, la impreziosisce, davanti a Dio e anche davanti agli uomini. “Gesù si è fatto obbediente a Dio fino alla morte...- cantavano i primi cristiani - proprio per questo Dio lo ha innalzato oltre ogni immaginazione”. E’ una logica, questa, che farà sempre arricciare il naso a tanta gente, in qualsiasi epoca del mondo: è “lo scandalo della croce” questo, come lo chiama san Paolo... Ciò non vuol dire che i cristiani debbano cercare di proposito la sofferenza: non siamo affatto masochisti - come non lo era Gesù del resto - ma questo ci permette di guardarla con occhi diversi da prima allorchè si presenta sulla nostra strada.
Questa preziosità, questo valore inestimabile agli occhi di Dio, non lo capiremmo se Gesù non fosse risuscitato... E’ la risurrezione che accredita, che svela il misterioso valore della vita, della persona che soffre. E’ la 15° stazione (la risurrezione) quella che impreziosisce tutte le 14 della Via Crucis che vengono prima.
Allora può farsi strada una convinzione originale e irrinunciabile nell’animo dei cristiani, e cioè questa: che se c’è dolore, c’è anche vita nuova; se c’è sofferenza e morte, c’è anche risurrezione; se c’è Venerdì santo non è possibile che non ci sia anche la Pasqua. Ormai la croce non esiste più da sola: comporta necessariamente la risurrezione: sono come le due facce di un’unica medaglia.
Ah, certo: può darsi che lo spazio intermedio tra l’una e l’altra duri più di tre giorni... può darsi che nel corso della mia esperienza terrena io non arrivi a verificare la faccia “pasquale” della mia croce, ma è comunque certo: non c’è mai più l’una senza l’altra. Per il cristiano che “vive in Cristo” - come si esprime Paolo - un rapporto inscindibile lega ormai l’esperienza del soffrire e l’esperienza del risorgere.
Ma anche SUL PIANO DEL DINAMISMO, DELLA VITALITA’ ci sono conseguenze.
Infatti, la forza divina, la potenza che ha risuscitato Gesù, è anche affar nostro. Ci riguarda e ci coinvolge direttamente. Ce lo confermano gli Apostoli, qua e là nelle loro lettere, proprio quando parlano della risurrezione di Gesù: la mettono sempre in relazione, in combinazione, con la nostra esperienza di fede.
Qualche esempio:
- “questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede” (1Gv).
- se Cristo non è risorto, è vana la vostra Fede (1 Cor. 15,17)
- scrivendo ai cristiani di Efeso, Paolo augura loro di rendersi conto della straordinaria potenza con cui Dio agisce nella loro vita di Fede; e aggiunge che è la stessa straordinaria potenza che ha dispiegato quando ha risuscitato Gesù (1,19)
Non solo la fede, però, anche la speranza è coinvolta dalla risurrezione di Gesù:
“Mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, Dio, il Padre, ci ha rigenerati a una speranza viva”...scrive Pietro ai cristiani dell’Asia Minore (1Pt 1,3). Sperare da credenti (è questa la speranza viva!), cioè sperare anche contro ogni speranza, è aprire le porte della propria vita alla potenza della Risurrezione.
Non è finita: la carità – cioè la carica d’amore che ci dona Dio – come potrà non essere potenziata dalla risurrezione di Gesù?
Infatti, scrive san Giovanni: “noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita (e questo è risurrezione) dal fatto che amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte”.
Quindi, amare con quell’amore forte che Dio rende possibile anche a noi, significa aprire le porte alla potenza della risurrezione.
In altre parole: Fede - Speranza – Carità sono i canali attraverso i quali arriva fino a noi la forza della Risurrezione. E’ per questo che si chiamano “virtù teologali”. Ebbene, chi tiene aperti questi canali, consente a Dio di entrare nella sua vita, nella vita della sua famiglia, nella comunità, nella società stessa, con la stessa forza che ha messo in atto per risuscitare Gesù.
Quando tu credi, nonostante tutte le smentite - quando tu speri, contro ogni speranza - quando tu ami, come ti ha insegnato ad amare Gesù, tu partecipi alla Risurrezione. Allora, la potenza della Risurrezione può entrare nel mondo attraverso di te.
Insomma, con la Fede, con la Speranza e con la Carità, noi abbiamo tra le mani un potenziale enorme: la forza divina della risurrezione. Auguriamoci di esserne consapevoli e di saperlo adoperare bene.